Uno dei capisaldi del brand Italia è entrato dunque a pieno titolo nell’era contemporanea trainandosi dietro un forte rilancio dei prodotti a marchio territoriale, del biologico e del biodinamico. Adesso tocca alla moda. Non certo perché la moda sia rimasta indietro dal punto di vista della capacità competitiva: i numeri dimostrano il contrario e la natura stessa del settore è legata al continuo aggiornamento della sensibilità. Ma il tema può essere affrontato toccando varie corde. E da qualche tempo quelle ambientali risuonano con più frequenza.

Questa partita è cominciata in difesa. Campagne come Detox di Greenpeace sono servite a mettere a fuoco la necessità di depurare il sistema dalla presenza di elementi indesiderati. La consapevolezza dell’impatto sanitario di sostanze tossiche sia nei vestiti sia nell’ambiente ha avviato una trasformazione dei processi produttivi del settore dell’abbigliamento che è ancora in corso e che viaggia a velocità diverse nei diversi paesi.

Adesso sta prendendo corpo un’altra scommessa: far entrare la variabile ambiente all’interno della scelta delle materie da impiegare, utilizzandola anche come fattore di competizione. L’accettazione di questo principio non è scontata perché le resistenze si addensano su vari fronti. Uno è ben individuato in questo numero di Materia Rinnovabile dall’articolo di Marco Ricchetti che lancia il tema con una citazione di John Elkington tratta dall’incipit di Cannibals with Forks: “È progresso se un cannibale usa la forchetta?” Cioè, fuor di metafora, è progresso se le corporation che lottano per la supremazia adottano modelli di produzione sostenibili?

La provocazione coglie una diffidenza diffusa che è tipica anche dei ragionamenti attorno ad altri settori produttivi fortemente innovativi. E, presa in astratto, è difficile da giudicare: può essere una saggia cautela per stanare il greenwashing; oppure un pregiudizio ideologico, un atteggiamento acriticamente anti industriale. Pavan Sukhdev, l’economista indiano che ha elaborato il progetto Teeb sul valore degli ecosistemi, in Corporation 2020 ha espresso una visione ottimistica del futuro delle multinazionali: “Il peso degli investimenti green è cresciuto del 61% negli ultimi due anni, passando dai 13.300 miliardi di dollari del 2012 ai 21.400 del 2014. Cambiano pelle vecchie società, come la Dow Chemical che in Louisiana ha fatto investimenti in efficienza energetica con una resa del 204% in 13 anni. E ci sono nuove aziende come Patagonia, Natura o l’indiana Infosys cresciute moltissimo scommettendo sull’impegno sociale e ambientale”.

Ma nel campo della moda quanto è avanzato questo processo e in che misura si può saldare in modo coerente con la prospettiva dell’economia circolare? Per rispondere a questa domanda abbiamo messo sul tappeto i dati di base, cioè la forte crescita del flusso di materia per alimentare il settore. Più 68% negli ultimi 15 anni: da 8 chili di fibre tessili pro capite a 15. Con l’ovvio codazzo di consumo di acqua, energia, suolo per sostenere il meccanismo.

Di fronte a questi numeri la proposta che questa rivista sostiene è articolata in un libro appena uscito Neomateriali nell’economia circolare: Moda (a cura di M. Ricchetti, Edizioni Ambiente 2017, ndr). Un testo che documenta esempi dell’uso sostenibile di materiali nella filiera produttiva della moda e analizza il tema anche dal punto di vista del consumo dei materiali non rinnovabili, dell’uso delle risorse idriche, dell’impatto delle sostanze chimiche adoperate.

Si può sorridere della brevità dello stato di grazia di una giacca degna di una sfilata di moda, e pensare ai cannibali con la forchetta. Ma, se guardiamo ai grandi numeri, conta di più il ciclo di vita della materia che va a comporre quello che indossiamo tutti i giorni: vestirsi è un’attività che produce un rilevante impatto ambientale. Sta a noi sceglierne il segno.