Come sappiamo le posizioni critiche partono dal constatare l’assenza di una comunicazione strutturata relativa alle grandi criticità planetarie che riguardano l’alimentazione nel mondo.
Qua e là, in realtà, a Expo queste tematiche appaiono, tenendo anche presente una distribuzione di appuntamenti su cinque mesi, ma è vero che non c’è una cornice progettuale che le faccia emergere.
Però merita ragionare su quale format mediatico questa comunicazione mancante avrebbe dovuto seguire. C’era poi un’altra questione, quella degli sponsor, giudicati come portatori di una logica business oriented. Che dire: sulle sponsorizzazioni in generale ormai mi sembra superfluo discutere – salvo alcune eccezioni, ovviamente – anche perché credo che nella grande kermesse di una manifestazione come Expo da 200.000 visitatori giornalieri, la visibilità reale degli sponsor sia decisamente bassa: con una valanga di gente il “segno” dello sponsor si perde. Per inciso, nel padiglione francese, fra l’altro uno dei più interessanti dal punto di vista dei temi della sostenibilità, si possono osservare le espressioni dei visitatori profondamente segnate da turbati interrogativi quando, per una disattenta disposizione della location, ci si trova improvvisamente immersi in un concentrato di intimo femminile – anche in vendita – che per alcuni minuti è difficilmente assimilabile a tutto il resto. È lo sponsor.
Non credo che una comunicazione diretta, sul filone mostre specifiche, dedicate alla fame nel mondo avrebbe centrato l’obbiettivo. Il pubblico che va a una fiera mondiale è sintonizzato su altre frequenze di comunicazione. Invece, per esempio, un racconto accurato e spettacolare sui temi che tratta questa nostra rivista quando parla di materiali che si possono ricavare da tutto ciò che è food: ecco, uno spazio dedicato a questo scenario, fondamentale per gli equilibri energetici, ci sarebbe stato bene.
C’è poi un dato che è difficile non cogliere: Expo è un magnifico frullato di facce di tutti i colori e di tutte le forme, sonorità di centinaia di lingue, come di vestiti, cappelli, scarpe (io penso che sia giusto considerare anche questi dettagli che segnano le tante tribù della nostra specie). Bene, di questi tempi così tanto fragili per ciò che è altro da noi, questa concentrazione di diversità è un messaggio vitale, anche inconscio.
Ora, quando arriva il buio, a Expo migliaia di persone si radunano intorno all’Albero della vita per assistere allo spettacolo di luci e suoni. Questo è un momento che si poteva utilizzare per una narrazione dei grandi temi, emotiva, popolare – e cioè che va bene per tutti noi – qualcosa che parlasse di presente e di futuro, disegnando scenari positivi e ottimistici, anche, a partire dalle cose che possiamo fare. Cinque mesi di successivi mini-raduni di comunità mondiali, con una multimedialità che sapesse superare – è possibile, ci sono ottimi esempi – le barriere linguistiche, oppure ruotasse sulle differenze, sarebbero stati un contributo di valore.
Chiudo con un suggerimento ai gestori del Padiglione Italia. Nella piccola sala che è stata dedicata a spiegare come sarebbero andate le cose senza la presenza dell’Italia, c’è un plastico dell’Europa nel quale, appunto, lo stivale e le sue isole non ci sono. Questa saletta è un piccolo momento tragico e incomprensibile. Tuttavia, è stata tolta anche Malta, giù, dove si trovano Lampedusa e Pantelleria. Bisogna rimetterla. Oppure, meglio, si potrebbe chiudere la saletta.