In ritardo di un anno rispetto alla tabella di marcia, causa epidemia da Covid19, e dopo mesi di incertezze, il 2021 sarà teatro di due incontri fondamentali per il futuro del Pianeta. A settembre, a Marsiglia, si terrà il Congresso Mondiale dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). A novembre, le 193 parti della Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici si incontreranno nuovamente a Glasgow per la COP26, in quello che sarà il meeting più importante dall’adozione dell’Accordo di Parigi.
Due conferenze (a cui si aggiungerà la COP15 sulla Biodiversità a marzo 2022 in Cina), tre grandi crisi interconnesse di cui quella sanitaria rappresenta un’estrema conseguenza: quella ecologica, quella climatica e quella della biodiversità.
Proprio per questo, Matthias Fiechter, media e communication officer di IUCN ha dichiarato, durante una conferenza stampa tenutasi a Marsiglia a giugno, che il congresso di settembre è “un evento decisivo in tempi critici”. Ma da cosa è dettata l’urgenza? Cosa sta accadendo alla biodiversità? Quanto tempo abbiamo e cosa possiamo fare?
Lo stato della biodiversità
C’è stato un momento, nella storia della Terra, in cui l’impatto delle attività umane, seppur sempre esistito, ha assunto una dimensione globale e irreversibile. Quello che per migliaia di anni è stato un rapporto di convivenza equilibrato si è rotto ed è ufficialmente iniziato l’Antropocene, l’epoca caratterizzata dal dominio dell’uomo.
Dalla Rivoluzione Industriale in poi, l’impatto trasformativo che l’uomo ha avuto sulla Terra è stato così devastante che, ad oggi, il 75% delle superfici continentali, il 40% degli ambienti marini e il 50% dei corsi d’acqua risultano alterati dalle attività umane.
Degli 8.7 milioni di specie animali e vegetali stimate, circa un milione sarebbe a rischio di estinzione ma l’incertezza sul dato relativo al numero di specie effettivamente esistenti sul Pianeta è esso stesso preoccupante: non sappiamo quante siano e, per questo, non abbiamo attualmente un’idea chiara di quante ne stiamo perdendo ogni giorno anche se, l’ultimo report di Legambiente, parla di 200 unità.
Lontana dall’essere un fenomeno naturale su scala geologica, l’attuale estinzione ha come unico colpevole l’uomo che sta letteralmente cancellando la vita selvatica del Pianeta. Al ritmo attuale, ci stiamo dirigendo verso un futuro in cui la biomassa di insetti si ridurrà del 2.5% l’anno. In questa percentuale rientrano chiaramente gli impollinatori (api, bombi, vespe, farfalle, falene, coleotteri ma anche alcuni mammiferi) che svolgono un ruolo fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra visto che, a loro, dobbiamo il 35% della produzione agricola mondiale, con un valore economico stimato ogni anno di oltre 153 miliardi di euro a livello globale e 22 miliardi di euro in Europa.
Tra il 1970 e il 2014, la popolazione di vertebrati si è ridotta del 60% e, nel 2020, la massa dei manufatti umani ha superato l’intera quantità di biomassa sulla Terra. Questo significa che i materiali prodotti dall’uomo - come plastica, cemento, acciaio… - stanno superando l’insieme degli esseri viventi sulla terra, uomini e piante compresi.
Proprio l’inquinamento da plastica rappresenta uno dei pericoli più preoccupanti, soprattutto per la biodiversità marina: gran parte dei rifiuti di plastica del mare vengono infatti scambiati per cibo da animali come i capodogli, le tartarughe marine, e pesci di vario genere. Molte altre specie, rimangono impigliate nelle reti che, peraltro, sono a loro volta fatte di plastica. Secondo un report della FAO e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, si stima che vi siano circa 640.000 tonnellate di reti da pesca fantasma negli oceani, ossia il 10% dei rifiuti oceanici.
Un’altra fonte di inquinamento importante è il petrolio che si riversa nell’ambiente a causa delle trivellazioni che avvengono al largo, di guasti ai condotti, rifiuti industriali trasportati dai fiumi… e così via. Tra il 1976 e il 2014, almeno 3 milioni di barili di greggio sono finiti nel Delta del Niger andando a inquinare la più estesa foresta di mangrovie dell’Africa centrale. Fonte preziosissima di biodiversità, le mangrovie sono uno strumento naturale di protezione dagli eventi estremi e l’habitat di moltissime specie che vi nidificano e vi si riproducono, oltre ad essere in grado di assorbire fino a 10 volte più anidride carbonica per ettaro rispetto alle tipiche foreste terrestri.
