Dal 1993 la svedese Filippa K è tra le aziende di riferimento della moda sostenibile e circolare. Come sostiene, infatti, la sua fondatrice Filippa Knutsson “Ispirato ai miei bisogni, ho costruito un marchio che abbia sostanza e verità e che non sia dipendente dai trend superficiali dell’industria della moda”. Le collezioni e i modelli di Filippa K puntano sulla durata nel tempo, per qualità e stile. Dopo il negozio di seconda mano del marchio aperto già nel 2008, i front-runners realizzati in materiali potenzialmente riciclabili con le odierne tecnologie, i programmi di take back (Filippa K Collect) e di life extension (Filippa K Care), nel 2015 Filippa K esordisce tra i primi al mondo con il programma di ‘noleggio’ Filippa K Lease. Un po’ il Netflix per abiti ipotizzato dalla Ellen MacArthur Foundation, Filippa K Lease permette di affittare, in determinati negozi del marchio, alcuni capi delle collezioni in modo che il cliente possa ampliare temporaneamente il proprio guardaroba, senza acquistare il capo, che può restituire in negozio quando non ne ha più bisogno.

Ma l’azienda svedese non è l’unica ad aver visto nella moda circolare un nuovo modello di business nel Nord Europa. Alla Lena Library di Amsterdam, una sorta di biblioteca di abiti (o bisognerebbe iniziare a dire ‘vestoteca’) è possibile abbonarsi e prendere in prestito all’occorrenza determinati capi di abbigliamento. Si può noleggiare, per esempio, un Mud Jeans, ideato ad Amsterdam e prodotto in Italia o Tunisia.

L’azienda olandese, che si definisce con orgoglio “Il primo brand circolare della moda al mondo”, basa il proprio modello di business sul “prodotto come servizio”. Con un abbonamento mensile di 7,50 euro si può noleggiare il jeans preferito (o anche più di uno), restituirlo dopo un anno, prenderne uno nuovo e rimandare indietro quello usato tramite i packaging riutilizzabili di RePack. In tal modo Mud Jeans mantiene il possesso del capo e rivoluziona il ruolo del brand, che, necessariamente, è chiamato a costruire una relazione con il consumatore e mantenerla anche dopo l’acquisto. 

I più sensibili al modello Mud Jeans sono i giovani. “Il nostro cliente tipo, è un esploratore consapevole che sa cosa sta succedendo nel mondo e cerca alternative, ha un livello di istruzione elevato, dai 25 anni in su, spesso vive in città grandi. I millennials sono sempre più importanti nell’identikit dei nostri clienti ideali. Più che un oggetto da possedere i millennials preferiscono un oggetto che abbia significato e che sia un’esperienza” affermano in azienda. I Mud Jeans sono disegnati sin dall’inizio per essere ricreati ciclicamente con l’upcycling, che li trasforma in capi vintage o nuovi prodotti. Secondo i dati forniti da Mud Jeans se “la produzione di un paio di jeans richiede 7.000 litri di acqua, per i nuovi Mud Jeans ne serve il 78% in meno (1.554 litri di acqua); per un Mud Jeans vintage l’89% in meno (equivalente a 777 litri d’acqua)”. 

Il risparmio di acqua e delle materie prime in generale oltre che l’upcycling degli scarti di cotone sono anche i punti cardine della Hilaturas Ferre, con sede a Banyeres de Mariola, vicino Alicante. Un’azienda familiare ultracentenaria che già nel 1947 ha iniziato a sviluppare un sistema per riciclare scarti di cotone creando nuovi filati. Quattro generazioni e tanti anni di ricerca e sviluppo sono serviti per arrivare a lanciare nel 2015 il Recover Upcycled Textile System. Come sostiene Alfredo Ferre, Ad della Hilaturas Ferre: “Con il processo Recover, Ferre trasforma i rifiuti tessili nei migliori filati riciclati di qualità al mondo. Il sistema di upcycling tessile Recover permette di dar vita a tutta una serie di prodotti con il più basso impatto ecologico e al costo più competitivo al mondo”. In particolare, il Recover Upcycled Cotton Fiber consente di recuperare le fibre di cotone senza utilizzo di acqua e senza emissione di gas serra, mentre il processo ColorBlend® permette ai tessuti di essere colorati senza impiego di sostanze chimiche. Il cotone recuperato è unito, poi, ad altre fibre a basso impatto ambientale – quali Pet riciclato, nylon riciclato e canapa – e trasformato nuovamente in filati. Con scarti di tessuti provenienti da tutto il mondo, la Hilaturas Ferre produce filati acquistati, tra gli altri, da H&M, Mango, Zara, G-Star Raw e Whole Foods Market.

