Walter Stahel, il padre dell’economia circolare, rimane uno dei grandi visionari sistemici che hanno immaginato un’altra economia possibile. Nel 1976 già affermava che “applicare i principi dell’economia circolare alla manifattura permetterà al settore privato di creare posti di lavoro localmente, ridurre consumi, costi emissioni di gas serra e naturalmente rifiuto. Ma la transizione dall’economia industriale lineare a quella circolare comporterà trasformazioni strutturali radicali: significherà il passaggio da un’economia globale ad una regionale, dalla catena di produzione al ciclo di produzione, dall’ottimizzazione di tutto il processo manifatturiero alla vendita focalizzata sulla massimizzazione dell’uso del prodotto”. Una visione chiara, nitida, comprensiva di quelli che sarebbero stati i principali ostacoli a questa rivoluzione: il quadro normativo, la tassazione sul lavoro, la mentalità conservatrice di una classe dirigente in rapido invecchiamento. Lo abbiamo intervistato via Zoom in collegamento con la sua casa a Ginevra per una chiacchierata prima del suo intervento al talk di ReteAmbiente.
Economia circolare in Europa e pandemia Covid-19: come sta andando?
La crisi sanitaria ha fondamentalmente ridefinito l’importanza del lavoro produttivo e dei servizi essenziali. Il lavoro produttivo viene descritto come l’attività di qualcuno che produce qualcosa che può essere venduto e rivenduto, e con il Covid-19 ci siamo resi conto che i servizi essenziali – quelli nei settori della sicurezza, della salute, della raccolta dei rifiuti, dei trasporti pubblici e delle poste – non sono produttivi ma assolutamente indispensabili, mentre al contrario in molti casi il lavoro produttivo non serviva più. Dobbiamo quindi ripensare il contesto per una società resiliente e sostenibile, e non per un’economia efficiente, o come possiamo coniugare le due cose. Di fatto, l’economia circolare fa parte di questi servizi essenziali, i meccanici, gli idraulici o qualsiasi artigiano che poteva riparare un guasto all’impianto elettrico sono stati preziosi e hanno potuto lavorare perché fornivano un servizio basilare. Di contro, le fabbriche di automobili e di aerei, e molte altre ancora, sono state chiuse, perché non sono state considerate essenziali per la sopravvivenza. Vengono in mente le priorità di Maslow: Covid-19 ha dimostrato che le cose che servono per sopravvivere sono un’abitazione, il cibo e la sicurezza, e che tutte le persone coinvolte in questi settori hanno continuato a lavorare durante la pandemia. Chi vive in città ha riscoperto i produttori di cibo locali, e adesso tutti, persino a Ginevra, stanno andando nelle fattorie invece che nei negozi. Ci sono poi gli ospedali, abbiamo scoperto che tutte queste persone lavorano tantissimo e sono pagate poco, ed è iniziata tutta una discussione per capire come alzare gli stipendi di questi lavoratori autonomi essenziali.
Parliamo di bioeconomia circolare. Perché le materie biologiche sono così importanti per l’economia circolare?
L’economia circolare ha una parte naturale che è costituita principalmente da prodotti monouso come il cibo, l’acqua o la legna da bruciare. Ci sono alcune eccezioni, come il legname per l’edilizia. Il vantaggio è che questi materiali sono per loro natura circolari: se anche li buttiamo per incuria, la natura se ne occuperà. La vera questione è cosa succederà se entriamo in una bioeconomia moderna, con prodotti e processi come i farmaci biosimilari, l’editing dell’RNA, la biochimica, la farmacogenetica, l’ingegnerizzazione degli enzimi. Sono ancora materiali naturali ma sono manipolati o “migliorati”- qualunque sia il termine che vogliamo usare - con la scienza, e non sono sicuro che siano ancora compatibili con la natura. Dobbiamo quindi stare attenti a non ripetere lo stesso errore che abbiamo commesso con la plastica e altri materiali sintetici. Nell’Antropocene, la bioeconomia deve assumersi le stesse responsabilità che ci siamo assunti con i materiali sintetici. Dobbiamo mantenere il controllo, perché questa nuova bioeconomia non usa i vecchi materiali naturali di cui non dovevamo preoccuparci una volta che avevamo finito di usarli.
Quale può essere il contributo dell’economia circolare ai processi di decarbonizzazione?
L’economia circolare, e in particolare le riparazioni, il riutilizzo, il ricondizionamento, le ricariche e le riprogrammazioni, sostituiscono l’energia con forza lavoro qualificata, riducendo così i consumi di energia. Come sappiamo, consumare energia equivale a emettere CO2, tranne nel caso dell’energia idroelettrica. Il vero salto sarebbe la produzione circolare di energia: per me, l’energia circolare è l’idrogeno. Ci sono diversi modi per produrlo, alcuni sono ecologici e puliti, e sono questi che vanno promossi. Su questo tema la Germania ha presentato la propria strategia nazionale, il Giappone la porta avanti da 20 anni.
