Il governo italiano ha sostenuto la food company Venchi per aprire negozi di cioccolato e gelaterie in tutta l'Asia. Gli Stati Uniti hanno offerto un prestito per l'espansione di un hotel costiero ad Haiti. Il Belgio ha sostenuto il film La Tierra Roja, una storia d'amore ambientata nella foresta pluviale argentina. E il Giappone sta finanziando una nuova centrale a carbone in Bangladesh e l'ampliamento di un aeroporto in Egitto.

Così inizia l’inchiesta pubblicata il 1 giugno da Reuters sulla finanza climatica. L’articolo parte dalla curiosa storia del finanziamento a cinque improbabili progetti, costati 2,6 miliardi di dollari e conteggiati sotto il nome di "climate finance", ovvero sovvenzioni, prestiti, obbligazioni, garanzie, investimenti azionari e altri contributi pubblici destinati ad aiutare le nazioni in via di sviluppo a ridurre le emissioni e ad adattarsi al cambiamento climatico, registrati all’interno dell’Accordo di Parigi.

La mancanza di trasparenza e accuratezza della finanza climatica

Sono anni che personalmente seguo il tema della finanza climatica, dai crediti di carbonio ai 100 miliardi l’anno per la decarbonizzazione, obiettivo affermato durante i negoziati sul clima a Parigi nel 2015 (ma annunciato da Obama durante il fallimentare negoziato di Copenhagen, COP15). Sono anni che sussistono vari problemi nella contabilità della finanza climatica, l’impegno finanziario dei Paesi ricchi per sostenere la decarbonizzazione in quelli meno sviluppati: doppia contabilità (ad esempio un progetto di cooperazione allo sviluppo in un LDC può essere conteggiato nel goal Ocse dello 0,7% del PIL per gli Aiuti Pubblici allo Sviluppo ma anche negli impegni di climate finance all’interno dell’Accordo di Parigi), scarsa tracciabilità (come successo ad esempio con vecchi progetti all’interno del Clean Development Mechanism), inappropriatezza del finanziamento, o semplice inaccuratezza nella gestione di dossier così importanti (come nel caso dei soldi sborsati al colosso del food Venchi).

Non sorprende quindi ribadire come la scarsa accuratezza nella rendicontazione da parte dei paesi firmatari dell'Accordo di Parigi abbia reso impossibile dire quanti soldi andranno a sforzi che aiutano veramente a ridurre il riscaldamento globale e il suo impatto. Una delle ragioni,  è che i Paesi spesso non comunicarano i dettagli del progetto, spesso accompagnati da descrizioni vaghe, “tanto che in migliaia di casi non identificano nemmeno il Paese in cui è andato il denaro”. Anche i Paesi riceventi, elencati nei rapporti, a volte non sono in grado di dire come sono stati spesi i soldi. Con buona pace del vecchio adagio giornalistico “follow the money”, in alcuni casi non si sa nemmeno dove siano finiti i fondi e in quali pool di rendicontazione siano stati allocati (il caso delle risorse della cooperazione è emblematico, dagli Usa all’Italia).

Dalla lotta al crimine ai gelati Venchi: cosa c’entra il clima?

Certo parliamo di una quota minoritaria: una fetta importante di risorse della climate finance sostiene concretamente progetti di decarbonizzazione e adattamento efficaci e propriamente rendicontati. Ma anche se minoritaria, non si parla di bruscolini. Secondo Reuters, che ha revisionato circa il 10% dei report di rendicontazione sulla climate finance, nei libri contabili si celano 3 miliardi di euro per il clima non spesi in pannelli solari o progetti di piantumazione di mangrovie, bensì in progetti di efficientamento di centrali elettriche a fonti fossili, aeroporti, progetti di lotta al crimine, turismo e altre cose poco legate alla questione del cambiamento climatico. Ben 65 miliardi invece sono indirizzati a progetti così poco delineati che a fatica si possono classificare. Errore di contabilità, noncuranza, incompetenza?

Il caso italiano è forse il più emblematico – e grossolano – di tutti. Il cioccolatiere italiano Venchi, per aprire decine di nuovi negozi in Giappone, Cina, Indonesia, ha ricevuto circa 4,2 milioni di euro da SIMEST, una società di Cassa Depositi e Prestiti che aiuta aziende italiane ad espandersi all'estero. Soldi che sono stati conteggiati sotto l’impegno del Paese nella finanza climatica entro l’Accordo di Parigi. Secondo Reuters “un portavoce del Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano, responsabile dei rapporti delle Nazioni Unite del Paese, ha affermato che il progetto ha una componente climatica ma ha rifiutato di elaborare”. Venchi dichiara a Materia Rinnovabile di non essere a conoscenza della rendicontazione. "Non siamo al corrente, non ci risulta. Vorremmo precisare che stiamo parlando di un investimento nel capitale di una consociata asiatica di Venchi nel 2018", spiega in una mail il brand. "Secondo noi è stata fatta confusione tra diversi finanziamenti, abbiamo infatti emesso un green bond alla fine del 2022 con SACE". Forse più che mancanza di trasparenza è solo cattiva amministrazione. O forse il tentativo di far quadrare i conti della finanza climatica.

 

Tempo di una riforma della rendicontazione

Tempo dunque di una nuova riforma della rendicontazione, problema che si presenterà con chiarezza alla prossima COP di Dubai, che sulla finanza climatica si attende rovente. E la rendicontazione è solo l’inizio. A breve il mondo dovrà fare i conti con gli effetti delle allocazioni improbabili del Recovery Plan europeo, del “pork” del piano spesa di Biden (chi si ricorda il crack Solyndra del 2011 finanziata con 535 milioni di dollari federali?), e dell’immensa mole di finanza privata investita in decarbonizzazione ed economia circolare classificata con i rating ESG, tanto entusiasmanti quanto potenzialmente pericolosissimi.

Finanza climatica, rendicontazione non finanziaria legata ai prestiti, green circular e biodiversity bond. Non parliamo di una bolla economica o di una nuova crisi economica. Qui si gioca il futuro del pianeta e dell’economia su lungo, lunghissimo termine.

Immagine: Envato Elements