Ogni anno Amnesty International propone un’analisi globale sullo stato dei diritti umani nel mondo. Nel rapporto 2023-2024, sono quattro le tematiche che evidenziano tendenze negative a livello globale. Il report mette al centro il trattamento dei civili come un elemento sacrificabile nelle situazioni di conflitto armato, ma anche la crescente reazione violenta contro la giustizia di genere e l’impatto sproporzionato delle crisi economiche, del cambiamento climatico e del degrado ambientale sulle comunità più marginalizzate. Senza dimenticare però la libertà di stampa e più in generale le minacce di tecnologie nuove e già esistenti, come l’intelligenza artificiale generativa.

Così, proprio nella settimana in cui l'Alta corte di Londra stabiliva che il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, potrà appellarsi contro l'estradizione negli USA, Materia Rinnovabile ha deciso di intervistare Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

 

Noury, quali elementi Amnesty International individua come novità e quali invece sono in continuità con i report degli anni passati?

Tra le novità c’è l’avvisaglia di un futuro distopico che potrebbe riguardare tutte e tutti se non verranno adottate regolamentazioni molto rigorose su vecchie e nuove tecnologie. A destare particolare preoccupazione è la frontiera dell’intelligenza artificiale generativa, avendo questa la capacità di condizionare, mediante la produzione di false immagini e notizie, i fatti e i momenti più critici che una società attraversa. Dai momenti di tensione legati a crisi di sicurezza fino agli esiti elettorali.  

E quali aspetti invece si confermano?

Di vecchio, invece, assistiamo a un attacco alle fondamenta stesse del diritto internazionale dei diritti umani. Da un lato c’è una fuga in avanti verso un futuro che si profila molto preoccupante e, dall’altro, un ritorno al passato che presenta gli stessi connotati. Difficile non cogliere un parallelismo tra i tempi che stiamo vivendo e gli anni Novanta. Tuttavia, in questo decennio scattò anche una corsa alla solidarietà nella società civile e una presa di coscienza della comunità internazionale che condusse alla costituzione della prima Corte Penale Internazionale permanente. Tutt’ora il lavoro della Corte penale internazionale rappresenta uno spiraglio di luce in questi tempi grami, assieme alle grandi mobilitazioni dal basso.

Nel report si insiste su come siano i paesi a basso reddito a sopportare maggiormente il peso della crisi climatica, nonostante siano coloro che hanno contribuito meno a causarla. Alla COP8 è stato istituito il Fondo per il Loss and Damage: sono stati annunciati 725 milioni di dollari.  A oggi lo sforzo economico dei paesi più ricchi è sufficiente?

Si dovrebbe fare molto di più, e limitarsi a ripagare i danni non sarebbe comunque sufficiente poiché occorre non esserne causa. Amnesty osserva con preoccupazione alcuni segnali. Il primo è che le COP continuano a essere affidate a stati che non solo violano i diritti umani, ma che hanno anche un ruolo importante nell’industria globale del fossile. Il secondo elemento preoccupante è che si criminalizzano sempre di più le proteste dei movimenti per la giustizia climatica. Un piccolo segnale positivo è però arrivato i giorni scorsi con il parere consultivo emanato dal Tribunale internazionale per il diritto del mare, che riconosce l’obbligo dei paesi di ridurre le proprie emissioni di gas serra per proteggere gli oceani.

Crede che le potenzialità della giustizia climatica viaggino in senso opposto al "processo di criminalizzazione" degli attivisti per il clima di cui parla? Che ruolo può giocare questa categoria nello spingere governi e grandi imprese a fare di più?

Il cambiamento arriva sempre dal basso. L’importanza dell’attivismo spiega il perché stiamo assistendo a una narrazione stigmatizzante, che precede sempre la criminalizzazione. Una narrazione che passa attraverso l’uso eccessivo della forza, i processi, l’inasprimento della risposta sanzionatoria. Aspetti che rischiano di congelarne gli sforzi.  Rimane però aperta la strada del contenzioso climatico, di cui si cominciano a vedere i primi risultati in Europa. Ad aprile, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso una sentenza storica a favore dell’associazione Senior Women for Climate Protection Switzerland. Anche in Italia nel 2021 c’è stata la prima causa legale contro lo stato italiano e le industrie fossili per inadempienza climatica. Queste azioni a volte vanno bene a volte male, ma bisogna continuare su questa strada.

Una conseguenza diretta delle crisi economiche e del cambiamento climatico è rappresentata dalle migrazioni. L’esternalizzazione della gestione dei flussi migratori è stata fino a questo momento la risposta avanzata dall’Unione Europea. Quali sono gli aspetti positivi e negativi del nuovo Patto UE sulla migrazione e l’asilo, il cui iter si è concluso ad aprile?

Questo Patto è in piena continuità con quell’ossessione che ormai caratterizza le politiche interne degli stati membri: non fare arrivare i migranti e se arrivano rendere loro la vita impossibile. Scelte interne che si riverberano poi su una politica estera comunitaria basata unicamente su accordi che vanno a discapito dei diritti umani.

Si verificano quotidiane violazioni del diritto internazionale umanitario, e il report di Amnesty richiama più volte il metodo del doppio standard occidentale.

Ogni conflitto ha in sé la conferma che alcune vite civili valgono meno di altre. L’abbiamo visto nell’accoglienza delle persone in fuga dall’Ucraina accolte con dignità e diritti da quegli stessi stati che avevano appena chiuso le proprie frontiere ai rifugiati provenienti dal Medio Oriente, e lo vediamo oggi nel conflitto tra Israele e Hamas. Diverse sono le ragioni per cui questi doppi standard accadono. Una è sicuramente rappresentata dal lascito della storia ma, evidentemente, vige anche un meccanismo di identificazione: l’emozione è maggiore quanto maggiore è la somiglianza. Come dicevo, la speranza per migliorare la condizione dei diritti umani nel mondo va riposta negli organi della giustizia internazionale e nazionale, e non nelle leadership politiche.

Nel report annuale di Reporter senza frontiere, l’Italia ha perso cinque posizioni rispetto all’anno precedente: si trova ora al 46° posto, tre posizioni sotto l’Armenia. Qual è stato il processo che ha permesso questo passo indietro?

Io non tanto trovo grave il fatto che abbiamo perso cinque posizioni, quanto piuttosto la posizione dalla quale siamo partiti, ossia il 41° posto, infelice per uno stato europeo. Il segnale è che c’è una situazione critica dal punto di vista della libertà di stampa dovuta, da un lato, a una palese volontà delle autorità politiche di controllare contenuti e contenitori e, dall’altro, dal meccanismo delle querele “bavaglio”. Da ultimo, la vicenda giudiziaria dei tre giornalisti del Domani, quelli che chiamo “gli Assangini”, ci mostra come il giornalismo d’inchiesta è già seriamente minacciato. Al di là e prima ancora della possibilità che Assange venga definitivamente estradato.

Quale sarà l’impatto per le nostre democrazie di una sentenza positiva o negativa all’estradizione negli USA di Assange?

Assange si colloca in uno snodo fondamentale della dialettica tra i governi, che non vogliono far sapere, e l’opinione pubblica che, invece, vuole sapere. Una scelta contraria ai diritti umani, quale sarebbe l’okay all’estradizione, avrebbe il risultato di penalizzare contemporaneamente due diritti: la libertà di stampa e il diritto a essere informati. L’estradizione di Assange rappresenterebbe la fine del giornalismo d’inchiesta così come lo abbiamo conosciuto fino a oggi.

 

Immagine: Riccardo Noury

 

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