Lo scorso 10 settembre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il d.lgs con il quale il Parlamento italiano ha recepito la direttiva CSRD sul reporting di sostenibilità. Un passaggio di fatto formale, ma che introduce modifiche decisamente sostanziali per le imprese interessate.

Cosa prevede la CSRD

La CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) è parte dell’European Green Deal, l’insieme delle iniziative per mezzo delle quali l’UE è decisa a raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C stabilito dagli Accordi di Parigi. È, dunque, una direttiva pienamente inserita nella strategia di sostenibilità dell’Unione.

Cosa prevede? La CSRD fissa l’obbligo per le aziende europee che superano alcune soglie di dimensione di elaborare e pubblicare una propria relazione di sostenibilità (“Bilancio di Sostenibilità”) attraverso la quale mettere a disposizione degli stakeholder le informazioni riguardanti le specifiche degli impatti in ambito ESG e le modalità della loro gestione. Non solo: congiuntamente alla CSRD, l’EFRAG ha pubblicato gli standard di rendicontazione europei (ESRS) che dovranno essere rispettati nella stesura dei bilanci. Tra gli obiettivi più importanti di questi standard c’è lo sforzo di rendere trasparenti e comparabili i report di sostenibilità.
Sono numerose le novità introdotte dagli ESRS rispetto ai precedenti standard comunemente utilizzati in ambito UE (i GRI). Le più rilevanti riguardano la metodologia indicata per l’individuazione degli impatti, rischi e opportunità (IRO) sui temi di sostenibilità (in gergo tecnico, l’analisi di materialità) e l’estensione dell’orizzonte di valutazione.

La doppia materialità

Mentre la rendicontazione ante ESRS prevedeva unicamente di determinare, in sede di materialità, gli impatti generati dall’azienda sui suoi stakeholder (ambiente, forza lavoro, clienti, fornitori, comunità locali, ecc.), oggi a tale operazione va aggiunta la cosiddetta “materialità finanziaria”, ovvero il processo con cui l’impresa identifica i rischi e le opportunità connessi alla sostenibilità e che influiscono il suo business. Pensiamo al clima: una qualsiasi attività produttiva consuma energia e, considerando l’attuale mix energetico, genererà come impatto l’emissione di gas serra che contribuiranno al global warming. Con la materialità finanziaria, l’azienda dovrà anche tenere conto sia dei rischi fisici connessi al clima (per esempio, i possibili danneggiamento e/o blocchi della produzione a causa di eventi meteorologici avversi resi più frequenti e intensi dalla crescita delle temperature), che dei rischi di transizione e delle opportunità (l’evoluzione delle normative UE può tradursi in maggiori costi, ma anche nello sviluppo di nuove aree di mercato).

Una prospettiva allargata su rischi e opportunità

L’altra grande novità è l’estensione della prospettiva entro cui considerare gli IRO, allargata alla catena del valore dell’azienda. Essa comprende tutte le attività a cui l'impresa fa affidamento per creare prodotti o servizi. La catena del valore include la catena di fornitura, ma si allunga fino alle fasi di distribuzione, uso/consumo dei beni e la gestione del loro fine vita. Ciò vuol dire che per la valutazione delle tematiche di sostenibilità rilevanti è necessario considerare tutte le attività che avvengono nella catena del valore e rispetto alle quali l’azienda può essere più o meno direttamente responsabile e/o interessata dalle conseguenze.
Prendiamo l’esempio di un’impresa tessile che si occupa della lavorazione di materie naturali prodotte a grande distanza dallo stabilimento produttivo: è chiaro che l’azienda non determina impatti diretti sulla biodiversità, ma essi si generano nella sua catena del valore, e dunque devono essere considerati in sede di materialità. Ovviamente specificandone le caratteristiche: l’impresa è messa nelle condizioni di spiegare che è conscia di tali impatti, ma che per ragioni oggettive non è in grado, oggi, di poterne mitigare gli effetti. Questo tipo di valutazione dev’essere svolta anche sui rischi e le opportunità (come esempio, si pensi alla discussione sull’estensione del CBAM al settore tessile).

Nessuno è sostenibile da solo

E qui si palesa uno dei messaggi chiave della CSRD: nessuna azienda può diventare sostenibile da sola, se consideriamo i suoi impatti nella catena del valore. L’indicazione, molto forte, è di creare collaborazioni e sinergie con gli stakeholder per condividere obiettivi, azioni e strategie, poiché tutti ricevono spinte (dalla normativa, dal mercato, ecc.) verso la sostenibilità. Emerge l’idea che nessuno si trova ad affrontare da solo la transizione ecologica, ma che essa è un processo dove collaborazione e condivisione sono cruciali.

Se pensate che l’introduzione di tutte queste novità implichi un aggravio per le imprese, non sbagliate. Ma sono anche, e non lo si dice per consumata retorica, una grande opportunità, poiché gli standard ESRS offrono riferimenti completi e precisi per aiutare un’azienda a intraprendere un serio percorso di sostenibilità. Senza imporre alcuno obbligo: la CSRD chiede trasparenza, non la perfezione. Perciò, qualsiasi azienda è libera di fare sostenibilità “quanto basta” e limitarsi alla mera compliance. Certo, si dubita che i suoi stakeholder potranno ritenersi soddisfatti.

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