Flessibili, scalabili e giovani. Le tecniche di cattura della CO2 promettono grandi risultati nella riduzione dell’inquinamento, dall’accumulo di carbonio nel suolo alla produzione di carburanti sintetici. Bisogna però affrontare il problema dei costi e tenere conto delle complessità del ciclo biogeochimico del carbonio.
La cattura dell’anidride carbonica dall’aria è oggi una delle tecniche innovative su cui si riversano più speranze per la lotta ai cambiamenti climatici. La tecnologia è spesso citata come alleato strategico nel contenimento dell’aumento della temperatura globale entro i 2 °C fissato con l’Accordo di Parigi del 2015. In Italia se ne parla poco, eppure personaggi e aziende noti a livello mondiale sono solidi finanziatori, Bill Gates e Chevron solo per citarne alcuni.
Direct Air Capture: catturare la CO2 dall’aria
Oggi le aziende specializzate nell’utilizzo di questo sistema non sono molte. Superate le fasi della ricerca e della sperimentazione, puntano a perfezionare il proprio sistema di cattura della CO2. La canadese Carbon Engineering fa della lotta ai cambiamenti climatici il proprio mantra e della tecnologia Direct Air Capture (Dac) la sua stella polare. L’azienda ha realizzato un sistema innovativo ricorrendo a tecnologie esistenti, per abbattere i costi di realizzazione e le eventuali incombenze burocratiche e fiscali.
L’impianto pilota si trova nel comune di Squamish, in Canada, ed è frutto di dieci anni di ricerche. Il processo di cattura è suddiviso in più fasi. L’aria viene attirata in una struttura molto grande, simile a una torre di raffreddamento industriale, da un grosso ventilatore. Qui scorre sopra superfici sottili di plastica sulle quali è presente una soluzione di idrossido di potassio. Questa soluzione atossica si lega chimicamente alle molecole di CO2, rimuovendole dall’aria e intrappolandole in una soluzione liquida, simile a un sale di carbonato.
La CO2 contenuta in questa soluzione viene poi sottoposta a una serie di processi chimici per incrementarne la concentrazione, purificarla e comprimerla. Alla fine è rilasciata sotto forma gassosa. Questo passaggio prevede che il sale sia separato dal resto della soluzione in una struttura chiamata “reattore a pellet”. I pellet ottenuti, che assomigliano a dei granuli, se scaldati ad alte temperature nel calcinatore producono anidride carbonica sotto forma di gas. Se idratati in uno slaker e riciclati all’interno del sistema riacquistano la formula chimica originale.
Una volta compressa, la CO2 può essere immagazzinata sotto terra. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il processo di confinamento geologico dell’anidride carbonica è considerato strategico nel miglioramento della qualità dell’aria che respiriamo.
Air to fuel: biocarburanti dalla CO2 catturata
In alternativa, il diossido di carbonio può combinarsi con l’idrogeno per portare alla formazione di carburante sintetico a bassa o nulla intensità di carbonio, a seconda che l’H2 sia prodotto o meno mediante elettrolisi. Questo processo, che si può etichettare come air to fuel, permette di creare un circolo virtuoso per la CO2. L’anidride carbonica emessa durante la combustione dei carburanti tradizionali è estratta dall’aria circostante per rinascere sotto forma di carburante più pulito. Con un chemical loop, un processo in cui vengono adoperati sempre gli stessi elementi, il più temuto dei gas può diventare una risorsa. Il carburante sintetico così prodotto può essere impiegato nel trasporto marittimo, aereo e su gomma, senza richiedere modifiche all’impianto di alimentazione dei veicoli. L’alta percentuale di celano che contiene ne consente persino la miscelazione con altri componenti di origine fossile. Il costo è inferiore a quattro dollari a gallone (un gallone equivale a 3,78 litri, ndr), lontano dalla competitività dei combustibili tradizionali ma nella scia dei biocarburanti. Ogni tonnellata di CO2 catturata costa 100 dollari. Per funzionare, assicura Carbon Engineering, l’impianto richiede poche materie prime e produce ridotte quantità di rifiuti. Il consumo energetico resta però elevato, per questo si pensa di abbinarlo a fonti rinnovabili o al gas naturale. Una flessibilità nell’alimentazione che ne favorisce la costruzione anche nelle aree più remote del pianeta.
Ogni impianto può arrivare a estrarre un milione di tonnellate l’anno di anidride carbonica. Per portarla a livelli che non siano pericolosi per la salute umana e del pianeta, ci vorrebbero decine di migliaia di unità in grado di produrre centinaia di migliaia di barili di carburante carbon neutral. Condizione al momento non realizzabile e subordinata alle economie di scala.
Dalla Svizzera, un impianto a collettori modulari
C’è poi il caso della svizzera Climeworks. Il suo impianto usa collettori di diossido di carbonio modulari, per favorire la costruzione di impianti di diversa grandezza. Ad alimentarlo è l’energia rinnovabile o prodotta da rifiuti.
Il processo si divide in due step. Un grande ventilatore aspira l’aria e la convoglia nel collettore. A questo punto l’anidride carbonica passa in un filtro dove si lega a una sostanza filtrante, l’amine. Quando il filtro è saturo il collettore viene chiuso e scaldato a una temperatura compresa tra gli 80 e i 100 °C. Per effetto del calore il legame si spezza e il diossido di carbonio in forma liquida viene pompato in appositi serbatoi. Quando il filtro è pulito il cilindro si riapre e il processo ricomincia. Su 100 tonnellate di CO2 catturate, garantisce Climeworks, almeno 90 sono quelle rimosse definitivamente dall’atmosfera.