Potremmo poi sviluppare una seconda energia circolare se riuscissimo a praticare la cattura e l’utilizzo del carbonio: avremmo una nuova chimica, basata sul carbonio anziché sul petrolio, e allora potremmo effettivamente ridurre le emissioni di carbonio. Non dobbiamo catturare il carbonio e stoccarlo da qualche parte, non è così che risolveremmo il problema. Dobbiamo invece catturarlo e usarlo, esattamente come fanno le piante. Siamo però in una società industrializzata, e molte università stanno lavorando a questa tecnologia. C’è persino una partnership globale, penso che serviranno pochi anni prima che l’industria e i politici capiscano che l’idrogeno è credibile dal punto di vista tecnologico ed economico. Una volta che saremo in grado di gestirla, e credo che potremo farlo entro i prossimi 10 anni, potremo ridurre drasticamente le emissioni in CO2, o catturandole o trasformandole in idrogeno.
Di cosa parla il suo ultimo libro “Economia circolare per tutti”?
Si occupa fondamentalmente dell’economia industriale circolare, e sottolinea che le aziende hanno oggi molte opportunità di business. Una è l’estensione della durata dei prodotti, degli oggetti, delle infrastrutture, degli edifici, delle attrezzature, dei beni di consumo e degli investimenti. La questione centrale è che sono gli utenti e i proprietari a scegliere di estendere la durata. Tu, io o chiunque possieda qualcosa, può ripararlo o darlo a qualcuno che ne ha bisogno, ma è comunque una nostra decisione farlo, e in questo senso dobbiamo accettare di essere l’economia circolare. Qualsiasi oggetto, a un certo punto della sua vita, cesserà di essere necessario e smetterà di essere utile e dovrà quindi essere smantellato o smaltito. È quella che chiamo l’“era D”, che connette le leghe (metalliche) e le molecole, e dobbiamo capire che possiamo recuperare gli atomi e le molecole degli oggetti che non vogliamo più. Possiamo per esempio depolimerizzare i polimeri, è una cosa che già si fa per il nylon, per il plexiglas nero e per il polipropilene, e possiamo farlo anche per molti altri materiali. Qualcuno sta sperimentando alcuni enzimi che possono depolimerizzare le bottiglie in PET, in modo da recuperare i monomeri, cioè i materiali di base. È l’inizio di un lungo percorso scientifico, perché per molto tempo non abbiamo considerato queste possibilità.
Il terzo pilastro è la conoscenza delle opportunità dell’economia circolare, che oggi sono note solo agli addetti ai lavori, soprattutto alle PMI e ai fleet manager. Dobbiamo invece diffondere queste conoscenze nelle scuole, nei Parlamenti e nei consigli di amministrazione, di modo che le persone possano comprendere i risparmi e i benefici finanziari dell’economia circolare.
Un altro pilastro consiste nello sviluppare una metallurgia circolare, una chimica circolare, un’energia circolare – ho citato l’idrogeno – in modo da non produrre rifiuti che poi non sappiamo come smaltire. Tutti i nuovi materiali dovrebbero essere circolari.
Infine, dobbiamo imparare a usare la tecnologia per aggiornare i beni che abbiamo a disposizione: dobbiamo isolare meglio gli edifici esistenti, dobbiamo cambiare i motori delle auto, ci sono in giro milioni di motori diesel inquinanti, per non parlare di quelli con il software “truccato” che ingombrano i parcheggi negli Stati Uniti e in Europa. Queste auto potrebbero essere facilmente convertite e funzionare a metano nelle officine locali, le macchine sono perfette, sono i loro motori che hanno dei problemi. Quindi se converti i motori diesel e li fai funzionare con il metano non hai più bisogno di manipolare il software e hai una macchina che produce 1/3 di CO2 e di polveri sottili in meno. È molto più economico che buttarle via e costruirne di nuove.
L’idea alla base del libro è che dobbiamo cambiare il modo in cui pensiamo: dobbiamo guardare la realtà in modo diverso, e cogliere le numerose opportunità che abbiamo per risolvere rapidamente i problemi abbiamo davanti.
Perché un amministratore delegato dovrebbe leggere il suo libro?
Gli amministratori delegati sono come i professori universitari o i politici: sono prigionieri nel silos di ciò che hanno imparato. Per uscire da questi silos hanno bisogno di qualcuno che gli proponga una visione completamente diversa. Se leggono il libro dovranno confrontarsi con cose a cui non hanno mai pensato o che, come gli è stato insegnato all’università, non possono funzionare. Quindi devono valutare i vantaggi di quest’altra realtà, di questo nuovo paradigma, e ovviamente è difficile perché in un certo senso devono rinunciare alle loro convinzioni.
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