Incappo casualmente nel ‘Rapporto Energia Emilia-Romagna’ ove trovo scritto:
Fatico a credere che istituzioni emiliano-romagnole non sappiano che Crisi Climatica, crisi finanziaria/industriale da globalizzazione deregolata ed oggi crisi pandemica sono sfide epocali per superare le quali l'Unione Europea ha proposto il Green Deal, generativo di un'economia competitiva, in cui dal 2050 non si registrino più emissioni nette di gas serra, la crescita economica sia disaccoppiata dal consumo di risorse limitate, nessuna persona e nessun luogo sia trascurato.
Perno di tale strategia è la decarbonizzazione del modello di sviluppo, che promuova economia circolare e bioeconomia, ripristino di biodiversità e riduzione di emissioni fino a -50% (contro il -40% inizialmente previsto) o al -55% (richiesto in più sedi) entro il 2030, attraverso una transizione ecologica giusta ed inclusiva.
Il Green Deal sottende la volontà di emanare una ‘Legge europea sul Clima’ che traduca in obbligo giuridico l'impegno politico per la neutralità climatica al 2050, incentivando investimenti per:
- sviluppare e diffondere tecnologie industriali più pulite
- sostenere l'innovazione di processo e prodotto per beni e servizi sostenibili
- promuovere modalità di trasporto privato e pubblico più pulite
- decarbonizzare la produzione energetica
- garantire una maggiore efficienza energetica dell’ambiente costruito
- migliorare gli standard ambientali internazionali
Com’è dunque possibile che ad una realtà tradizionalmente attenta all’Europa come la Regione Emilia-Romagna sfugga il vulnus di un Rapporto in contraddizione con il Green Deal, proprio quando è chiaro che politiche nazionali/regionali non coerenti con tale strategia condizioneranno anche l’accesso al Recovery Fund?
La narrazione del Carbon Capture and Storage
Mi colpisce che tale vulnus emerga nel corso dell’ossessivo storytelling di una Riviera romagnola fortunato luogo di sperimentazione a scala reale di una tecnologia di cui si favoleggia da anni, ma che ancor oggi risulta più green washing filo-fossile che frutto di pratica industriale di scaling-up: il CCS (Carbon Capture and Storage).
La narrazione descrive sottosuoli di pianura e fondali adriatici emiliano-romagnoli come “hub gasiero”, tempo fa vocato al CH4, ora alla CO2 in vista dello scenario H2 (Idrogeno grigio, verde, prodotto come?), destinato a rifornire i mercati energetici dell’Europa Centro Settentrionale.
Colpisce altresì che il vulnus filo-fossile sia stato preceduto, con lo storytelling ancora in gestazione, da levate di scudi istituzionali contro la richiesta avanzata da seri ricercatori, anche bolognesi, di studiare le possibili relazioni tra la pessima qualità dell’aria che si respira nella Valle del Po, tra le quattro aree con il peggiore inquinamento atmosferico al mondo, e la pesante diffusione di contagi Covid19 ivi riscontrata durante la prima ondata pandemica.
Si son visti amministratori regionali irridere la proposta di verificare scientificamente l’eventuale ruolo di booster o carrier, rispetto alla circolazione del coronavirus, del particolato fine e di altri inquinanti tipici dell’attuale società consumistica e fossile, con sforamenti costanti dei limiti normativi, emessi da sorgenti puntuali (impianti industriali ed energetici), lineari (traffico) ed areali (allevamenti intensivi, riscaldamento).
Analoghe levate di scudi istituzionali si sono subito dopo registrate contro progetti di elettrogenerazione eolica nell’offshore romagnolo.
Insomma, registro con stupore imprudente attivismo di fatto proclive alla causa fossile, scarsa attenzione all’urgenza di un nuovo modello di vita, produzione e consumo orientato alla sostenibilità, carente impegno concreto a favore delle improcrastinabili azioni di adattamento e resilienza da porre in essere per rallentare gli effetti ormai irreversibili della Crisi Climatica e ambientale globale.
Il casus belli del parco eolico offshore
Mi pare a questo punto necessario un confronto culturale razionale, trasparente e documentato sul casus belli del parco eolico offshore, poiché in poche settimane decine di studi pubblicati dai migliori gruppi di ricerca internazionali sulle più importanti riviste scientifiche hanno portato a dirimere la vexata quaestio inerente il rapporto tra aria inquinata e coronavirus, asseverando la consistenza della proposta di approfondimento a suo tempo imprudentemente irrisa dai menzionati esponenti politici -non solo- emiliano-romagnoli, anche incaricati di ruoli di governo regionale.
