Se c’è un problema ambientale che negli ultimi anni ha riscosso una crescente attenzione e consapevolezza è quello dei rifiuti marini. Un problema che accomuna tutti gli Stati del mondo e che, al contrario di quanto avviene di solito, non è causato – almeno direttamente – tanto dai Paesi industrializzati, quanto da quelli in via di sviluppo o recentemente sviluppati. Infatti, solo il 2% dei rifiuti marini deriverebbe – secondo il report The New Plastics Economy della Ellen MacArthur Foundation – da Europa e Stati Uniti.
Ridurre la quantità di rifiuti marini risponde a diversi degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs): in particolare al 12° (consumo e produzione responsabili) e al 14° (la vita sott’acqua).
Secondo la Commissione europea l’80% della plastica presente negli oceani proviene dalla terraferma, mentre soltanto il 20% è il risultato di attività collegata all’acqua. A causare la dispersione di plastica e di altri materiali in mare è spesso la mancanza di infrastrutture che vanno sviluppate e rese facilmente accessibili, in particolare nel Sudest asiatico e in Cina. Recenti ricerche considerano i Paesi asiatici responsabili dell’80% dei rifiuti oceanici.
Migliorare le infrastrutture e la raccolta di rifiuti nei Paesi maggiormente responsabili del marine litter è dunque la soluzione migliore. Tuttavia, in attesa che le infrastrutture vengano migliorate e siano definite pratiche positive, occorre ridurre la quantità di rifiuti marini già presenti per scongiurare le stime secondo cui nel 2050 nei mari ci sarà – in termini di peso – più plastica che pesci.
Tanti sono i programmi in corso per cambiare rotta: dalla Global partnership on Marine Litter dell’Onu al Marine Litter Watch (MLW), modello – completo di un’app mobile – sviluppato dall’European Environment Agency che combina il coinvolgimento dei cittadini con le tecnologie moderne per ridurre il gap informativo riguardante i rifiuti marini trovati sulle spiagge, rilevante per la politica ambientale marina dell’Unione Europea (Marine Strategy Framework Directive).
Ma al di là delle azioni di istituzioni ed enti politici (per esempio enti territoriali, fondazioni e organismi internazionali), numerose sono anche le iniziative di comuni cittadini, partnership europee e multinazionali che hanno come obiettivo comune quello di mantenere la plastica fuori dagli oceani e dai mari dal momento che in gioco non c’è solo l’ecosistema oceanico, ma anche la salute delle specie marine e il benessere delle comunità – in fondo di tutta l’umanità – che dal mare e dall’oceano dipendono.
Recuperare e trasformare i rifiuti marini in un valore, oltre che ambientale, anche economico è il passaggio ulteriore che alcune aziende e progetti in giro per il mondo stanno facendo. Si tratta naturalmente di un lavoro a lungo termine. Non a caso molte delle attività sono in fase iniziale e i risultati effettivi si vedranno soltanto nel lungo periodo.
Onu, Global partnership on Marine Litter; tinyurl.com/yboxvndt
Eea, “Marine LitterWatch in a nutshell”, 2015; tinyurl.com/ybsze67f
The Ocean Cleanup
Uno dei primi ad aver pensato a come ripulire gli oceani su ampia scala è stato il ventitreenne olandese Boyan Slat che a soli 19 anni ha abbandonato i suoi studi ingegneristici per dar vita a The Ocean Cleanup, iniziativa nata per sviluppare una tecnologia in grado di ripulire l’oceano. Anni di ricerca e milioni di dollari (dal 2013 la fondazione The Ocean Cleanup ha raccolto ben 31,5 milioni di dollari) hanno portato alla progettazione di una rete di lunghe barriere galleggianti che si comportano come una costa artificiale, consentendo alle correnti oceaniche naturali di concentrare la plastica facilitandone la raccolta. Dopo il primo prototipo realizzato nel giugno 2016, a metà 2018 sarà lanciato il primo sistema operativo completo nel Great Pacific Garbage Patch (la più grande isola di rifiuti oceanici: un accumulo di detriti composto quasi interamente di rifiuti plastici situato tra le Hawaii e la California, nda). Secondo i piani, la tecnologia sviluppata da The Ocean Cleanup in pieno funzionamento dovrebbe riuscire a ripulire del 50% il Great Pacific Garbage Patch in 5 anni.
