La complessità è la chiave per analizzare la sfida sociale, economica e ambientale dell’occupazione. Un’affermazione centrale della ricerca e del lavoro di Enrico Giovannini, economista e statistico, già Ministro del Lavoro in Italia, presidente dell’Istat, l’Istituto di Statistica Italiano e oggi a capo di ASviS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Giovannini per anni all’Istat e all’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e al Ministero del Lavoro ha macinato matrici di dati per cercare di capire l’evoluzione del mondo del lavoro e fronteggiare la crescente crisi occupazionale. Ha sempre lavorato per la salvaguardia dell’occupazione utilizzando strumenti come gli ammortizzatori in deroga, i cui fondi sono stati triplicati durante il suo periodo da ministro, o con provvedimenti come la Garanzia Giovani, finalizzato a sostenere il lavoro giovanile. Nel campo delle politiche sociali, ha varato la riforma dell’Isee, un indicatore della situazione economica equivalente impiegato in Italia, e disegnato un nuovo strumento per la lotta alla povertà come il Sostegno per l’inclusione Attiva, una prima forma di reddito minimo. Oggi capo dell’ASviS lavora per promuovere il connubio sviluppo sostenibile globale e lotta all’esclusione sociale. Materia Rinnovabile l’ha intervistato per capire il peso reale di un’adozione efficace dell’Agenda 2030 nella lotta per un lavoro dignitoso, ben retribuito e duraturo per tutti. 

 

Il lavoro ha un ruolo centrale nell’Agenda?

“Il documento affronta chiaramente la questione del lavoro dignitoso cui ha dedicato un intero goal: attraverso una buona occupazione si possono raggiungere molti altri obiettivi, dal superamento delle diseguaglianze all’integrazione dei giovani nella vita adulta. Naturalmente attraverso un lavoro dignitoso si assicura un livello di reddito adeguato per poter investire in salute, educazione e così via. L’Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile, pensata da molti fondamentalmente per scopi ambientali, è diventata, con l’Agenda 2030, una visione integrata degli aspetti economici, sociali, ambientali e anche istituzionali. Questo è uno straordinario passo in avanti dal punto di vista concettuale. Negli schemi che io spesso impiego, dove mostro come il modo di produrre e di consumare impatta sugli ecosistemi, ho introdotto anche una casella riferita ai socio-sistemi che, come gli ecosistemi producono gratuitamente servizi per le persone, offrono un benessere duraturo. Parlo della pace, della fiducia del futuro, della coesione sociale. Senza i quali non c’è crescita economica, non sostenibilità istituzionale. Il passaggio chiave è quello contenuto nella Laudato si’ di Papa Francesco, il quale ricorda che la cultura che genera gli scarti fisici è la stessa che genera gli scarti umani: i poveri, i disoccupati, gli emarginati. L’aumento di questi soggetti mette a rischio la coesione sociale e il futuro di un paese. E anche l’ambiente.”

 

Cosa vuol dire un lavoro dignitoso nel 2018, tra precarietà, deregolamentazione del mercato del lavoro, gig-economy?

“Oltre a essere un lavoro che non abbia nulla a che vedere con la schiavitù e le sue nuove forme, e non abbia rischi fisici legati al suo svolgimento, deve essere un lavoro retribuito adeguatamente. È un tema centrale per tutta l’Europa. Prendiamo l’Italia che ha un numero di occupati superiore rispetto al picco occupazionale ante-crisi del 2008. Sembrerebbe un ottimo dato, per altro molto enfatizzato da alcuni politici.

Ma se trasformiamo l’ammontare di occupazione in nuovi posti di lavoro retribuiti in proporzione alle ore lavorate, siamo circa un milione e 300 mila unità di lavoro al di sotto del picco. Quindi vuol dire che il lavoro nuovo non solo è precario ma non soddisfa le esigenze reddituali delle famiglie. Peggio. Dato che si va verso una situazione ancora più complessa. Noi a livello globale dovremo creare 600 milioni di posti di lavoro entro il 2030 solo per tenere il passo con la crescita demografica del pianeta, mentre automazione e intelligenza artificiale spingono per una riduzione di molte tipologie di posti di lavoro. 

