Decrescita, ecosocialismo, steady-state economy a loro modo sono tutti movimenti che mirano a ridisegnare l’attuale modello economico, abbandonando il capitalismo. Ma da cosa nasce questo desiderio? E, soprattutto, la crescita è davvero qualcosa a cui possiamo rinunciare di fronte all’impellenza della crisi climatica?
Materia Rinnovabile ne ha parlato con Alessio Terzi, economista presso la Commissione europea, docente a Sciences Po a Parigi e autore di Growth for Good: Reshaping Capitalism to Save Humanity from Climate Catastrophe (Harvard University Press, 2022).
Dobbiamo davvero limitare la crescita per salvare noi stessi e l'ambiente? Insomma, il problema è il tipo di economia che abbiamo ora, il tipo di crescita o la crescita in sé?
La crescita non è iniziata con la rivoluzione industriale, non è iniziata con l'estrazione di combustibili fossili e non finirà nel momento in cui smetteremo di utilizzarli. Ovviamente abbiamo bisogno di un nuovo modello. È già successo in passato, in qualche modo dobbiamo rifarlo e transitare verso un nuovo modo di interpretare la crescita, “verde” o “sostenibile” se vogliamo usare degli slogan.
Lei scrive che la crescita, intesa come miglioramento e desiderio di avere di più, è qualcosa a cui l’uomo ha sempre aspirato. Cosa intende?
È questo desiderio di miglioramento, non necessariamente inteso in senso materiale, unito al nostro unico “superpotere” come animale – cioè la capacità di sviluppare tecnologia, know-how al servizio di questo desiderio - a generare crescita. È un’unione che aumenta lo spettro delle possibilità. Se la interpretiamo così vediamo che l'intera storia umana è caratterizzata da questo processo: abbiamo creato vestiti per poterci spostare a latitudini più alte, iniziato a navigare per poter pescare in mare aperto o aprirci al commercio e sviluppato l'agricoltura grazie ai primi insediamenti.
Quanto è veloce, ora, questo processo di crescita?
Nella storia la crescita è sempre stata lenta perché lento era lo sviluppo di nuove tecnologie, che ha accelerato intorno alla rivoluzione scientifica. Poi ci sono tutta una serie di motivi per i quali lo sviluppo tecnologico al servizio di nuovi bisogni genera un processo di crescita. Bisogni che oggi sono ridurre le emissioni, riconciliarci con la natura, migliorare il nostro impatto sulla biodiversità.
Quali sarebbero le conseguenze negative dell’abbandono della crescita?
Ovviamente, e queste sono le critiche spicciole che vengono fatte dagli economisti “mainstream”, se interrompessimo hic et nunc il processo di crescita ci sarebbero tutta una serie di problematiche all'interno del contesto corrente, come ad esempio la sostenibilità del sistema pensionistico. Detto ciò, nel libro cerco di fare anche un po’ di giustizia a quella che è la scuola di pensiero alternativa – come movimento della decrescita, ecosocialismo, steady-state economy – che re-immagina l’intero sistema in un modo più profondo di così. Queste correnti, tra cui comunque ci sono delle sfumature, direbbero che problemi come recessione, disoccupazione, miseria avvengono perché si pensa di arrestare la crescita all’interno di un contesto di sistema capitalistico.
Quella visione di decrescita assume che il non accontentarsi di quanto già abbiamo sia un prodotto del sistema stesso. Secondo loro bisogna reinventare completamente la società, abbattere il sistema attuale e ridisegnarlo con principi diversi. Servirebbe, insomma, prima liberare gli esseri umani dalla gabbia dorata del capitalismo. Ed è qui il punto fondamentale dove andiamo in disaccordo: l’origine di questo loro desiderio.
Sta dicendo che non è necessario iniziare ad accontentarsi?
Questa idea che gli esseri umani possano vivere accontentandosi di quello che hanno è un tema ricorrente anche tra le religioni, dal Cristianesimo al Buddismo all'Islam. L’accontentarsi di quello che si ha, soprattutto sulla scala materiale, il concentrarsi su beni immateriali che siano l'amicizia, l'amore, la cultura, la conoscenza sono temi che non sono invenzione del movimento della decrescita. Pertanto, se come me vedi il “non accontentarsi” come connaturato agli esseri umani, tutte le teorie che vogliono ridisegnare l'economia e la società vanno contro natura, rischiando di generare tutta una serie di incentivi perversi.
Ad esempio?
Certo, si può ridisegnare l'economia con un approccio top-down, che cerca di imporre questa questa visione del mondo, ma la gente se ne andrà. Ci saranno processi di migrazione di coloro i quali cercano di realizzarsi, di innovare, creare nuove imprese e nuovi modi di fare. L’alternativa è costringere, cioè avere regolamenti costrittivi che ti impongano ad esempio di utilizzare la macchina soltanto per dieci chilometri o di non utilizzare l'aereo. Ma così tutto diventa un perverso schema di divieti.
E come si può continuare a crescere nel rispetto dei limiti planetari, cioè quei margini all’interno dei quali la vita umana può continuare a prosperare?
Partiamo dal presupposto che dimensioni come biodiversità, acidificazione degli oceani, ciclo dell’azoto - di cui si parla nei Planetary Boundaries teorizzati da Rockstrom - sono problemi reali che non discuto. Però riconosco che la sfida ambientale è più ampia. Il fatto che queste sfide, anche visivamente, siano inserite in un cerchio costringe lo spettro delle possibilità. Nel cercare di rispondere a queste sfide probabilmente ne creeremo delle altre, che non sono al momento previste.
