L’acqua dolce è l’elemento vitale per eccellenza, ed è sempre più scarso. È sufficiente pensare alla siccità che quest’anno ha colpito anche noi europei - la peggiore degli ultimi cinque secoli secondo i ricercatori del JRC Global Drought Observatory - per rivalutare il legame indissolubile che unisce noi e tutto il sistema economico all’oro blu. La presenza o meno di questa risorsa ha infatti impatti diretti su sicurezza alimentare ed energetica e in generale sul benessere di una popolazione mondiale in continua crescita. Trovare soluzioni alla scarsità idrica diventa quindi imperativo, già oggi. Oltre a ridurre i consumi e a migliorare i processi di governance andranno anche diversificate le fonti di approvvigionamento idrico, guardando al di là di quelle convenzionali. Non soltanto di falde profonde e sorgenti potrà vivere l’uomo.
Scarsità idrica e fonti alternative
Sul nostro pianeta, ragionando in termini assoluti, l’acqua dolce non manca. La scarsità, il cosiddetto deficit idrico, si ha quando la domanda di acqua supera la disponibilità di risorse idriche sostenibili in una data area. E ciò accade per due ragioni. Esclusa l’ovvia pressione e competizione d’uso tra i settori agricolo, energetico, industriale e domestico, la causa principale è la distribuzione disomogenea di acqua dolce e popolazione mondiale. E la forbice è destinata ad aumentare. Lo conferma un recente studio dell’United Nations University Institute for Water, Environment and Health, secondo cui quasi la metà dei Paesi (87 su 180) soffriranno di scarsità idrica entro il 2050, vuoi per cambiamento climatico vuoi per pressione antropica. In alcune aree del pianeta, così, le fonti classiche di approvvigionamento idrico – falde profonde, sorgenti e acque superficiali – andranno affiancate da fonti nuove e “non convenzionali”.
La lista è lunga: per citarne alcune si va dalla nota desalinizzazione all’inseminazione delle nuvole, passando per il riuso delle acque urbane, il trasporto degli iceberg e lo sfruttamento delle falde dolci in mare aperto.
Eppure, non è tutto oro quello che luccica. Stando ai dati contenuti in Unconventional Water Resources, una delle più recenti pubblicazioni scientifiche che riassume le conoscenze disponibili in materia, molte di queste soluzioni restano da approfondire. Una di queste, però, sembra combinare sviluppo tecnologico e sostenibilità ambientale. Parliamo della cattura dell’acqua dall’aria.
SEAS – I sistemi Air to Water to Air per “bere l’acqua dal cielo”
I dispositivi per l’estrazione di acqua dall’aria sono già realtà e permettono di catturare l’umidità, condensandola e ottenendo un composto potabile. Ben diverso dal cosiddetto “fog harvesting” - processo meccanico che utilizza delle vere e proprie reti per “pescare” le minuscole goccioline d’acqua contenute nella nebbia e trasportate dal vento - l’estrazione è un processo energivoro e altamente tecnologico. “La temperatura dell’aria che filtriamo non è un problema. I nostri dispositivi sono in grado di trattenere il 60% di umidità presente, da 5°C a 60°C”, spiega a Materia Rinnovabile Rinaldo Bravo, Direttore di SEAS - Société de l’Eau Aérienne Suisse SA, società ingegneristica di Riva San Vitale (Svizzera), leader del settore. “Per capire la portata di questa innovazione bisogna citare un dato. Ad esempio, in un metro cubo di aria a 30 gradi avente il 70% di umidità ci sono circa 22 grammi di acqua. Questa proporzione non è costante e varia a seconda del vento, della temperatura, dipendendo quindi anche dagli orari della giornata. Grazie all’elettronica, regolando i flussi d’aria, dispositivi come i nostri AWA Modula 250 sono capaci di produrre 2500 litri d’acqua potabile al giorno a fronte di 8000 metri cubi di aria introdotti e appositamente filtrati”.
Gli utilizzi
Alcuni chiamano questi dispositivi oasi nel deserto, proprio perché consentono di generare acqua dove non c’è, senza bisogno di scavi o infrastrutture pesanti. I moduli progettati e realizzati da SEAS hanno misure commerciali standard e sono quindi facilmente trasportabili, costituendo una risorsa preziosa in caso di calamità naturali, conflitti o comunque in tutti quei casi dove manca un accesso sicuro all’acqua potabile. “In passato i nostri sistemi sono stati impiegati in campi profughi, come in Libano e in Burkina Faso. Cinque anni fa abbiamo proposto i nostri prodotti alla Protezione Civile Italiana e a quella Svizzera, che dimostrano interesse ma non hanno sufficiente budget per posizionarsi. Senza risultato ci siamo anche proposti, a fronte di un prezzo fisso, di impegnarci a realizzare un parco macchine pronto a partire in caso di necessità. Ora insieme a Regione Lombardia stiamo valutando di integrare le nostre soluzioni ai sistemi di approvvigionamento tradizionali” continua Bravo.
Ci sono tuttavia altre destinazioni d’uso, rispetto a quello domestico e agricolo. Se non viene mineralizzata, l’acqua che può essere estratta tramite questi dispositivi, la cosiddetta “acqua tecnica”, è distillata e può essere utilizzata negli ospedali. Oppure nel lavaggio dei pannelli solari nelle solar farm, evitando prelievi inutili e uso di detergenti e evitando ulteriori impatti in territori aridi per loro natura.
I vantaggi rispetto alla desalinizzazione
Con la recente siccità, all’interno dei nostri confini nazionali si è riacceso il dibattito intorno alla necessità di investire nella fonte regina di acqua “non convenzionale”: la desalinizzazione. Nonostante si conoscano i forti impatti ambientali, a luglio il Gruppo WeBuild ha proposto un piano per rimediare al fabbisogno idrico attraverso la costruzione di dissalatori di acqua marina su tutto il territorio. “La desalinizzazione risolve un problema creandone un altro, molto più grave di quello di partenza. Questa tecnologia, laddove è stata implementata, ha portato ad un elevata salinità dei mari che distrugge completamente flora e fauna. Lo abbiamo visto negli Emirati Arabi in modo pesantissimo, immaginiamo cosa potrebbe succedere in Francia e Italia, dove il turismo è forse la prima industria se consideriamo anche il valore d’immagine” conclude Bravo. “Certo, anche i prodotti SEAS hanno bisogno di energia per funzionare, ma possono essere alimentati sia dalla rete sia direttamente da impianti fotovoltaici o eolici. Con il vantaggio, nel secondo caso, che invece di dover fermare le turbine nei momenti di picco, si può usare quel surplus di energia per estrarre acqua che può essere distribuita o, perché no, utilizzata come base per produrre idrogeno verde”.
Immagine: un impianto SEAS