Faccio parte della Commissione internazionale del lavoro dell’Ilo (International Labour Organization); i risultati che stanno emergendo, che saranno presto raccolti in un nuovo rapporto, ci raccontano che siamo di fronte ad un cambiamento epocale. In passato le grandi innovazioni tecnologiche hanno sì inizialmente distrutto posti di lavoro, ma poi hanno in qualche modo creato nuova occupazione in settori emergenti. Questa volta potrebbe essere differente. In senso negativo.” 

 

In che modo sarà diversa questa nuova fase dell’economia mondiale?“Per tre aspetti. Il primo: la rapidità con cui avviene questa innovazione tecnologica e d’introduzione dell’automazione è molto elevata. E va a toccare lavori che storicamente nell’immaginario collettivo sembravano non essere investiti dall’innovazione. Pensiamo ai giornalisti. Oggi esistono nuovi software d’intelligenza artificiale che sono in grado di scrivere, partendo da matrici di dati, lanci d’agenzia o coperture di un evento sportivo, producendo testi che non sono distinguibili da quelli scritti dagli umani. 

Secondo aspetto: quest’ondata di innovazione arriva in un mondo fortemente globalizzato. Quindi non è per niente detto che si crei nuova occupazione laddove si distrugge la vecchia. Questo può avvenire altrove, nei luoghi maggiormente competitivi. Comportando enormi spostamenti geografici di breve termine – anche molto intensi – della quantità di lavoro complessiva.

Il terzo aspetto è legato al fatto che il boom dell’automazione spinge verso il basso i salari, ma essendo così ampia rischia di andare a impattare ancor di più sulla distribuzione della ricchezza, già fortemente squilibrata a favore dei più ricchi.” 

 

 

Questi tre elementi rendono il quadro molto preoccupante.

“Non tanto nel lungo termine ma nelle transizioni. Da questo derivano due conclusioni fondamentali. Occorre ridare centralità alle politiche attive del lavoro, cioè iniziative, misure, programmi ed incentivi, volti a favorire l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro Questo è fondamentale per spingere le persone a spostarsi da un settore a un altro, da una regione all’altra, a essere preparate ai cambiamenti. L’assenza di politiche attive del lavoro diventerà sempre più un grande tallone d’Achille per ogni sistema economico. 

La seconda conclusione è la necessità di essere formati durante tutto il ciclo di vita del lavoratore, fondamentale per sostenere queste trasformazioni. L’Italia, per esempio, di fatto non ha una politica degna di questo nome per la formazione continua degli adulti. È un paese in cui le imprese, a parità di condizioni, investono in formazione meno di quanto avviene in altri paesi. Ma soprattutto manca una vera politica nazionale.

Generalmente su questo tema sussiste una contraddizione concettuale: le imprese classificano i lavoratori al di fuori del patrimonio dell’azienda in base ad un principio che dice ‘visto che i lavoratori non sono completamente sotto il controllo dell’impresa, allora non possono essere considerati patrimonio dell’impresa’. Questo deriva dal fatto che i lavoratori erano considerati ‘patrimonio dell’impresa’ quando erano schiavi. Quindi per marcare storicamente il fatto di non considerare le persone ‘schiavi’, si è detto ‘trasformiamoli in un costo’. Questo concetto è totalmente inadatto alla modernità, che invece dovrebbe valorizzare i dipendenti come patrimonio dell’azienda in senso positivo. Ci sono alcuni paesi che già ora prevedono sgravi fiscali per le imprese che investono in formazione. Ma la maggior parte degli stati investe in sgravi fiscali per le macchine e l’innovazione tecnologica, e non in formazione.” 

 

Può citare un esempio di applicazione concreta di questo tipo di politica attiva del lavoro?

“La Germania ha sulle politiche attive del lavoro una storia lunga, inoltre, a causa della crisi, ha rivisto tutto il suo sistema nel 2010. Gli stessi Stati Uniti hanno importanti incentivi per fare formazione. Chi non fa politiche attive potrebbe anche limitarsi a copiare i paesi che le hanno introdotte. È un investimento a lungo termine.”

 

In Europa si parla dell’economia circolare come una leva per creare nuova occupazione. Su queste pagine Janez PotoÄ�nik annunciava la creazione di 500.000 posti di lavoro legati al Pacchetto economia circolare. Qual è la sua impressione? 

“L’economia circolare ha due impatti distinti. Il primo riguarda le imprese che, avendo capito il senso dell’economia circolare riescono ad abbattere i loro costi, essere più efficienti e quindi crescere. Che vuol dire assumere altre persone. Questo è il modo classico di concepire la competitività e la crescita economica e quindi è corretto assumere che la circular economy produrrà occupazione.

