Secondo la Ellen MacArthur Foundation, un sistema economico può definirsi circolare quando è in grado di rigenerare da solo i propri stock di capitale umano, tecnologico, sociale e naturale. Alla base di questa capacità rigenerativa vi è la distinzione basilare fra flussi di materiale biologico, che possono essere reintegrati nella biosfera, e flussi di materiale tecnico, che invece devono essere programmati, sin dall’estrazione di risorse, in maniera da ottimizzarne riuso, riparazione, restaurazione e riciclo.
Il passaggio dal modello lineare a quello circolare dovrebbe garantire importanti ricadute economiche in vari settori, come la progettazione di prodotti e servizi, i risparmi in termini di gestione dei rifiuti, la nuova imprenditorialità derivante dal loro riutilizzo a cascata. Solo in Europa, sono previsti risparmi in termini di rifiuti per un valore di 600 miliardi di euro, mentre l’introduzione di misure per aumentare la produttività delle risorse potrebbe portare a un incremento dell’1% del Pil e alla creazione di 2 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030.
Nella transizione verso l’economia circolare, i sistemi agroalimentari, considerata la natura biologica dei prodotti agricoli e la loro posizione di interfaccia fra biosfera e tecnosfera, potrebbero rivestire un ruolo chiave. Nel corso della storia, industrializzazione dell’agricoltura e globalizzazione hanno portato a un crescente utilizzo di risorse minerarie di origine fossile, rendendo la produzione di cibo sempre meno sostenibile. Gli esempi sono innumerevoli: la fertilizzazione chimica e le emissioni derivanti, il consumo di acqua e l’abbassamento delle falde acquifere, la perdita di suolo e biodiversità ecc.
In un sistema economico basato su un modello di crescita lineare e sullo sfruttamento crescente dell’ecosistema, il sistema agroalimentare ha perso la sua capacità di mimesi dei sistemi ecologici per trasformarsi in un modello tecnologico estrattivo di proporzioni gigantesche e, soprattutto, largamente inefficiente.
La produzione, la gestione e, soprattutto, lo spreco di alimenti, scarti, sottoprodotti e rifiuti rappresentano ormai da tempo un serio problema ambientale, con gravi ricadute economiche e sociali. L’economia circolare rappresenta l’opportunità di investire su prevenzione e riutilizzo ottenendo più prodotti e servizi, anche diversi dal cibo, a parità di risorse estratte.
Produzione agricola e trasformazione: le opportunità di riutilizzo e valorizzazione degli scarti
Già i primi due segmenti del settore agroalimentare, agricoltura e trasformazione, sono caratterizzati da rilevanti percentuali di scarto e spreco.
Per quanto riguarda la fase agricola, secondo stime recenti del Crpa (Centro ricerche produzioni animali) riferite all’anno 2011 (Sodano e Garuti, 2014), in Italia la disponibilità di scarti vegetali ammonterebbe a più di 13 milioni di tonnellate di sostanza secca, di cui almeno 6 disponibili per la valorizzazione. La disponibilità annua di residui da colture arboree sarebbe invece stimabile in circa 900.000 tonnellate di residui da fruttiferi, 600.000 tonnellate di sarmenti (tralci della vite, ndC) e 700.000 tonnellate dall’olivicoltura (Bonari et al., 2009; Enea, 2011) (vedi figura 1). La raccolta e la gestione di questi scarti rappresentano una voce di costo rilevante nei bilanci delle aziende agricole, con un rapporto fra costi e benefici spesso negativo. Pertanto, nonostante una quota rilevante di scarti sia già impiegata nella produzione di bioenergia e mangime, questi sono nel migliore dei casi rinterrati per apportare sostanza organica al terreno, oppure lasciati al suolo e combusti. Mentre, all’interno di un sistema economico circolare l’estrazione di sostanze ed energia da questi materiali potrebbe generare vantaggi economici anche per i produttori agricoli attraverso la creazione di valore aggiunto nelle filiere secondarie.
Fonte: elaborazione autori su dati Sodano e Garuti 2014; Gruppo 2013, 2009; ENEA 2011. Tutti i dati sono riferiti al 2011 fatta eccezione per i dati sulle colture arboree (stime generiche).