Fonti rinnovabili e strategie di efficienza energetica furono il perno centrale del primo Piano Energetico Regionale italiano, proprio dell’Emilia-Romagna, che nel 1979 elaborai, da Assistente pro-tempore del Presidente della Regione Turci.
Era l’Emilia Romagna dell’AGAC di Reggio Emilia che realizzava cogenerazione per il teleriscaldamento della città, della Riva Calzoni di Bologna produttrice dei sistemi di trasmissione del moto dalla pala eolica all’alternatore con le minori perdite di carico, dell’AGIP-Giza che costruiva il primo digestore anaerobico a scala reale per produrre biogas da liquami suinicoli, del CRPA che con CNR e Municipalizzate sperimentava i primi impianti di compostaggio per rifiuti organici e gli essiccatori solari per le stalle sociali, dell’ERVET che progettava lo sviluppo ecocompatibile delle aree marginali interne dell’Appennino … e di tante altre eccellenze.
La redazione del Piano fu preceduta da intensa attività istruttoria da cui emersero, tra l’altro, le criticità di realizzazione e prima gestione dell’impianto nucleare di Caorso.
Il Piano venne adottato, ma la sua attuazione fu contrastata e diluita da parti della burocrazia regionale che in tema di energia brillava per ‘resistività al cambiamento’. Tale attitudine riemerse a proposito di un ulteriore Piano che percepisco non noto a molti amministratori e politici oggi impegnati a favore della narrazione “hub CCS” e contro i parchi eolici: il Piano di Gestione Integrata della Zona Costiera (GIZC) richiesto dalle norme UE, che coordinai con l’Assessore Regionale Ambiente Tampieri fino alla approvazione da parte di Giunta Regionale ed Enti Locali costieri e poi presentato ufficialmente con il Convegno “Sviluppo sostenibile della costa”, organizzato a Rimini nel Maggio 2003.
L’elaborazione si basava sull’assunto che la competizione tra sistemi territoriali sul mercato globale vedeva emergere la qualità ambientale tra i fattori fondamentali di successo, assieme alla propensione all’innovazione e alla qualità sociale, e sulla consapevolezza del rischio, associato all’aggravamento allora in corso dei fenomeni globali di cambiamento climatico, di vedere le zone costiere colpite da innalzamento del livello dei mari, loro incremento di temperatura, re-impaludamento costiero, ricomparsa di agenti patogeni debellati e comparsa di nuovi, modifica radicale degli ecosistemi e aggressione alla biodiversità, intrusione salina, aridificazione delle coste.
Il Piano per la Gestione Integrata delle Zone Costiere (GIZC) evidenziava come prodotti attesi:
- la costruzione di un Sistema Informativo Territoriale e Ambientale, a partire dai dati sull’uso del demanio pubblico, per la Valutazione Ambientale Strategica degli interventi e per il loro monitoraggio d’efficacia ex-post;
- l’attuazione della Direttiva quadro UE sul governo delle risorse idriche (dagli standard qualitativi alle buone pratiche di uso razionale delle risorse);
- l’attivazione di politiche moderne nel campo della mobilità sostenibile, della gestione integrata dei rifiuti, dei sistemi energetici.
Si giunse a scegliere come brand identitario del territorio costiero “Wellness District”, per comunicare le opzioni di sviluppo sopra citate, connettendo balneazione e termalismo e prolungando così l’arco temporale di utilizzo delle strutture ricettive.
Si evidenziava, in particolare, la priorità da attribuire a un set di azioni tra cui:
- riqualificazione dei servizi alberghieri sul piano dell’efficienza eco-energetica;
- riutilizzo di pescherecci eccedenti per pescaturismo e cabotaggio costiero;
- valorizzazione della linea ferroviaria esistente tra Cattolica e Ravenna come metropolitana di superficie per decongestionare la statale Romea.
In materia di politiche energetiche, attenzione va posta a questa previsione di Piano: creazione di un “parco tecnologico costiero”, per sistemi energetici fondati su fonti rinnovabili (dal solare termico ai bagni fotovoltaici, dagli impianti eolici off-shore sulle piattaforme per idrocarburi al largo della costa alla produzione ed utilizzo di biomasse aree di rinaturazione e terre a riposo). A seguito dell’analisi che in GIZC si fece del bilancio energetico d’area.
Da quell’analisi risultavano evidenti criticità:
Vennero perciò indicati obiettivi di politica energetica sostenibile così schematizzati:
Per realizzare la windfarm sulle piattaforme offshore in dismissione mineraria, molto lavorammo per evitarne lo smantellamento, che avrebbe peraltro rimesso in circolo i fanghi tossici da attività di perforazione, accumulati nei fondali sotto le piattaforme.
