Le aziende della moda sono passate dalla sostenibilità all’economia rigenerativa in tre passi. Nella prima fase si sono concentrate sugli impatti sulla salute dei loro prodotti. Hanno poi puntato a ridurre le proprie emissioni climalteranti e, di recente, hanno iniziato a rigenerare gli ecosistemi in cui operano e da cui prelevano risorse. Attingendo soprattutto alle innovazioni che vengono dai settori dell’economia circolare e della bioeconomia.

La pandemia ha provvisoriamente rallentato, ma non interrotto, la rivoluzione che sta trasformando l’industria della moda. Non stiamo parlando della rivoluzione digitale, l’altro grande motore del cambiamento che ha investito il settore e che ha invece subito un’accelerazione a causa della crisi sanitaria, ma di quella della sostenibilità.

Passo 1, la rivoluzione comincia

Come ogni rivoluzione, anche quella della moda ha avuto un momento iniziale, esplosivo e caotico, che ha coinciso con il moltiplicarsi di azioni di riduzione dell’impatto delle sostanze chimiche pericolose sull’ambiente e la salute. L’innesco sono state le campagne dei movimenti ambientalisti, Detox my Fashion di Greenpeace in primo luogo, molto più che le richieste dei consumatori.
I leader del movimento sono stati i marchi del mass market, dello
sportswear e dell’outdoor. L’outdoor in particolare si è impegnato sul serissimo problema dell’eliminazione dei trattamenti idrorepellenti con sostanze cancerogene come i Pfc, che erano state un driver competitivo per più di un decennio.
Questa fase ha sortito
due effetti.
Il primo è il raggiungimento dell’obiettivo prefissato:
la limitazione e dove possibile la sostituzione delle sostanze chimiche pericolose. Sostanze che solo pochi anni fa si ritenevano indispensabili per le tinture e finissaggi di filati e tessuti sono state sostituite da trattamenti alternativi e più sicuri, pratiche industriali vecchie di decenni sono state abbandonate in favore di nuovi processi.
Un processo avviato da una campagna ambientalista, e considerato nella business community della moda con sospetto, oggi vede impegnati
molti tra i principali stakeholder del settore. I numeri dicono più delle parole: le imprese con prodotti certificati secondo lo standard Oeko-Tex 100 (il più diffuso per la sicurezza chimica dei prodotti tessili) sono oltre 10.000; le tintorie e finissaggi che sono registrate sul Zdhc gateway sono oltre 2.500. Anche certificazioni nate per scopi diversi, come il Grs (8.500 aziende tessili certificate), per la provenienza da riciclo dei materiali, e il Gots (6.300 aziende certificate), per l’origine bio, hanno oggi incorporato criteri di sicurezza chimica.
Il secondo ha una dimensione sistemica. Per la prima volta
l’intero settore, inclusi i marchi mainstream, con le loro filiere globalizzate, ha assunto la difesa dell’ambiente come priorità strategica e non come un limitato problema di conformità al quadro normativo. Oggi, per qualunque marchio della moda o fornitore tessile, la sicurezza delle sostanze chimiche utilizzate è una condizione standard, indispensabile per restare sul mercato. Oltre a promuovere Csr e sustainability manager dalle retrovie ai tavoli decisionali e alle C-rooms, il nuovo paradigma ha spinto il sistema delle imprese della moda a diventare driver del cambiamento, sopravanzando i sistemi normativi nazionali sulla sicurezza delle sostanze chimiche.
Lo sviluppo di questa prima fase è stato favorito dal legame con le preoccupazioni per la salute, ha cioè sollecitato un interesse diretto e immediato di consumatori e cittadini, più che una visione del futuro o della sostenibilità per il pianeta del modello di produzione.

Passo 2, dalla preoccupazione per la salute a quella per il futuro del pianeta

L’onda della prima fase ha spinto l’impegno della moda a un nuovo livello aggiungendo alla preoccupazione per la salute la riflessione sullimpatto della moda sui cambiamenti climatici. È iniziata la seconda fase della rivoluzione.
Non si può certo dire che, in questo campo, la moda abbia avuto un ruolo di trascinatore. Molti dei suoi elementi distintivi – l’esaltazione del viaggio, le reti logistiche globalizzate, il bisogno di rapidità che porta a spedire materiali e campioni per via aerea, eventi e campagne di marketing scintillanti, l’esaltazione dell’apparenza e del lusso – ne hanno fatto per molti un esempio di spreco da non seguire. La moda è così arrivata a dare priorità alla decarbonizzazione dell’economia in ritardo. Non che le imprese della moda non abbiano investito in energie rinnovabili, i pannelli fotovoltaici sono comparsi sui tetti delle fabbriche tessili e degli headquarter della moda come negli altri settori, ma sono mancate, fino a tempi recenti, una riflessione e una declinazione specifica per il settore delle azioni per la decarbonizzazione.
Il
pioniere è stato Marks&Spencer che aveva inserito obiettivi di decarbonizzazione già nel primo “Plan A” del 2007, ma si è dovuto aspettare fino al 2017 perché un grande marchio (Zara) annunciasse che il suo cinquemillesimo negozio, quello in via del Corso a Roma, era stato progettato per essere energeticamente efficiente e certificato con lo standard Leed. Nel 2018, durante la Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite di Katowice, è stato sottoscritto il primo impegno collettivo del settore: 113 imprese e organizzazioni della moda, tra cui 8 marchi dell’outdoor e 11 dello sportswear, hanno aderito al Fashion Industry Charter for Climate, che delinea la visione della moda a emissioni nette zero nel 2050.
È solo nell’agosto 2019 che l’impegno alla decarbonizzazione assume una forma più strutturata e si traduce in impegni concreti, con la presentazione al G7 di Biarritz del
Fashion Pact, promosso dal presidente Macron e fortemente sostenuto dal gruppo Kering (Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Alexander McQueen, Brioni), uno dei due big del lusso francese. Tra i 67 marchi che hanno sottoscritto il patto nessuno è del settore outdoor e solo 6 sono dello sportswear.
All’avvio di questa seconda fase, in cui i marchi del lusso si sono ricavati una posizione di leadership ha certamente contribuito, oltre all’iniziativa inter-governativa dell’accordo di Parigi, la
spinta del movimento giovanile dei Fridays For Future e l’esposizione mediatica di Greta Thunberg.
In questa seconda fase, l’impegno delle imprese della moda si è ampliato dalla difesa della salute alla difesa del futuro comune, ma non è cambiato un fattore di fondo: l’obiettivo principale resta la riduzione dell’impatto dei processi industriali e distributivi sull’ambiente. È tuttavia cominciato a essere evidente anche alle imprese della moda che i livelli di rischio ambientale sono stati superati, e che alcuni effetti sono ormai permanenti, si pensi per esempio al tema sopra ricordato dell’
inquinamento da Pfc. Greenpeace ci ricorda che anche nel caso in cui tutte “le aziende decidessero di eliminare immediatamente tutti i Pfc dalle loro produzioni, l'ambiente resterebbe contaminato da queste sostanze ancora per molti anni a causa della lenta biodegradabilità di questi composti.”
Da qui la consapevolezza che sia necessario andare oltre al contenimento dell’impatto e
intervenire sulla rigenerazione dell’ambiente. Ciò ci porta alla terza, e più complessa, fase della rivoluzione di cui si sono visti già i primi segnali, oggi un po’ offuscati dalla crisi Covid.