“Riciclare tutto quanto già esistente per creare nuovi capi di abbigliamento permette di non creare più rifiuti, in un mondo dove la crescita della popolazione e il cambiamento climatico potrebbero trasformare alcuni materiali, come il cotone, in un oggetto di lusso” è il punto di partenza del lavoro di Cindy Rhoades, fondatrice di Worn Again, azienda con base a Londra dal 2012. A testimonianza di quanto impegno sia necessario per migliorare l’impatto della filiera produttiva del settore moda e di quanto anche i grandi brand si stiano muovendo in questa direzione, Worn Again, insieme a partner globali quali H&M, Kering e Nike, sta sviluppando e provando a rendere scalabile una tecnologia di riciclo tessile che separi e catturi le fibre provenienti da vecchi tessuti e abiti, riportandoli allo stato di materiali grezzi e reintroducendoli in tal modo nella catena produttiva come nuovi. In altre parole, Worn Again mira a chiudere il cerchio risolvendo il problema dell’end of life degli abiti e dei tessuti. Come la Rhoades dice “al momento siamo principalmente focalizzati su Pet e cotone, sia mono fibre sia fibre mescolate – il Santo Graal del tessile riciclato, dal momento che circa il 35% di tutti gli abiti sono realizzati da un mix di poliestere/cotone e circa il 75% è costituito da poliestere, cotone o entrambi. Ciò non vuol dire che non andremo poi più avanti nella filiera puntando al riciclo di altri polimeri”.

Il lavoro di Worn Again e Recover e lo sviluppo di tecnologie che riciclino capi e tessuti sono resi più complicati dal fatto che, spesso, questi ultimi sono realizzati da un mix di materiali difficilmente separabili. Un limite superabile solo investendo in ricerca e sviluppo e ripartendo dalla progettazione dei capi.

 

Info

www.filippa-k.com

www.lena-library.com

www.mudjeans.eu

www.originalrepack.com

www.hifesa.com

www.recovertex.com

wornagain.info

 


  

Intervista a Bav Tailor, stilista

di A. T.

 

Rispetta il tuo corpo, rispetta l’ambiente

 

Nata a Londra da genitori indiani, Bav Tailor è una stilista riconosciuta da “Vogue” tra i talenti della Sustainable Design Revolution. Ha esposto la sua collezione al Fashion Hub Market durante la settimana della moda milanese ed è membro dell’Ethical Fashion Forum, ente per la promozione di un futuro equo e sostenibile nel settore moda.

 

Moda e sostenibilità: come riesce a combinare questi due elementi spesso in antitesi?

“La sostenibilità è il Dna del mio marchio. Lo slogan del mio brand ‘respect your body + your sphere’ è totalmente pervaso di sostenibilità: dalla ricerca sui materiali alla trasparenza della catena dei fornitori, dal design responsabile alle tecniche di produzione pensate per aiutare le comunità locali italiane e globali in difficoltà. Cerco di sensibilizzare sull’impatto sociale che tutti possono avere indossando abiti ecologici. I materiali delle mie collezioni sono certificati da enti terzi come naturali o riciclati. In tutto il processo produttivo, l’obiettivo è sempre quello di minimizzare l’impatto ambientale e promuovere la sostenibilità. Anche nelle fasi di distribuzione e vendita.

La maggior parte dei miei tessuti provengono dall’Italia per la qualità premium – di alta qualità – dei materiali. Così punto verso il settore Eco-Luxury del mercato e investo sul ridotto impatto ambientale degli acquisti locali anziché esteri. Prediligo materiali speciali come la pelle di pesce riciclata, sottoprodotto di scarto della filiera ittica; oppure legno ecologico, ortica, bambù, canapa, eco lana. Per le rifiniture utilizzo bottoni di cotone riciclato, legno naturale e madreperla, zip e filati di cotone biologico.”