Il secondo è ancora più rilevante. Lo spiego con una battuta dell’imprenditore Oscar Farinetti, patron di Eataly che in un convegno l’anno scorso diceva: ‘Ho chiamato Donald Trump e gli ho detto: abbiamo fatto un sacco di soldi inquinando il mondo. Adesso possiamo fare ancora più soldi ripulendolo’. Cosa intendo dire: dato che le condizioni ambientali del pianeta non sono sostenibili, se il mondo decidesse di dare impulso a una vera e propria transizione ecologica e si mettesse a ripulire davvero quello che abbiamo sporcato, a rendere sostenibile la produzione economica e a dare impulso a un’economia circolare – ovviamente attraverso adeguati investimenti – si creerebbero numerosi posti di lavoro. Non necessariamente di lunghissimo periodo, come è avvenuto per la grande ondata di investimenti infrastrutturali del Secondo Dopoguerra che ha dato lavoro nella fase di picco per poi assestarsi su numeri più modesti. Per fare ciò è necessario pensare a grandi piani d’investimento che migliorino il potenziale di crescita economica ma anche la qualità della vita e favoriscano la transizione verso un modello diverso di economia.”

 

Chi fa il primo passo? 

“I privati in parte lo stanno facendo, mentre il settore pubblico ancora interviene poco in questo senso. La Germania ha ripulito in profondità la zona della Ruhr, una regione invivibile solo trent’anni or sono. Tante altre aree d’Europa invece rimangono immobili, come accade per l’acciaieria Ilva di Taranto.”

 

 

Investimenti strutturali vs spesa per il welfare. La coperta del budget di un paese è sempre più corta. Come gestire in maniera sostenibile un mix di politiche d’investimento e di sostegno sociale?

“Nel mio libro L’utopia sostenibile (Laterza 2018, ndr) ho provato a declinare in maniera diversa il modo con cui normalmente si guarda alle politiche economiche, sociali e ambientali. Se il futuro è pieno di shock, economici e sociali, si prefigura un percorso di sviluppo di non-sostenibilità. Per affrontarlo ci sono tre atteggiamenti. Il primo è quello distopico, cioè quello che vede il futuro come un disastro assoluto, dove ci si barricherà in città bunker vivendo alla giornata. Il secondo è quello retrotopico, come definito da Zygmunt Bauman, ovvero un futuro centrato sul ritorno al passato, a un mondo che in realtà non è mai esistito. Il terzo è quello dell’utopia sostenibile, che affronta seriamente i temi dell’Agenda 2030. Dando per assunto che il futuro sarà pieno di shock, questi potranno essere o piccoli e locali e dunque si potranno assorbire; se saranno di media intensità bisognerà assorbirli e adattarsi. Se saranno di grande portata, destinati a un impatto duraturo, allora cambiare sarà imprescindibile. 

Se vogliamo perseguire l’utopia sostenibile è necessario riclassificare le politiche in base a cinque parole chiave: promuovere, proteggere, preparare, prevenire, trasformare. Il reddito di base serve a proteggere, ma se è solo un reddito e non prepara al cambiamento o alla trasformazione allora non va molto lontano. Oggi costruire una nuova autostrada senza pensare che tra qualche anno i veicoli andranno a guida autonoma – e quindi senza inserire nel progetto elementi di sensoristica o infrastrutture per l’autoelettrica – non avrebbe senso. Noi dobbiamo investire nel futuro tenendo conto della sua complessità. Certo la coperta può essere corta, ma sappiamo anche che il settore privato è pronto a investire perché ci sono enormi opportunità di business.

Se non si ha un’idea chiara di futuro non si manda il segnale corretto al settore privato. Quando in Norvegia si annuncia che le auto a benzina saranno messe al bando entro il 2025 si manda un messaggio chiaro all’industria automobilistica. Per avere un’idea chiara di futuro bisogna tenere in testa la complessità di questa sfida. L’Agenda 2030 ci aiuta come una mappa a districarci nella grande sfida del futuro che ci attende.” 

 

 

ASviS Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, http://asvis.it

“Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”, settembre 2015; asvis.it/public/asvis/files/Agenda_2030_ITA_UNRIC.pdf