L’azienda ha costruito un impianto a Foggia, in Puglia, dove la CO2 è combinata all’idrogeno rinnovabile per produrre metano sintetico.
In Irlanda collabora con Carbfix, protagonista mondiale della mineralizzazione sotterranea rapida dell’anidride carbonica. Qui il suo impianto è alimentato con l’energia geotermica della centrale di Hellisheiði e la CO2 catturata viene successivamente pompata nelle profondità terrestri per stimolare il processo di mineralizzazione naturale della roccia basaltica.
Dal MIT, un sistema di cattura della CO2 a basso consumo energetico
Anche dal mondo della ricerca arriva un importante contributo. Nel dicembre 2019, il Massachusetts Institute of Technology (Mit) ha pubblicato sulla rivista Energy & environmental science i risultati della ricerca sulla cattura del diossido di carbonio sovvenzionata dal Mit Energy Initiative Seed Fund e da Eni.
Il sistema è diverso dagli altri oggi esistenti. Innanzitutto, riesce a purificare l’aria a discapito della concentrazione di diossido di carbonio con un meccanismo apparentemente molto semplice. Sfrutta delle pile di elettrodi rivestiti da un composto chiamato poliantrachinone, formato da nanotubi di carbonio. A mano a mano che la batteria si carica, si verifica una reazione elettrochimica sulla superficie di ciascuna pila di elettrodi che attira la CO2. Le molecole di anidride carbonica reagiscono a questa sollecitazione anche se sono in basse concentrazioni. Quando la batteria si scarica, avviene una reazione inversa.
I ricercatori del Mit, il postdoc Sahag Voskian e il professore di ingegneria chimica Ralph Landau, evidenziano i vantaggi della loro ricerca: l’intero sistema funziona a temperatura e pressione ambientali; non c’è bisogno di input termici o di elevate quantità di energia; non ci sono dispersioni di calore o fasi intermedie di lavorazione chimica. Infine, garantiscono, per ogni tonnellata di CO2 estratta usano al massimo un gigajoule di energia, contro il decuplo di altri sistemi.
È una soluzione che potrebbe essere abbinata agli impianti di imbottigliamento delle bevande analcoliche, suggeriscono gli scienziati, dove si usano fonti fossili per generare l’anidride carbonica che rende effervescenti le bevande. Potrebbe sostituire anche le fonti più inquinanti bruciate dagli agricoltori per ottenere il nutrimento delle piante nelle serre o essere usata in parallelo per purificare i fumi delle centrali elettriche. Anche in questo caso, il flusso di diossido di carbonio puro può essere compresso e iniettato sottoterra o trasformato in combustibile attraverso una serie di processi chimici ed elettrochimici.
In laboratorio il team ha dimostrato che questo sistema può resistere per almeno 7.000 cicli di carica-scarica con una perdita progressiva di efficienza del 30%. L’obiettivo è di alzare l’asticella fino a 50.000 cicli.
Problemi e prospettive
Una ricerca pubblicata nel luglio 2019 su Nature Communications analizza in due scenari le prestazioni dei sistemi Dac su larga scala.
Secondo lo studio, la tecnologia Climeworks è in prospettiva quella con un potenziale di risparmio maggiore. Questo grazie a due fattori: la modularità e le temperature più basse, che consentono anche di recuperare il calore di scarto.
In entrambi i casi, la ricerca conferma che questa tecnologia ha un ruolo cruciale nella strategia di lungo termine di mitigazione climatica. In particolare, come detto, nella decarbonizzazione di settori a oggi tra più inquinanti: trasporti e industria.
Uno dei dubbi principali riguarda gli elevati consumi energetici di questi impianti. Le stime riportate nel documento ammontano a circa 300 exajoule all’anno. Una richiesta che oggi supera la metà della domanda globale di energia.
Per lo scenario ai 2 °C bisognerà riuscire a catturare 30 gigatonnellate di anidride carbonica ogni anno. Questo richiederà la costruzione di 30.000 impianti, una crescita su larga scala cui dovrà corrispondere un’altissima disponibilità di energia termica ed elettrica, auspicabilmente rinnovabile. Il tasso annuale di espansione atteso è del 30%. Elevato, e questo sebbene non sia favorito da incentivi statali, al momento assenti per le tecnologie a emissioni negative. Anche se, sostiene lo studio, il modo migliore per ridurre la produzione da fonti fossili è smettere di incentivarle.
Guardando al ciclo globale del carbonio, il rapporto evidenzia un elemento molto importante: il “rimbalzo” della CO2 dagli oceani. La quantità di anidride carbonica negli oceani e nell’atmosfera è in continuo mutamento, un equilibrio dinamico in cui la Dac interferirebbe. Inoltre, bisogna tenere conto delle proiezioni sull’aumento della temperatura degli oceani, che favorisce il rilascio dell’anidride carbonica, e incrementa il rimescolamento delle acque che a sua volta contribuisce al rilascio di maggiori quantità di anidride carbonica.
Se ogni anno gli oceani assorbono una percentuale significativa di emissioni antropiche di CO2, e se la Dac riuscirà a dare un contributo importante su scala globale, questo equilibrio verrà alterato. Di conseguenza, conclude lo studio, fino a un quinto della CO2 rimossa utilizzando una qualsivoglia tecnologia a emissioni negative potrebbe essere reimmessa in atmosfera dagli oceani, riducendone l’efficacia.
Un quadro complesso e dinamico di cui tenere conto nella pianificazione delle azioni di contrasto ai cambiamenti climatici. In cui, è sempre più evidente, bisogna immergersi con la consapevolezza che competenze trasversali e sguardo d’insieme sono fondamentali.
Per approfondire, scarica e leggi il numero 34 di Materia Rinnovabile dedicato ai carburanti alternativi.