 

 

Come la moda può essere più sostenibile?

“Prima di sviluppare una collezione i designer devono pensare all’impatto sociale che il loro marchio avrà. E le aziende devono introdurre solidi codici di condotta nei propri modelli di business, puntando su trasparenza e tracciabilità della catena produttiva, ricerca e sviluppo di materiali, standard di retribuzione e sicurezza dei lavoratori. 

L’industria della moda ha bisogno di promuovere materiali più sostenibili e facilmente tracciabili. I fornitori dovrebbero essere costretti a certificare le materie prime, fare ricorso a organizzazioni fair trade ed essere incoraggiati a investire in ricerca e sviluppo di materiali riciclabili e/o rinnovabili che lasciano un’impronta ecologica positiva. Per esempio uno dei materiali che utilizzo è New Life, ricavato dal riciclo di bottiglie di plastica Pet.

I consumatori poi possono diventare più intelligenti controllando le etichette degli abiti per capire dove sono prodotti; le cuciture per assicurarsi che siano durevoli; i tessuti per sapere se sono naturali, riciclabili e certificati. Si deve chiedere alle aziende sostenibilità. Bisogna amare i capi acquistati, non acquistare solo per avere di più, ma pensare a un acquisto in termini di indossabilità. Credo che il ciclo di vita di un indumento dovrebbe prevedere almeno trenta utilizzi.” 

 

 

Qual è la principale sfida in questa transizione verso un’industria della moda più sostenibile?

“Vivere in diversi continenti mi ha reso molto sensibile alla mancanza di rispetto verso i lavoratori, le materie prime, i fornitori che sono nel retroscena della filiera produttiva. La sfida è spingere le aziende a investire i soldi spesi dai consumatori in capitale umano, responsabilità sociale e giustizia economica. Le aziende e i key influencers hanno il dovere di sensibilizzare i consumatori sull’impatto che il consumismo sta avendo. È fondamentale creare un movimento, un approccio mentale dove ‘meno è più’ (less-is-more).”

 

 

Quanto è importante la fase di ricerca?

“L’impronta ecologica di un marchio deriva interamente dalla fase di ricerca e sviluppo. Tuttavia, il costo di ricerca e di sviluppo di risorse più sostenibili è molto elevato, difficile da affrontare per i piccoli marchi. La mia ricerca in questa fase è orientata verso l’approvvigionamento di materiali già esistenti riciclati, fibre naturali certificate e upcycled. Ora che il mio brand sta crescendo, investo in ricerca e sviluppo sui miei stessi materiali riciclati usando scarti pre-consumo.”

 

 

Dove si possono trovare nuovi materiali?

“È impressionante lo spreco globale che c’è in tutte le industrie. A oggi, non si investe abbastanza nella ricerca di come possono essere rigenerati gli scarti di produzione e i rifiuti pre-consumo come bucce d’ananas, cashmere rigenerato o scarti di pesce.” 

 

 

Design: è possibile creare vestiti che durino più a lungo se non per sempre?

“Gli abiti realizzati con tessuti premium, con tecniche di produzione di qualità e con disegni semplici possono essere fatti per durare. Il mio processo di campionamento e produzione si sforza da un lato di utilizzare materiali riciclati e upcycled, dall’altro di semplificare disegni e prototipi. Anche i consumatori, dal canto loro, devono cambiare atteggiamento e prendersi maggiore cura dei capi per farli durare più a lungo.” 

 

 

Qual è il traguardo già raggiunto di cui è più orgogliosa? E quale il prossimo obiettivo?

“Sono fiera che il mio marchio sia stato riconosciuto dall’industria della moda e del design come un marchio sostenibile Eco-Luxury da importanti enti del settore, come la Camera nazionale della moda italiana e da ‘Vogue Italia’. 

Il mio prossimo obiettivo è creare un effetto a catena per cui il mio messaggio di rispetto verso gli esseri umani e il nostro pianeta possa raggiungere persone influenti in posizioni di visibilità e potere per creare insieme consapevolezza e cambiamento.”  

 

 

Ethical Fashion Forum, www.ethicalfashionforum.com

Camera nazionale della moda italiana, www.cameramoda.it/it