Ogni innovazione nella storia ha creato dei problemi successivi, che a loro volta abbiamo poi cercato di risolvere: la nascita dei primi insediamenti stanziali ha generato ovviamente dei benefici, ma ha facilitato le epidemie, per colpa del trasferimento di malattie tra gli animali e gli esseri umani che a questo punto vivevano a stretto contatto. In chiave più recente, possiamo pensare al ciclo Haber-Bosh. In un’epoca, la fine dell’Ottocento, in cui la produttività dell'agricoltura era in discesa e le quantità di guano utilizzate come fertilizzante azotato non erano più sufficienti, grazie ad Haber-Bosch si è iniziato a sintetizzare azoto dall'atmosfera, utilizzato ancora oggi per concimare i campi. Un’invenzione che è alla base del problema attuale del ciclo dell'azoto.
Meglio scorporare i problemi e abbandonare l’approccio sistemico?
Una cosa è buttare giù i silos da un punto di vista disciplinare, cioè dire abbiamo un problema complesso e attacchiamolo da punti di vista diversi. E credo che sia anche in linea con lo spirito del libro, che appunto non è un libro di economia, ma cerca di aprire e prendere spunto dall'antropologia alla sociologia, alla psicologia sociale, alle scienze evoluzionistiche.
Tuttavia – e forse verrò accusato di approccio riduttivo – tentare di risolvere tutte le sfide del momento in modo singolo tendenzialmente poi si riduce a cercare il nemico comune e dire “dobbiamo abbattere il capitalismo”. Io non metto il veto su questa possibilità, non difendo il capitalismo per amore del capitalismo, ma analizzo queste critiche chiedendomi se questo system change ci aiuti davvero a risolvere i problemi complessi che abbiamo davanti a noi.
Sarà sempre il Prodotto interno lordo (PIL) la misura di questa crescita?
PIL e crescita non sono la stessa cosa. La crescita è il processo da un punto di vista teorico, mentre il PIL è un indicatore che cerca di misurarla. A volte lo fa bene, a volte lo fa peggio. È un indicatore statistico che ha dei problemi, se vogliamo ulteriori rispetto alla dimensione climatica ambientale. Ad esempio, fa fatica a catturare l’economia digitale, dei servizi. È un indicatore che è stato sviluppato in un'epoca in cui l'80% della produzione era manufatturiero e 20% servizi. Ora è l’opposto. Già oggi noi però non misuriamo il PIL per come l'ha definito Kuznets negli anni ‘40. Costantemente agenzie di statistica nazionali, Eurostat, Onu, Ocse e FMI si incontrano per cercare di migliorare il modo in cui misuriamo la crescita. Tra l'altro il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare nel 2025 e cercherà di catturare anche la dimensione ambientale dei servizi ecosistemici.
E perché non ci libereremo del PIL?
Continueremo a misurarlo perché il processo di crescita rimane importante e genererà crescita anche all'interno di una transizione verde. Questo non vieta però di complementarlo, cioè considerare altri indicatori come dimensione delle disuguaglianze o delle emissioni di CO2 per comprendere se il processo di crescita che stiamo generando va a migliorare la qualità della vita degli individui.
Non ce ne libereremo perché il PIL ci dà una misura delle risorse che abbiamo come società che possono poi essere utilizzate per soddisfare i nostri bisogni. La visione filosofica che sottende a questa visione del mondo si può riassumere nel dire che le cose che vogliamo non cadono dal cielo e non avvengono per un processo di ritiro dell'umanità dal mondo. Il motivo per cui altri Paesi più poveri non hanno ospedali, scuole, infrastrutture, non è perché non sanno che queste cose sarebbero desiderabili, ma perché non hanno le risorse per poterle costruire.
Questo ci porta al tema della redistribuzione. Sarà un meccanismo automatico in questa “crescita verde”?
La transizione verde, diversamente da quella digitale che invece ha fortissime tendenze da “platform effect” ha meno tendenze di aggregazione. Tuttavia, la transizione verde assomiglia un po’ ad una rivoluzione industriale fatta a fronte di una timeline dettata dalla scienza climatica. La prima rivoluzione industriale è avvenuta su uno spazio temporale almeno di 80 anni, la seconda in poco meno. Noi questo tempo non lo abbiamo ed è questo il motivo per cui utilizziamo attivamente delle policy di governo per accelerare questa trasformazione.
Se impariamo da quelle esperienze sappiamo che andremo a distruggere tutta una serie di professioni e vecchie tecnologie, però creandone delle altre. In questi processi di trasformazione ci sono delle aree, delle persone e delle professioni che rischiano di rimanere indietro e quindi alla dimensione tecnologica bisogna prevedere policy per evitare che si creino queste sacche. Se le lasceremo indietro si opporranno alla nuova tecnologia, contro l’interesse della società intera.
Per fare un esempio guardando alla storia meno recente, come ricorda il professor Calestous Juma, la stampa a caratteri mobili si sviluppa e poi ci mette 300 anni per essere adottata dal mondo islamico. Ma perché? C'era tutta una serie di resistenze da parte di persone che avevano controllato in qualche modo il processo di scrittura e che vedevano invece il rischio di perdere questo potere, in un intreccio tra percezione e realtà. Se queste cose avverranno non riusciremo a fare la transizione verde o non riusciremo a farla alla velocità che ci serve. La sfida sociale si unisce a quella tecnologica.
Immagine: Envato Elements