Quante volte avete sentito l'adagio per cui “Gli allevamenti intensivi sono la prima causa del riscaldamento globale”? È entrato così tanto nelle nostre orecchie da diventare una verità scontata, che diamo per buona senza farci domande, un po' come “Gli immigrati rubano il lavoro” o “Il turismo è il nostro petrolio”.
Diversi personaggi pubblici di spicco ce l'hanno ripetuto a ogni piè sospinto, da Di Battista alla redazione del Fatto Quotidiano, che si è mostrata inusualmente critica verso Conte quando è stato sorpreso a mangiare un hamburger dopo un vertice sul clima.
I luoghi comuni su allevamenti e industria della carne non risparmiano nessuno. Persino il nuovo ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, apprezzato (o temuto) proprio perché privo di certi riflessi condizionati dell'ambientalismo classico, ci è cascato.
Carne e CO2: le proporzioni corrette
Parlando alla conferenza preparatoria della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, Cingolani ha dichiarato: “Sappiamo che chi mangia troppa carne subisce degli impatti sulla salute, allora si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali. D’altro canto, la proteina animale richiede sei volte l'acqua della proteina vegetale, a parità di quantità, e gli allevamenti intensivi producono il 20% della CO2 emessa a livello globale”.
Se le sue prime affermazioni sono bene o male condivisibili, l'ultima è decisamente errata.
Già se consideriamo tutti i gas a effetto serra, convertendoli in CO2 equivalente, l'impatto di tutti gli allevamenti (intensivi, estensivi, biologici, di pesce, per uova, ecc.) compresa l'intera filiera (imballaggio, trasporto, conservazione, ecc.) non arriva al 17% delle emissioni mondiali.
Ma se consideriamo la CO2 da sola, ci manca poco che non compaia neanche nel grafico: i gas a effetto serra prodotti dal settore agricolo sono infatti soprattutto il metano (equivalente a 3,5 miliardi di tonnellate di CO2) e l'ossido di diazoto (equivalente a 2 miliardi, dati CAIT).
Nel settore agricolo la CO2 propriamente detta deriva quasi solo dal land use change, ovvero dal cambio di destinazione d'uso di un terreno, come quando si incendia una foresta per trasformarla in campo coltivabile.
Affermare che il 20% della CO2 globale venga emesso dagli allevamenti intensivi è, insomma, una grossa svista.
Allevamenti in Italia: un’eccellenza mondiale per la sostenibilità
Ma il vero errore da rimproverare a Cingolani non è aver fornito un dato inesatto. Questo può capitare a chiunque. Il vero errore è stato prendere di mira un settore dove invece noi italiani abbiamo fatto passi da gigante e potremmo dare lezioni al resto del mondo quanto a sostenibilità.
Premesso che nel consumo di carne non bisogna eccedere (chi scrive questo articolo non la cucina più di tre volte alla settimana compresi i sughi), se c'è qualcuno che sa produrre carne sprecando poca acqua ed inquinando poco siamo proprio noi italiani.
Nell'ultimo mezzo secolo i chili di metano emessi per ogni chilo di proteina animale sono crollati da 27 a 12, tant'è che l'ISPRA stessa quantifica l'inquinamento causato dalla zootecnia in appena il 5,6% del totale. Due performance ben al di sotto della media mondiale e della media dei paesi sviluppati.
Da un lato è merito della tecnologia: per fare solo tre esempi, l'Italia è uno dei paesi leader negli impianti a biogas e a biometano, che trasformano il letame animale e gli scarti agricoli in biocombustibili; nell'uso di software per dosare al millimetro il nutrimento degli animali (anche allo stato semibrado); nell'uso di impianti di ventilazione all'avanguardia.
Dall'altro lato siamo uno dei paesi col migliore mix tra intensivo, estensivo e biologico, senza peraltro subire il più temibile contraccolpo degli ultimi due, cioè l'aumento del consumo di suolo: il graduale abbandono dei terreni agricoli e dei pascoli al quale stiamo assistendo da decenni non ne sembra, almeno per ora, intaccato.
La stessa gestione dell'acqua per usi agricoli e zootecnici, che tra l'altro solo per il 4% è acqua “blu” (cioè dolce) mentre per il 94% è acqua “verde” (cioè piovana) e per il restante 2% è acqua “grigia” (cioè di scarico), in Italia è particolarmente efficiente: i famosi 15.400 litri d'acqua necessari per un chilo di manzo nel Belpaese scendono a 11.500, e un chilo di maiale “beve” più o meno quanto un chilo di fagioli.
In breve, siamo un'eccellenza mondiale non solo per la bontà della Cinta e della Scottona, ma anche per la capacità di produrle con un'impronta ecologica non proibitiva.
È un fatto che non viene mai abbastanza sottolineato. I media continuano a inscenare uno scontro caricaturale tra carnivori che difenderebbero la Scottona solo per il suo sapore e asceti ambientalisti che se ne privano perché troppo inquinante o troppo crudele, quando siamo forse l'unica nazione che può proporsi come modello - migliorabile, per carità - di sostenibilità nella filiera della carne.