L’immissione senza misura di gas climalteranti in atmosfera - i principali driver dell’aumento di temperatura a livello globale e della crisi climatica - non può essere considerata una responsabilità condivisa ed equamente distribuita tra tutta l’umanità. I cambiamenti dei pattern climatici terrestri sono infatti maggiormente imputabili a una ristretta cerchia di popolazione facoltosa che, in particolar modo negli ultimi decenni, ha operato scelte improntate a un consumo sfrenato ed eccessivo delle limitate risorse messe a disposizione dal pianeta.

Il rapporto stilato da Oxfam, The carbon inequality era, pubblicato il 21 settembre 2020, indaga chi sono stati, tra il 1990 e il 2015, i soggetti maggiormente responsabili della crescita del riscaldamento globale, arrivando a rivelare una profonda correlazione tra ricchezza ed emissioni di carbonio. Il punto di partenza è l'ipotesi che il reddito determini gli stili di vita e, di conseguenza, i consumi delle famiglie, elementi che a loro volta definiscono il livello delle emissioni di CO2. Per stimare la relazione tra reddito ed emissioni, la ricerca si è basata su indagini relative sia ai consumi familiari che nazionali, combinando stime tecniche delle emissioni di carbonio associate anche alla produzione a monte di diversi prodotti e servizi (analisi del ciclo di vita e analisi aggregate input-output). È quindi stato dimostrato che, nei 25 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale – pari a 63 milioni di abitanti - ha emesso in atmosfera il doppio di CO2 rispetto ai 3,1 miliardi di persone che fanno parte della metà più povera della popolazione. Un dato, questo, che restituisce la fotografia di un mondo lacerato dalle disparità, in cui i meno abbienti sono costretti a subire l’impatto dello stile di vita insostenibile di una cerchia ristretta di popolazione e a pagarne i costi direttamente sulla propria pelle.

Il privilegio di inquinare

Lo studio prende in esame le emissioni di CO2 relative all’arco di tempo che va dal 1990 al 2015, anni in cui la produzione di tale gas climalterante è aumentata di circa il 60% (da 22,2 Gt è passata a 35,5 Gt), e procede nell’analisi dividendo la popolazione in tre categorie sulla base del reddito percepito: il 10% della popolazione è considerata ricca, il 40% media e il restante 50% povera. La ricerca ha stimato che nel 2015 il 10% più ricco della popolazione mondiale era responsabile di quasi la metà delle emissioni totali (il 15% delle quali era provocato dal solo 1% delle persone), mentre, nello stesso anno, la metà più povera del pianeta era responsabile solo del 7% delle emissioni: ciò sta a significare che circa 60 milioni di persone inquinavano sette volte di più rispetto 3 miliardi di individui. Il restante 44% relativo alla produzione di gas climalteranti era attribuibile al 40% della popolazione che si trovava a recepire un reddito medio. Una proporzione simile a quella rilevata. Ad essere aumentata però è la popolazione (da 5,3 miliardi a 7,3 miliardi di individui) e le emissioni pro capite medie degli individui più abbienti. Di notevole impressione è il fatto che lo 0,1% della popolazione più ricca nel 2015 produceva emissioni medie pro capite pari a 216,7 tonnellate di CO2 all’anno, mentre gli individui più poveri, pari alla metà della popolazione mondiale, ne emettevano 0,7 tonnellate pro capite. Ciò significa che, mentre i 3 miliardi di persone indigenti hanno emesso 2,5 Gt di CO2, i circa 60 milioni di individui più ricchi hanno prodotto nello stesso arco di tempo 17,2 Gt di anidride carbonica. Dato che oggi, spiegano i ricercatori, è presumibilmente ancora più polarizzato.

Geografia delle emissioni di carbonio

Da un punto di vista geografico, nel 1990, le più elevate emissioni erano da imputare a una piccola fetta di popolazione ricca che viveva principalmente in Nord America (responsabile da sola di circa il 28% delle emissioni totali), in Europa (ai cui abitanti era attribuibile circa il 24% della CO2 immessa in atmosfera) e in Russia. Nel 2015 Nord America ed Europa avevano comunque mantenuto il loro primato di ricchi consumatori che, da soli, producevano il 25% delle emissioni totali, ma si è assistito all’entrata in scena di altri grandi attori tra i maggiori inquinatori globali, ovvero la Cina e, in misura minore, l’India. A seguito della rapida industrializzazione di tali paesi, una parte crescente di popolazione si è infatti arricchita e, di conseguenza, ha modificato i propri stili di vita ed esigenze di consumo. Ciò ha comportato un aumento delle emissioni da parte delle persone che recepivano redditi maggiori nelle regioni asiatiche, tanto che, al 2015, la sola popolazione media cinese era divenuta responsabile di circa il 17,5% delle emissioni totali di CO2.