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Oltre a questi scarti, una quota altrettanto rilevante di produzione primaria rimane in campo per motivi economici o per il rispetto di standard estetico-commerciali (criteri riguardanti forma, dimensione, colore del prodotto). Uno spreco che equivale al 3% della produzione complessiva, sebbene sia in calo: da 1,7 milioni di tonnellate nel 2009 a circa 1,5 milioni di tonnellate nel 2011. Le problematiche e la quantità di prodotto lasciate in campo presentano differenze significative tra le varie colture, con percentuali più elevate nel caso di ortaggi in serra (12,53%), legumi e patate (5,21%) e olive (4,85%) (Segrè, Falasconi 2011). In tutti i casi, la dimensione di questi sprechi diventa ancora più evidente se si considerano anche tutte le risorse che sono state impiegate nei processi produttivi. Limitando l’analisi all’aspetto energetico, è possibile stimare la perdita di energia derivante dallo spreco nella fase agricola in circa 98 Ktep (0,098 Mtep), un dato equivalente ai consumi annuali di energia termica di 400.000 appartamenti da 100 metri quadrati ad alta efficienza energetica (Segrè, Vittuari 2012). Anche in questo caso, un’economia rimodulata in maniera circolare porterebbe a limitare – in modo strutturale – la perdita di flussi biologici (cibo) e tecnologici (risorse) connessi allo spreco di cibo. Prevenzione e recupero a fini alimentari rappresenterebbero dunque la migliore forma di conservazione del valore del cibo prodotto.
Si continua a sprecare anche nell’industria alimentare
Ma scarti e sprechi sono generati anche dall’industria alimentare. A livello nazionale gli scarti sono pari a circa 3,7 milioni di tonnellate provenienti dalle lavorazioni vegetali e a 9,9 milioni di tonnellate dalle produzioni animali (Sodano, Garuti, 2014). Se, da un lato, i processi industriali permettono di conservare più a lungo (attraverso surgelamento o inscatolamento), dall’altro producono inevitabili rifiuti e sottoprodotti, in genere proporzionali al numero di processi e ai servizi inclusi nel prodotto finito (per esempio patate fritte e surgelate) (Segrè, Vittuari 2012).
Anche in questo segmento ci sono grandi differenzi fra le diverse categorie di prodotto lavorato. Secondo un’indagine condotta da Crpa in Emilia Romagna (Rossi, Piccinini 2007), le percentuali di scarto di materia prima variano tra il 2% (frutta e ortaggi per consumo fresco) e il 10% (ortaggi surgelati) nella sola fase di preparazione, e tra il 2,5-3,7% (pomodori) e il 65-68% (mais dolce) nella fase di trasformazione. Nelle produzioni animali, il settore dei bovini è quello caratterizzato da sprechi più elevati, raggiungendo il 33-35% del peso vivo.
Sono già molte le aziende che hanno adottato sistemi e tecnologie finalizzate al recupero degli scarti. Buccette di pomodoro, scarti dell’industria dolciaria, del pane e di lavorazione della patata, sono tutti ottimamente impiegabili, e impiegati, sia nel settore della mangimistica sia nella produzione di biogas. Tuttavia, in un sistema a cascata, esistono utilizzi alternativi che permetterebbero di aumentare ulteriormente l’efficienza e di generare maggiore valore aggiunto ricavando molecole base per i settori farmaceutico, alimentare, chimico. Per esempio, dalle bucce di patata e dai residui di amido è possibile produrre bioplastica per poi ricavare biogas dai successivi scarti. Allo stesso modo, dal residuo della torrefazione del caffè è possibile ricavare una pellicola argentea (silver skin) che – se opportunamente lavorata – può costituire fonte di preziosi elementi nutritivi, oltre che di cellulosa ed energia.
Oltre ai sottoprodotti, la trasformazione è comunque caratterizzata da consistenti quantità di sprechi alimentari. Queste perdite ammontano a circa 1,8 milioni di tonnellate, con una rilevanza maggiore per l’industria delle bevande, quella lattiero-casearia e quella della lavorazione e conservazione di frutta e ortaggi (Segrè, Falasconi 2011). Complessivamente questo spreco corrisponde al 2,6% del prodotto finale e comporta dunque una perdita di energia stimabile in 80 Ktep (0,08 Mtep), equivalenti ai consumi annuali di energia termica di 330.000 appartamenti da 100 metri quadrati ad alta efficienza energetica (Segrè, Vittuari 2012). Come nel caso dell’agricoltura, dunque, la prevenzione delle perdite alimentari a livello di trasformazione costituirebbe una strategia efficace per limitare anche le inefficienze in termini di consumo di risorse tecnologiche.
