Quella che si vedeva sul grande schermo, quella in cui agiva Rick Deckard, un indimenticabile Harrison Ford, la Los Angeles del novembre 2019 (pensate, mancano solo due anni), era “vera”, credibile, reale, possibile. Per la prima volta forse l’arte cinematografica riusciva a proporre una versione plausibile, e non edulcorata, non anestetizzata, non buonista, non ripulita da meravigliose tecnologie, del nostro futuro. Una versione certamente distopica, cupa, preoccupante, angosciosa.
Tra qualche mese, i tanti appassionati già lo sanno, uscirà il sequel del primo film, Blade Runner 2049. Il regista è il talentuoso francocanadese Denis Villeneuve; Ridley Scott è produttore. Harrison Ford torna a indossare i panni di Deckard, mentre il ruolo del protagonista – un nuovo cacciatore di replicanti, chiamato “K” – è affidato a Ryan Gosling. Per adesso della storia, della trama e dell’ambientazione si sa poco, pochissimo. Ma dai trailer si capisce che trent’anni dopo lo stato di salute del pianeta è ulteriormente peggiorato. Al posto della Los Angeles sovraffollata e caotica ritroviamo una città diventata in gran parte disabitata e in rovina. Per chi ha letto il romanzo originale, è una situazione di degrado e disfacimento più simile a quella raccontata da Philip K. Dick, dove le conseguenze della World War Terminus condotta a suon di bombe atomiche hanno ridotto enormemente la popolazione umana, e reso un bene di valore inestimabile simbolo di ricchezza estrema un cavallo o una mucca.
Però in Blade Runner 2049 troveremo qualcosa di più moderno e terribilmente contemporaneo, e preoccupante. Lo ha detto il regista Denis Villeneuve: il film si svolge in un mondo in cui “il clima è impazzito, in cui l’oceano, la pioggia, la neve, tutto è diventato velenoso”. Non sappiamo molto di più. Vedremo a tempo debito se il sequel saprà mantenere le promesse. Se sceglierà la via della graduale morte della natura, come per esempio in Interstellar, oppure se ci presenterà uno scenario alternativo.
Non sarà comunque facile per il sequel riprodurre una monolitica e integrata ma credibile visione distopica del mondo, come riuscì a fare il film del 1982. Una angosciante atmosfera di paranoia, dove si capisce che il potere delle corporation non ha limiti, in cui la polizia è onnipresente e con poteri totali sulla vita dei cittadini e delle loro copie androidi, un mondo dove uomini e animali possono essere controllati da impianti biomedici e mentali, in grado persino di costruire ricordi artificiali. Quel mondo del 2019, disse Ridley Scott, era ispirato a certi quadri notturni di Edward Hopper, ai fumetti del disegnatore francese Moebius, al paesaggio industriale dell’Inghilterra settentrionale, alle fantasiose e immaginifiche architetture del futurista italiano Antonio Sant’Elia.
Nell’universo cinematico di Blade Runner protagonisti e comprimari agiscono all’interno di una catastrofe ambientale; non si capisce se solo incombente o se già avvenuta. Con continue e anomale piogge, forse acide, senza sole; con una vita naturale e animale probabilmente del tutto annientata, e ridotta a gadget nella sua versione clonata e ingegnerizzata; misteriose fiammate a simboleggiare fonti di energia certo non “pulite”. Un mondo in cui si sta talmente male, da dover scappare a ogni costo emigrando nelle colonie “extra-mondo”. Colonie nello spazio che comunque devono essere talmente terribili e orrende da obbligare i loro padroni a scatenare una continua e martellante propaganda tra le masse oppresse in questa terra denaturalizzata. Una vita dove regna la paura e la disperazione, l’apatia e l’alienazione. Quello che si può ben definire un futuro senza un futuro.
E quel che più fa spavento a noi, cittadini del 2017, è che questo incubo assomiglia troppo da vicino alla nostra realtà. Per saltare dalla vita che viviamo, a questa vita solo immaginata da un pugno di grandi artisti, non serve un improvviso e drastico cambiamento. Quello di Blade Runner è piuttosto il futuro che ci aspetta se continuiamo sulla nostra strada.
P. K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci 2015