Chiacchierare di raccolta differenziata passeggiando di mattina presto per le stradine di Trastevere con Daniele Fortini – da Orbetello, classe 1955, da un anno e mezzo presidente e amministratore delegato dell’Ama Spa – è un’esperienza curiosa. La movida della notte precedente ha generato montagne di immondizia, cartacce, ma soprattutto bottigliette di vetro abbandonate un po’ dappertutto. I cestini portarifiuti di ghisa massiccia appaiono stracolmi; non sarebbe meglio fare come in altre città, mettendo delle ampie e pratiche buste trasparenti?

“Magari! Noi ci abbiamo provato – commenta Fortini – ma la Sovrintendenza non ne ha voluto sapere”. E i commercianti si comportano bene? “Non me ne parli!”, alza gli occhi al cielo. Gli spazzini riconoscono il capoazienda, e si vede che cercano di far bella figura. Ma intanto i quotidiani del giorno rilanciano sempre nuove nefandezze che emergono dall’indagine Mafia Capitale: si parla di rifiuti, a volte di Ama, la Spa controllata dal Comune di Roma (7.800 i dipendenti) che non ha una tradizione di efficienza e di risparmio.

Daniele Fortini si è occupato di rifiuti da sempre, in Toscana, a Napoli, alla presidenza di FederAmbiente. Insieme con Nadia Ramazzini (per dieci anni in A2A, oggi con la Fondazione Rubes Triva) ha scritto di recente un interessante libro sull’argomento (La raccolta differenziata, Edizioni Ediesse). Un volume divertente e completo, adatto anche ai non addetti ai lavori, che contiene alcune tesi che possono sorprendere. Ovvero: la raccolta differenziata è fondamentale e decisiva, ma è illusorio (in quanto antieconomico e materialmente impossibile) pensare di riuscire a giungere al recupero del 100% dei rifiuti. Si può arrivare, con uno sforzo consistente, a recuperare e riciclare il 60, il 70% dell’immondizia – e dunque continueremo in futuro ad aver bisogno di un certo numero di inceneritori e discariche – ma senza costruire una vera e propria filiera industriale dei rifiuti si rischia di vanificare tutto.

“Siamo stati bombardati da un’idea della raccolta differenziata tutta fondata sui comportamenti virtuosi del cittadino, da perseguire con le buone o con le cattive – spiega Fortini – ma ci siamo interessati poco o nulla della parte industriale-finanziaria-tecnologica che sostiene la raccolta differenziata. Ci si dimentica che le vetrerie, le cartiere, le fonderie hanno bisogno di materiale riciclabile ‘pulito’, senza contaminanti, per poterlo lavorare nei loro impianti con facilità e non distruggere i forni”. Per esempio, per rovinare completamente una partita di vetro da riciclare basta che assieme al vetro finisca del materiale di cristallo. Insomma, afferma il manager, “convincere i cittadini a fare una differenziata di qualità eccezionale serve a poco se il sistema industriale a valle non è pronto”. E perché sia pronto, servono investimenti.

Il che ci porta a un altro tema scottante. Chi deve pagare per il buon funzionamento del sistema del riciclo? Sulla base della legge e degli accordi Anci-Conai, il consorzio incassa da ogni produttore di imballaggi una sorta di tassa: il “contributo ambientale” o “Cac”. Ma in pratica, sostiene Fortini, non solo le aziende riversano normalmente il contributo pagato sul consumatore finale, ma indirettamente riescono a tenersene una parte: “Il Conai gira ai Comuni – che materialmente raccolgono i rifiuti che alimentano il sistema del recupero, sostenendo i relativi costi – soltanto il 35% del valore totale del contributo. Il resto dei soldi incassati rimane all’interno del sistema Conai e del sistema delle industrie dell’imballaggio. Noi ‘monnezzari’ vorremmo che quella tassa, che vale in tutto 800 milioni di euro, ed è stabilita dalla legge, fosse incassata da un soggetto pubblico, terzo, indipendente, costituito dal ministero dell’Ambiente”. Tesi totalmente contestata dal Conai e dalle imprese del settore che ricordano i successi ottenuti dal sistema di recupero degli imballaggi (ha superato gli obiettivi di legge) e temono un ritorno a un sistema basato su un ruolo dominante del settore pubblico che non ha dimostrato grande efficienza in passato.

 

 

Ma, tornando al momento della raccolta differenziata, quale sarebbe il metodo migliore per favorire insieme la raccolta da parte dei cittadini e la corretta lavorazione dei rifiuti? “A me convince molto il modello adottato da San Francisco, quello delle frazioni merceologiche differenziate”, è la risposta. Nella città della California ci sono soltanto tre contenitori: quello dei “rifiuti asciutti”, come carta, vetro, plastica e metalli; quello per i “rifiuti umidi” (l’organico); un terzo contenitore per l’indifferenziato. I “rifiuti asciutti” vengono così portati in un impianto industriale dove ci sono i macchinari e le tecniche necessari a trattarli e suddividerli in modo che non vengano contaminati. Gli “umidi” finiscono negli impianti di compostaggio. “La ricetta è semplificare al massimo la raccolta della differenziata per farla costare il meno possibile – spiega il numero uno dell’Ama – e investire in impianti industriali per far fare alle macchine le cose che non possiamo chiedere alla massaia”.