Passo 3, dalla riduzione dell’impatto alla rigenerazione dell’ecosistema

Il rallentamento indotto dalla pandemia ha colto l’industria della moda sulla soglia della riflessione sui modi per contribuire a migliorare le condizioni ambientali, più che limitarsi alla riduzione degli impatti. Non è in realtà un argomento del tutto nuovo per la moda, già affrontato da alcuni segmenti del mercato, in particolare in materia di conservazione della biodiversità nella filiera delle pelli esotiche, e delle essenze per la cosmesi.
Il tema è tuttavia complesso. Nelle filiere delle fibre vegetali, la coltivazione del cotone biologico, pur in crescita, fatica a decollare, mentre altri progetti di miglioramento dei sistemi di coltivazione, come per esempio
Better Cotton Initiative, hanno avuto più fortuna. Per le fibre cellulosiche manmade (viscosa, cupro, acetato) prodotte da biomasse, prevalentemente forestali, la diffusione di certificazioni come Fsc o Pefc e dei sistemi di valutazione come quelli di Canopy, che attestano la gestione responsabile delle foreste, dimostrano l’interesse dei marchi. Nelle filiere delle fibre animali, lana, cashmere e seta, marchi come Gucci e Stella McCartney hanno in collezione capi in lana bio, diversi marchi dell’outdoor usano lana certificata ZQ (tra cui, Arc’terix, Fjallraven,Helly Hansen e Icebreaker), mentre The North Face utilizza per alcuni prodotti in limited edition la lana Climate Beneficial di Fibershed.
Non è tuttavia possibile parlare di un futuro rigenerativo per la moda senza affrontare l’argomento delle
fibre sintetiche, che rappresentano due terzi del totale di consumo di materia del settore, soprattutto nei settori outdoor e sportswear dove la quota è ancora maggiore.
Il tema è controverso. Le fibre e le plastiche biobased, originate cioè da biomasse, per esempio, sono ancora una quota minima della produzione e la loro biodegradabilità si conta in centinaia d’anni, esattamente come per le fibre da fonte fossile. È invece un fenomeno ormai consolidato il
riciclo di materie plastiche abbandonate nell’ambiente in poliestere o nylon che, oltre a ridurre l’impatto dell’uso di materia fossile, migliora lo stato dei mari e in generale dell’ambiente dove i rifiuti vengono raccolti: ne è un esempio il successo del nylon Econyl, oggi ricercato e utilizzato da molti marchi del lusso e dello sportswear. Sono, in generale, molti i marchi dell’outdoor e sportswear che utilizzano i materiali riciclati da plastica recuperata dall’ambiente, come per esempio Adidas, Nike, Ternua, Vaude, Norrona, Mammut, Patagonia e altri.

Il ruolo dell’innovazione

Riavvolgendo la linea del tempo e tornando ai mesi immediatamente precedenti alla pandemia da Covid, un articolo su The Business of Fashion, uno dei media online più influenti del settore, titolava “The Year Ahead: Welcome to the Materials Revolution”: il tema era l’onda di innovazioni di nuovi materiali tessili pronta per, o in procinto di, essere introdotta sul mercato, la maggior parte dei quali finalizzati all’ottenimento di migliori performance di sostenibilità, in particolare nel campo delle fibre sintetiche, ripensate e riprogettate. Un’analisi di McKinsey stima che nel 2019 si sia presentato un numero di richieste di brevetti per nuove fibre e materiali tessili otto volte maggiore che che nel 2013.
Bio-raffinerie, tessuti biodegradabili, processi di riciclo a circuito chiuso, processi biologici per la produzione di plastiche – oltre ovviamente all’integrazione di materie tessili e device digitali – sono le keyword che stanno rapidamente entrando nel mainstream della produzione e del consumo di moda.

Per approfondire, scarica e leggi il numero 35 di Materia Rinnovabile.