Responsabilità differenziate

Questi dati mostrano quindi un profondo divario e una marcata diseguaglianza tra gli usi che i differenti gruppi di reddito fanno dell’oramai limitato carbon budget messo a disposizione dal pianeta. All’interno di questo scenario si sta verificando un’inasprimento delle differenze di ricchezza non solo tra comunità provenienti da paesi diversi, ma anche, e più marcatamente, tra sacche di popolazione presenti all’interno di una stessa nazione. I rischi legati al clima, che comportano il collasso dei sistemi naturali e, di conseguenza, delle comunità umane che dipendono da essi, sono certamente relazionati all'ubicazione geografica, ma dipendono anche dalle vulnerabilità dei gruppi umani e dalla loro possibilità di rispondere in maniera adeguata a tali cambiamenti, promuovendo scelte ed azioni di adattamento e mitigazione. Proprio mancanza di possibilità e privazione della libertà di scelta sono gli elementi che Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, associa alla condizione di povertà. Elisa Bacciotti, campaign and domestic program director di Oxfam Italia, ha sottolineato che in un contesto come quello del sud del mondo, oltre alla violenza e distruzione portata dagli eventi climatici estremi (cicloni in India e Bangladesh, desertificazione dell’Africa, invasione di locuste, ecc.), è la capacità delle istituzioni di fare fronte agli shock ad essere più debole rispetto quella dei paesi industrializzati. In tali contesti, quindi, un’organizzazione come Oxfam è sempre più impegnata sia in una risposta di tipo umanitaria, quando gli eventi catastrofici si sono già verificati, sia a lavorare con istituzioni e comunità per rendere i loro sistemi tradizionali e politici più resilienti e più capaci di rispondere in modo adeguato ai cambiamenti.
“Per poter vivere in un ambiente sicuro -
continua Bacciotti - dobbiamo fare tutti un’ inversione di rotta, ma questa inversione, come dimostra il report, deve essere a carico dei paesi più industrializzati, delle imprese e dei cittadini che ci vivono. Il tema della decarbonizzazione, di come ridurre velocemente la produzione di emissioni nella parte più ricca del mondo, è una nostra responsabilità. La crisi odierna può essere l’occasione per andare a costruire sia un modello economico diverso, in quanto quello attuale è insostenibile, sia un complesso di politiche che vadano verso altre direzioni e investano sulla decarbonizzazione.
Già l'accordo di Parigi, ratificato formalmente nel 2016 dopo che i paesi complessivamente responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra hanno depositato i propri strumenti di adesione, stabilisce un quadro globale per evitare pericolosi cambiamenti climatici, limitando il riscaldamento globale al di sotto dei 2ºC e perseguendo l’obbiettivo di limitarlo a 1,5°C. Ma, nonostante tale accordo si basi sul principio delle responsabilità comuni ma differenziate, interessi economici e geopolitici tengono molti dei paesi tra i grandi inquinatori lontani da ogni sforzo per il raggiungimento di azioni vincolanti. La
recente relazione dell'IPCC, sugli impatti del riscaldamento globale di 1,5 ° C al di sopra dei livelli preindustriali, conclude che, nel caso in cui continuino gli odierni consumi di CO2, i budget di carbonio disponibili potrebbero esaurirsi nell’arco di trent’anni e ad esaurirli non sarà la metà di popolazione che vive con risorse scarse e mezzi insufficienti, ma soprattutto quel 10% che segue stili di vita insostenibili e votati all’eccesso. È necessario che le società, in particolare quelle che presentano un PIL elevato, inizino a fare scelte eque e moralmente giustificate riguardo l’utilizzo del budget di carbonio. “Il messaggio del report - conclude Bacciotti - mira a delineare delle responsabilità diverse e a chiedere ai leader politici di essere consci di queste responsabilità, in quanto le loro decisioni comportano costi indiretti che vengono pagati a caro prezzo da quella parte di popolazione più vulnerabile e meno responsabile del declino in atto.”

Nell'immagine: Vietnam, ph Jordan Opel (Unsplash)