Definire per intervenire
Spreco alimentare
Definizione Fao (Fao, 2013): la Fao identifica lo spreco alimentare come ogni sostanza edibile che, invece di essere destinata al consumo umano, viene smaltita, persa, degradata o consumata dai parassiti in ogni fase della filiera agroalimentare. Nel 2011, in uno studio commissionato allo Swedish Institute for Food and Biotechnology (Sik) (Fao, 2011), viene proposta una distinzione tra perdite e sprechi alimentari. Le perdite alimentari si verificano nelle fasi a monte della filiera agroalimentare (produzione agricola, raccolta, trasformazione), gli sprechi alimentari si verificano invece nelle fasi a valle (distribuzione, vendita al dettaglio e consumo).
Definizione Progetto FP7 Fusions (Östergren K. et al., 2014): può essere considerato “food waste” ogni alimento, e parte inedibile di alimento, che è stata rimossa dalla filiera agro-alimentare per essere recuperata o eliminata (includendo quanto viene indirizzato al compostaggio, prodotti sotterrati o non raccolti, utilizzati per la digestione anaerobica, la produzione di bioenergia, la cogenerazione, l’incenerimento, lo smaltimento nelle fognature, nelle discariche e nel mare).
Sottoprodotto
La normativa italiana, accanto alla definizione di rifiuto, individua anche le condizioni in base alle quali una sostanza o un oggetto non sono da considerarsi tali, introducendo il concetto di sottoprodotto, che viene così descritto all’art 183 bis del Dlgs 152/2006:
“È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), la sostanza o l’oggetto, che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanze o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”.
Rifiuto
La normativa italiana, all’art. 183 del Dlgs 152/2006 e ss.mm.ii., definisce rifiuto, riprendendo quanto indicato nella direttiva comunitaria 98/2008/CE, qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.
Come passare a sistemi produttivi circolari e più efficienti
Il superamento dei limiti dello sviluppo lineare a vantaggio di un sistema circolare che non sprechi risorse naturali costituisce, dunque, una grande opportunità per ripensare la dicotomia crescita-sviluppo. Passare a un’economia circolare significa ripensare i sistemi produttivi nella loro interezza mettendo in discussione come, quanto e da cosa produrre. Il passaggio a sistemi produttivi circolari, e quindi più efficienti, dovrebbe, infatti, permettere di produrre meglio e meno perché a parità di risorse utilizzate si otterrebbe una maggiore quantità di prodotti e servizi.
Prevenzione, recupero e riuso degli scarti alimentari, per esempio in bioraffinerie integrate nel territorio e dedicate alla produzione di energie, bioplastiche, e sostanze chimiche o nutritive da fonti rinnovabili, rappresentano tappe fondamentali verso processi produttivi che guardino alle opportunità di “seconda vita” prima di pensare al fine vita e allo smaltimento dei materiali (risorse) utilizzati.
Bibliografia
- Bonari E., R. Jodice. S. Masini (a cura di), L’Impresa agroenergetica – Ruolo e prospettive nello scenario “2 volte 20 per il 2020”, Quaderni, Edizioni Tellus 2009.
- Campiotti C., C. Viola, M. Scoccianti, G. Giagancovo, G. Lucerti (Enea, Unità tecnica efficienza energetica, servizio agricoltura, Centro ricerche Casaccia, Roma); Alonzo G. (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali), Le filiere del sistema agricolo per energia ed efficienza energetica, 2011.
- FAO, Global food losses and food waste – Extent, causes and prevention, Rome, 2011.
- Östergren K., J. Gustavsson, H. Bos-Brouwers, T. Timmermans, O. Hansen, H. Møller, G. Anderson, C. O’Connor, H. Soethoudt, T. Quested, S. Easteal, A. Politano, C. Bellettato, M. Canali, L. Falasconi, S. Gaiani, M. Vittuari, F. Schneider, G. Moates, K. Waldron, B. Redlingshöfer, FUSIONS – Definitional Framework for Food Waste, 2014
- Rossi L., S. Piccinini, “Sottoprodotti agroindustriali, un potenziale da sfruttare”, L’Informatore Agrario, 34/2007, pp. 67-70, 2007.
- Segrè A., L. Falasconi, Libro nero dello spreco in Italia: il cibo, Edizioni Ambiente, Milano 2011.
- Segrè A., M. Vittuari, Libro verde dello spreco in Italia: l’energia, Edizioni Ambiente, Milano 2012.
- Sodano M., M. Garuti M., “Il valore dei sottoprodotti agricoli e agroindustriali”, Agricoltura – Mensile della regione Emilia Romagna, 12, dicembre 2014.
- Ellen MacArthur Foundation: ellenmacarthurfoundation.org
- EU Circular economy: ec.europa.eu/environment/circular-economy/index_en.htm