Ma come illustra una recente ricerca dell’Università californiana UCLA – “Existential risk due to ecosystem collapse: Nature strikes back”, pubblicata su Futures – nella maggior parte dei casi la catastrofe descritta in modo più o meno spettacolare o di successo ai botteghini non nasce dal rifiuto o dall’ignoranza – così come avviene nella realtà quando si parla di disastri ambientali. Al contrario, si preferisce sempre dare la colpa del disastro all’avidità umana o all’egoismo di pochi “cattivi”. Una scelta, dice la ricerca ma anche il buon senso, che non aiuta certo a mettere in moto le contromisure giuste per evitare i disastri.

La paura dell’Apocalisse è vecchia come l’umanità. Già nell’epopea mesopotamica di Gilgamesh, scritta intorno al 2100 a.C., troviamo la storia di un’alluvione voluta da un Dio vendicativo. A quanto pare, in quattromila anni e più non è cambiato granché nella cultura popolare, almeno così come viene rappresentata da Hollywood. 

Peter Kareiva e Valerie Carranza, gli studiosi dell’Institute of the Environment and Sustainability dell’UCLA autori della ricerca, hanno esaminato i blockbusters catastrofici usciti nelle sale cinematografiche tra il 1956 e il 2016, escludendo per definizione quelli in cui le catastrofi sono decise da Dio. La prima osservazione è che nella maggior parte dei casi l’apocalisse avviene per invasioni aliene, virus geneticamente modificati, intelligenze artificiali, per una guerra globale o per un qualche meccanismo che rende la tecnologia incontrollabile. Solo in 10 dei film considerati – il 17% – i disastri sono collegati a catastrofi ambientali.

In 4 film la colpa viene data all’avidità finanziaria delle grandi corporations: ne “La Sindrome Cinese”, “Silkwood”, “Erin Brokovich, e “The Lorax” ci sono infatti grandi aziende che volontariamente inquinano l’ambiente per ricavare profitti. Negli altri sei – “Interstellar”, “The Adventures of the Wilderness Family”, “Star Trek VI: The Undiscovered Country”, “Waterworld”, “The Day After Tomorrow”, “Wall-E” – viene prospettato un futuro in cui la Terra è diventata invivibile a causa di una società miope che deliberatamente non ha preso le iniziative necessarie per evitare la catastrofe ambientale. Di norma, in questi film il disastro che incombe viene percepito da qualcuno dei protagonisti; ma il nostro eroe non viene creduto o viene ascoltato quando ormai è troppo tardi.

Quel che conta, dicono gli studiosi, è che la responsabilità della catastrofe non viene mai attribuita al colpevole più plausibile: l’ignoranza dei fattori di rischio ecologico che possono provocare la catastrofe stessa. “A Hollywood – scrivono Kareiva e Carranza – i disastri ambientali sono sempre conseguenza di fallimenti umani individuali, mai la conseguenza di ignoranza nella comprensione scientifica di certi fenomeni”. E non è un caso che nessuno di questi film riesca a definire un futuro possibile a partire da una consistente e reale scienza ambientale o da una seria comprensione dei meccanismi ecologici.

Per certi versi non è un problema molto serio. I film sono film, liberi dall’esigenza di rispettare le regole del mondo reale. Però si tratta di rappresentazioni popolari del fattore disastro. E da questo punto di vista l’elemento interessante che emerge dallo studio è che i disastri “pop” sollecitano le persone del mondo reale a guardare nel posto sbagliato quando si tratta di capire dove stanno veramente i cosiddetti “pericoli esistenziali”. Ed anche se è assodato che il cambiamento climatico è provocato dai comportamenti umani, è molto più facile dare la colpa a pochi crudeli “capitani d’azienda”, piuttosto che a tutti noi quando scegliamo di prendere l’automobile per andare in ufficio piuttosto che il mezzo pubblico o la bicicletta. 

Sappiamo benissimo che danni gravissimi all’ambiente vengono prodotti da certe politiche aziendali o economiche, o da atti puramente criminali, come spargere deliberatamente sostanze tossiche in un fiume. Ma fatichiamo a immaginare che più spesso il rischio di catastrofe ambientale deriva da piccoli comportamenti individuali, magari in buona fede. O peggio, da una “ignoranza di massa” di conseguenze potenziali di fenomeni che conosciamo ancora poco e male. Insomma, a volte il “cattivo” siamo noi. O la nostra incapacità di comprendere la realtà in cui viviamo. 

 

 

P. Kareiva, V. Carranza, “Existential risk due to ecosystem collapse: Nature strikes back”, Futures; www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0016328717301726