The Ocean Cleanup, www.theoceancleanup.com
The Ocean Cleanup
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Next Wave
Nata con l’obiettivo di intercettare in alcune zone prioritarie le plastiche presenti nei corsi d’acqua e dirette verso l’oceano – si stima che l’88%-95% della plastica negli oceani arriva da soli 10 fiumi – Next Wave punta anche a creare con tali materiali plastici la prima catena di fornitura di materie plastiche globale cross-industriale a livello commerciale, lavorando i materiali raccolti dai fiumi e dalle aree costiere per usarli nei prodotti e negli imballaggi delle aziende partner.
Tra le aziende che hanno creato Next Wave, iniziativa oggi gestita dall’incubatore americano Lonely Whale, ci sono multinazionali che da anni sono impegnate nell’ambito dell’economia circolare: tra queste Dell e Interface insieme a General Motors, Herman Miller. Le aziende coinvolte ne hanno un vantaggio sociale ed economico poiché alla sicurezza della catena di approvvigionamento si affiancheranno elevati standard ambientali e sociali.
Lo scorso dicembre è stato presentato il primo prodotto nato dal progetto, creato dai partner fondatori Bureo e Humanscale. Si tratta di una sedia da ufficio ergonomica realizzata utilizzando quasi due chili di plastica recuperata. Il consorzio stima – entro 5 anni – di intercettare, evitando che finiscano nell’oceano, più di 1,5 milioni di chili di plastica e attrezzi da pesca di nylon, quantità equivalente a 66 milioni di bottiglie d’acqua.
Next Wave, www.nextwaveplastics.org
©Interface
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Circular Ocean
Anche la Commissione europea sta guardando con sempre più attenzione al problema dei rifiuti negli oceani e nei mari. Prova ne sono le recenti conferenze sul tema e la Strategia per la Plastica adottata lo scorso gennaio. Tra i progetti finanziati a livello europeo che guardano alla ricerca di soluzioni innovative e sostenibili per i rifiuti di plastica di uso marittimo c’è il progetto Circular Ocean. Sviluppato nella regione Artico e Periferia settentrionale (NPA- Northern Periphery and Arctic Rgion) il progetto incoraggia le imprese e gli imprenditori a sviluppare nuovi prodotti e sperimentare soluzioni eco-innovative che generino reddito partendo dal recupero di materiali scartati dalla pesca. Inoltre Circular Ocean mira a quantificare gli impatti ambientali delle reti perse o abbandonate nell’area.
Come sostiene, infatti, Dina Margrethe Aspen, ricercatrice del Department of Ocean Operations and Civil Engineering alla Norwegian University, partner del progetto: “Anche se parecchio lavoro è stato fatto per eliminare il problema delle reti fantasma, molto ancora si può ottenere attraverso una maggiore collaborazione tra attori industriali, agenzie governative e istituti di ricerca. Riteniamo che l’interazione degli stakeholder sia la chiave per stabilire tale collaborazione. Ciò che manca attualmente è un piano d’azione che porti ad una gestione efficiente delle risorse presenti nelle attrezzature da pesca. Tale piano dovrebbe dare la priorità a varie azioni volte a eliminare, ridurre o invertire i flussi di attrezzature che vengono abbandonate, perse o altrimenti scartate e assicurare che venga recuperato la maggiore quantità possibile”.
Il progetto transnazionale vede coinvolti l’Environmental Research Institute, North Highland College UHI (Scozia), Macroom E (Irlanda), The Centre for Sustainable Design, University for the Creative Arts (Inghilterra), Arctic Technology Centre (Groenlandia), Norwegian University of Science and Technology (Norvegia).
Circular Ocean, www.circularocean.eu
Circular Ocean
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Healthy Seas
Già attivo da alcuni anni e con ricadute evidenti sul mercato è il progetto Healthy Seas, anche questo legato alla pulizia degli oceani dai rifiuti che vanno spesso a essere un pericolo per la biodiversità marina. Nata da una joint venture europea di aziende della pesca, ong, governi, comunità e aziende di recupero, riciclo e produzione, Healthy Seas accompagna il recupero dei materiali alla collaborazione con i pescatori e le comunità locali per prevenire la produzione di rifiuti e incrementare la sostenibilità del settore. Sono attualmente in corso tre progetti pilota nel Mare del Nord, nel Mare Adriatico e nel Mar Mediterraneo, tutte regioni importanti per il turismo e la biodiversità, ma sfruttate anche massicciamente per la pesca. Le reti da pesca – spesso lasciate inutilizzate – raccolte e pulite sono trasformate in materiali vergini e trasformati dall’azienda italiana Aquafil in Econyl@, filato di nylon rigenerato e impiegato per costumi da bagno, abbigliamento sportivo, intimo e anche tappeti.
Healthy Seas, healthyseas.org
Healthy Seas
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Immagine in alto: The Ocean Cleanup