Secondo Thomas Brooks, Chief Scientist di IUCN intervistato per Materia Rinnovabile, le cause di questa perdita di integrità biologica sono da ricercare nella distruzione, degradazione e frammentazione degli habitat - causate da un modello di sviluppo agricolo insostenibile e da un’urbanizzazione in continua espansione - sovrasfruttamento diretto e indiretto, inquinamento e diffusione di specie aliene invasive. Minacce esacerbate e destinate ad intensificarsi sempre di più a causa dei cambiamenti climatici. Persino l’ultima revisione della Lista Rossa stilata da IUCN, che rappresenta il più completo inventario delle specie a rischio di estinzione a livello globale, annovera 37.480 specie a rischio di estinzione su 134.425 analizzate (più di un quarto!). Di queste, 900 sono invece già estinte e 79 sono estinte in natura, ossia non si trovano più allo stato selvatico.
Alcune delle specie conosciute si stanno adattando al cambiamento, altre stanno soccombendo e, altre ancora, sopravviveranno a medio-lungo termine cessando, però, di avere un ruolo fondamentale per gli ecosistemi e rientrando nella categoria di specie funzionalmente estinte, dando così inizio ad una serie di effetti a cascata.
Appuntamento a Marsiglia
Eppure, quello che l’ultimo anno e mezzo di vita sul Pianeta dovrebbe averci insegnato, è che mantenere una relazione equilibrata con la natura è essenziale per la nostra stessa sopravvivenza. A dirlo è anche la bozza dell’Assessment Report del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (International Panel on Climate Change - IPCC), trapelata il 23 giugno scorso, in cui si legge che se per alcune delle altre specie che vivono sulla Terra è plausibile una qualche forma di adattamento, lo stesso non si può sperare per l’Uomo: “La vita sulla Terra - si legge - può ristabilirsi in caso di cambiamenti climatici massicci, evolvendo verso nuove specie e creando nuovi ecosistemi. Ma per l’umanità questo invece non è possibile”.
Secondo le Nazioni Unite, più di 3 miliardi di persone dipendono attualmente dalla biodiversità marina e costiera per il proprio sostentamento, mentre 1.6 miliardi di individui dipendono dalle foreste. La maggior parte di questi appartengono alle minoranze indigene che, nelle foreste, hanno la propria casa nonché le radici delle propria cultura e delle tradizioni a cui sono legati. La conservazione delle specie non può più, dunque, essere vista come una questione di responsabilità, anche se tanto dovrebbe bastare, ma è la chiave per la sopravvivenza della specie Homo sapiens che, da troppo tempo, ormai, si è dimenticata di essere parte del mondo naturale.
Per affrontare questa crisi di identità è fondamentale non solo l’impegno individuale e collettivo ma una comunità internazionale forte, unita e decisa a sostenere quello che la scienza ci dice ormai da decenni: “la prossima decade sarà cruciale per la vita sulla Terra” e, per questo, entro il 2030 dobbiamo attuare tutte le strategie possibili per risolvere la crisi ecologica e climatica, ricostruire le nostre economie nel rispetto dei tempi di rinnovo della natura e raggiungere gli Obiettivi Sostenibili del Millennio (SDGs). Non c’è più margine d’errore.
È in questa cornice, dunque, che va inquadrata la prossima conferenza dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, prevista in forma ibrida (online e in presenza) dal 3 all’11 settembre 2021 a Marsiglia, una città che proprio insieme a IUCN sta lavorando per mettere a punto una strategia di sviluppo sostenibile e tutela del suo immenso patrimonio naturalistico terrestre e marino.
Una conferenza che si preannuncia non senza difficoltà vista l’incertezza sull’andamento della pandemia e l’impossibilità di garantire una presenza in loco da parte di esperti e delegati. E proprio “assicurare una equa e inclusiva partecipazione da parte di tutti, rappresenta - secondo Brooks - una delle sfide più grandi da affrontare nel contesto odierno se si vuole sperare di raddrizzare la curva della perdita di biodiversità”. Ma quella di Marsiglia è anche un’occasione unica di confronto per la comunità politica e scientifica internazionale in cui, continua Brooks, “oltre ad essere annunciata la roadmap per la protezione della biodiversità post-2020, e definita una governance degli oceani, verrà presentata la nuova Lista Rossa delle specie a rischio estinzione e si lavorerà per progredire nell’implementazione dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici”.
La buona notizia, ad oggi, è che la conservazione funziona e, se associata ad una coraggiosa opera di intervento da parte della comunità internazionale, possiamo davvero sperare che i prossimi 10 anni siano quelli in cui dimostreremo di essere capaci di difendere il Pianeta in cui viviamo.