Benissimo, tutto chiaro. Ma nel libro Fortini e Ramazzini chiariscono un altro punto: non tutti i rifiuti sono riciclabili. Quindi l’obiettivo “rifiuti zero” non può che restare (appunto) un obiettivo, una lontana utopia cui puntare idealmente. “Bisogna essere realistici – conferma Fortini – anche nei piccoli paesi dove ci sono esperienze avanzatissime e molto condivise dai cittadini di raccolta differenziata e di recupero, giungere a un riciclo del 70% dei rifiuti è un successo da considerare assolutamente strepitoso. Il 30% del materiale non può essere riciclato”. Inoltre un conto è un piccolo paese – come la famosa Capannori del maestro Rossano Ercolini, dove c’è un ampio controllo sociale – e un conto una grande metropoli come Roma. “Dall’inizio dell’anno abbiamo elevato 5.000 contravvenzioni per comportamento scorretto nella gestione dei rifiuti – ricorda il presidente Ama – di cui 3.500 ad automobili lasciate in sosta davanti ai cassonetti, impedendo ai camion del turno notturno di poterli svuotare. A Roma ogni giorno dobbiamo svuotare 70.000 cassonetti. A volte non riusciamo a coprire l’1% del totale: 700 cassonetti vengono lasciati pieni, molti per le auto in sosta; e rappresentano un problema serio per il decoro della città, un problema che fa passare in secondo piano il fatto che comunque ne abbiamo svuotati 69.300”.

Resta il problema del 30% dei rifiuti che – sostiene Fortini – non si possono riciclare. Parliamo di laterizi, pietre, mozziconi di sigarette, leghe di metalli, pannolini, e tutti i tipi di plastica eterogenea, come i cosiddetti “poliaccoppiati”. Le famiglie della plastica sono 400, ma in realtà sono soltanto tre le tipologie realmente riciclabili: il Pet (cioè le bottiglie), l’Hdpe (ovvero il polietilene ad alta densità, la plastica più dura usata per esempio per i contenitori dei detersivi), e alcuni polimeri più leggeri del tipo degli “shopper”, le buste di plastica per la spesa. Tutto il resto è un problema: un normale giocattolo per bambini contiene a volte 30 tipi differenti di plastica; in alcuni casi sono riciclabili, ma hanno costi elevati, usi limitati, qualità merceologica e durata scarsa, e risultano quasi invendibili sul mercato (anche se – va aggiunto al ragionamento di Fortini – esperienze come quella della Revet mostrano che questi limiti si possono spostare e che le quote di riciclo del cosiddetto plasmix possono crescere). “Per trasformarli serve molta energia – è la conclusione – l’unica cosa è bruciarli, e recuperare l’energia che incorporano. Altre cose invece non possono che finire in discarica”. Ancora discariche? Ma quanta parte dei rifiuti sarà inevitabile mandare in discarica? “In Germania ci finisce meno del 3% dei rifiuti. In Svezia meno, in Svizzera solo l’1%. A regime, il 70% dei rifiuti può essere riciclato. Il 20-25% è combustibile, e se ne può ricavare energia e calore. Quel che avanza, comprese le ceneri che restano dopo il processo di incenerimento, non può che andare in discarica.” 

 Ci siamo arrivati: inceneritori (o termovalorizzatori che dir si voglia) e discariche. Robe molto poco simpatiche, impopolari. “È chiaro che gli inceneritori non sono macchine perfette, e in quanto macchine producono emissioni e inquinano”, continua Fortini. “Questo lo sappiamo, così come sappiamo che l’ostilità della popolazione non è frutto di paranoia, ma viene da lontano. Purtroppo siamo un paese dove la devastazione ambientale c’è stata, dove sono state fatte porcherie. Dove si è mentito, dove chi doveva controllare è stato corrotto o bloccato. Abbiamo avuto una Farmoplant, una Seveso, una Ilva di Taranto... la diffidenza dei cittadini nei confronti dei comportamenti dell’industria è giustificata.”

Una volta il rimedio era semplice, perché la difesa dell’ambiente e della salute era di là da venire: o immense discariche, magari in riva ai fiumi, o bruciare i rifiuti generando immensi volumi di scorie e fumi. Ma adesso, si possono riproporre gli inceneritori? “Guardate, i sistemi di filtraggio sono molto evoluti; magari ce ne avessero di simili cementifici e raffinerie. Tanto è vero che la dispersione di particelle inquinanti non ha conseguenze particolarmente significative e dannose per la salute umana o per l’ambiente. Detto questo, oggi queste macchine sono ancora indispensabili e sufficientemente sicure. Sarebbe meglio inquinamento zero, ma quel che fanno al momento è sostenibile. Le discariche, in confronto, sono molto più inquinanti. A cominciare dal rilascio del metano, che è un potente gas a effetto serra.”

In teoria dopo 30 anni una discarica diventa inerte, può essere ricoperta di alberi e giardini; ma dopo trent’anni ancora si deve prelevare il percolato prodotto dall’acqua piovana. Meglio gli inceneritori delle discariche, dunque. In Italia ce ne sono 53, piuttosto anziani e di scarsa capacità, contro i 100 della Germania, più potenti. Fortini propone di rinnovare il nostro parco, chiudendo quelli più vecchi e di piccole dimensioni. Idee che non piacciono a tutti: ma sono soluzioni che il numero uno dell’azienda pubblica per la gestione dei rifiuti della Capitale intende adottare per far uscire Roma dall’emergenza.