Evitato tale rischio, il confronto con l’allora AGIP Produzione ed Estrazione portò ad ottenere che la allora Snamprogetti si facesse carico del programma REPLAT - Recycling Platforms per validare la fattibilità dell’installazione di pale eoliche sulla sessantina di piattaforme presenti da Cattolica a Ravenna, a partire dalla verifica di intensità e direzione prevalente dei venti nell’area: la potenza delle pale allora disponibili era di 0.5 MW/cad e la velocità utile del vento doveva superare i 6m/sec.
Il programma REPLAT dimostrò disponibilità di vento con la citata velocità per quasi 2000 h/anno ed escluse che regimi di bora potessero pregiudicare l’equilibrio statico degli impianti eolici sulle piattaforme. Il trasporto a terra della elettricità producibile non era un vincolo: le piattaforme erano già interconnesse con cavo fino a quelle denominate ‘Angela’ ed ‘Angelina’, localizzate in prossimità dell’area portuale di Ravenna. La dismissione mineraria di una piattaforma non significava esaurimento totale del giacimento, ma solo che la pressione del gas residuo non era più considerata utile commercialmente; quel gas residuo sollecitò l’interesse al progetto di SAPIO ed HERA, cui appariva interessante la trasformazione in situ del gas naturale a Idrogeno con processo di ‘reforming’ alimentato dall’energia eolica, e di CETENA-Fincantieri, interessata al ‘refitting’ a celle a combustibile dei motori dei circa 300 pescherecci di Rimini allora in dismissione, così riutilizzabili per cabotaggio costiero di merci e persone in alternativa alla intasata e pericolosa strada costiera.
CETENA-Fincantieri considerava una tale sperimentazione prodromica rispetto alla sua progettazione, allora in programma, di un vaporetto elettrico per Venezia.
Il Piano GIZC approvato da tutti gli attori istituzionali non trovò attuazione. Risultò chiaro che EniPower, impegnata a dare corso al progetto di una centrale a ciclo combinato da 800 MW a Ravenna, aveva orientato a sfavore della windfarm l’Assessorato Regionale Attività Produttive competente in materia di impianti energetici, diretto dalle stesse persone che anni prima avevano bloccato il Piano Energetico Regionale, attraendo attori imprenditoriali e sindacali potenzialmente interessati alla realizzazione della centrale turbogas che il Piano GIZC aveva dimostrato non necessaria al bilancio energetico emiliano-romagnolo.
Le rappresentanze sindacali spesso temono ancora, purtroppo, che una politica energetica sostenibile non garantisca l’occupazione degli attuali addetti al comparto fossile, quando basterebbe calcolare quante e quali professionalità saranno richieste dalla diffusione delle Comunità Energetiche così come dall’applicazione delle normative ‘Ecobonus’ per sciogliere il dubbio.
Gli uffici regionali resistivi al cambiamento inserirono nei loro programmi una previsione di produzione da fonti rinnovabili, a fronte di un potenziale di oltre 200 MW solo dalla windfarm offshore, pari a una potenza installata di 20 MW. Davvero un vergognoso specchietto per allodole ambientaliste! Se i progetti proposti dal Piano GIZC approvato avesse avuto attuazione, dalla solarizzazione termica e fotovoltaica di stabilimenti balneari e strutture ricettive fino alla windfarm offshore sulle piattaforme in dismissione, la Riviera avrebbe goduto di un grande valore aggiunto sia in termini di immagine ‘environmentally friendly’ che di laboratorio avanzato di innovazione tecnologica e gestionale, ospitando quella che sarebbe stata la prima windfarm del Mediterraneo (ora non più) quando industrie e governi dell’Europa Centro Settentrionale erano ancora impegnati nella progettazione di grandi windfarm su supporti galleggianti nei tempestosi mari del Nord, la cui realizzazione è oggi in corso con dotazione di pale di potenza fino a 14 MW/cad per una velocità del vento superiore a 3 m/sec.
Contestualmente, molte delle imprese emiliano-romagnole prima citate non esistono più o sono state acquisite (e spesso vampirizzate di know-how e Ricerca&Sviluppo) da gruppi stranieri, mentre il mondo cooperativo ha visto scomparire i suoi principali attori in campo tecnologico e delle costruzioni, non insensibili alle sirene fossili. Peccato!
Confido che la narrazione di esperienze passate ed occasioni perdute favorisca una riflessione sull’oggi, se si vuole essere credibili all’appuntamento con il Green Deal, a partire dall’Emilia-Romagna.
Immagine: spiaggia di Cattolica, Riviera Romagnola (ph Francesco la Rosa)