A tre anni dalla pubblicazione del report in cui si evidenziava l’impatto devastante che le attività umane hanno sulla biodiversità e gli ecosistemi, l’International Panel on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) torna con una nuova analisi che solleva il velo sull’utilizzo che l’uomo fa delle risorse naturali.
Il Rapporto di valutazione sull'uso sostenibile delle specie selvatiche è il risultato di quattro anni di lavoro, e ha coinvolto 85 esperti e circa 200 autori che hanno vagliato e messo insieme più di 6.200 fonti offrendo spunti di riflessione su come utilizzare le risorse naturali in un modo, e a un ritmo, che non porti al declino a lungo termine della biodiversità, così come richiesto dalla Convenzione sulla diversità biologica dell’ormai lontano 1992.
I numeri del nuovo report dell’IPBES
Secondo quanto si apprende dall’analisi, a livello globale sono circa 50.000 le specie selvatiche che attraverso la pesca, la raccolta, il disboscamento, la caccia e l’osservazione, vengono sfruttate per produrre beni e servizi fondamentali alla nostra sopravvivenza. Di queste, circa 7.500 sono pesci e altri invertebrati acquatici, quasi 30.000 sono piante selvatiche - di cui 7.400 alberi - 1500 funghi, 1700 specie di invertebrati terrestri e 7500 tra anfibi, rettili, mammiferi e uccelli.
Tra gli organismi di cui, negli ultimi 20 anni, si è registrato un tasso di sfruttamento in aumento, vi sono svariate specie arboree selvatiche - che rappresentano, a oggi, circa i due terzi dell’intero legname grezzo commercializzato su base globale - così come piante, alghe e funghi selvatici che, da soli, costituiscono un’industria da miliardi di dollari l’anno.
A questo si aggiunge l’utilizzo in ambito medico di 35.000 specie di piante - pari a solo il 15% di quelle che si stima esistano sul Pianeta - e che, lontane dall’essere considerate curative solo nelle culture tradizionali, rappresentano una frontiera tuttora largamente inesplorata di potenziali cure per il cancro, disturbi cardiaci ed eventuali, future, pandemie. Oltre alla creazione di farmaci ottenuti tramite il prelievo diretto di organismi dal mondo naturale, più del 20% delle specie conosciute sono una fondamentale fonte di cibo per l’uomo che, tuttavia, sta dimostrando di non essere in grado di rispettare i tempi di rinnovo della natura. Attualmente, infatti, circa 1.341 specie di mammiferi terrestri sono minacciate dalla caccia eccessiva e più del 34% delle specie ittiche risulta sovrasfruttato.
In particolare, tra il 1950 e la fine del XX secolo, la quantità di pescato annuale è aumentato di circa 6 volte e vede primeggiare per catture in alto mare paesi come Cina, Indonesia, Perù, India, Russia, Stati Uniti e Vietnam, che contano per il 50% del totale (che, a sua volta, nel 2018 è stato di 84,4 milioni di tonnellate). Il paradosso è che il 25% del pescato globale è utilizzato per quella che viene chiamata “produzione di pesci”, un’espressione che racchiude in sé l’incapacità tutta umana di accordare alle specie diverse dalla propria il diritto a un’esistenza autonoma. Nel 2018 il settore dell’acquacoltura ha infatti prodotto 114,5 milioni di tonnellate di pesci d’acqua dolce o salata, oltre che crostacei e molluschi, per un valore economico di 263,6 miliardi di dollari. Oltre a quelli associati direttamente all’industria alimentare, moltissimi altri animali rientrano in quella che viene chiamata “bycatch”, ossia la pesca accidentale che, ogni anno, è responsabile della cattura di 300.000 albatros appartenenti a 17 specie diverse, di 250.000 tartarughe marine, di cui la maggior parte sono Caretta caretta e le tartarughe liuto (gravemente minacciate), e 300.000 tra balene e delfini.
La biodiversità è la chiave per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
Se è vero che l’uomo ha da sempre tentato di sottomettere la natura ai suoi bisogni, quella che una volta era una battaglia circoscritta a limitati insediamenti, ora ha assunto dimensioni globali tanto da intaccare i sistemi fisici e chimici della Terra e comprometterne i meccanismi e l’equilibrio, provocando effetti diretti e indiretti su tutte le specie e sulla loro capacità di resilienza.
A sfuggire all’illuminata specie sapiens, tuttavia, è che quella che sta inscenando è una vera e propria guerra allo specchio: spingere un milione di specie animali e vegetali verso l’estinzione equivale, infatti, a perdere proprio quei beni e servizi da cui la nostra specie dipende per sopravvivere.
Al contrario, se provassimo a instaurare un nuovo rapporto con la natura, seguendo quel paradigma di sviluppo sostenibile di cui la scienza ci parla dal lontano 1972, anno in cui venne pubblicato il Report sui Limiti della Crescita, potremmo agevolmente raggiungere, uno dopo l’altro, persino i 17 obiettivi sostenibili contenuti nell’Agenda 2030. Secondo quanto evidenziato dall’IPBES, infatti, circa il 70% dei poveri del mondo dipende direttamente dalle specie selvatiche che risultano dunque fondamentali per il raggiungimento dell’obiettivo numero 2 (Zero Hunger). Allo stesso modo, la pesca su piccola scala, fortemente radicata nello stile di vita delle comunità locali in tutti i continenti, sostiene oltre il 90% dei 120 milioni di persone impegnate nella pesca di cattura a livello globale. Di queste, circa la metà sono donne, a dimostrazione che la biodiversità è in grado di metterci sulla rotta giusta per centrare anche l’obiettivo dell’uguaglianza di genere (SDG5). Un ulteriore esempio è fornito dal fatto che una persona su cinque si affida a piante, alghe e funghi selvatici come fonte prioritaria di reddito, dimostrando come questi organismi siano importanti per centrare l’obiettivo che punta all’eliminazione della povertà (SDG1).
Oltre a fornire beni tangibili, le specie selvatiche custodiscono un enorme valore culturale. Per questo, quando una specie scompare porta con sé non solo il suo patrimonio genetico, ma anche un bagaglio di tradizioni a cui sono legate, in particolare, le popolazioni indigene che con gli ecosistemi hanno da sempre un rapporto stretto ed equilibrato.
Una delle cose che dovrebbe essere sempre tenuta a mente quando si parla, a esempio, di deforestazione è che a farne le spese non sono solo gli alberi ma anche le altre forme di biodiversità. Quelli che per molti di noi sono panorami da cartolina o luoghi da esplorare durante le vacanze, per 350 milioni di persone sono infatti la dimora e il luogo da cui dipendono per la fornitura di svariati servizi ecosistemici. Di queste centinaia di milioni di persone molte appartengono a popolazioni indigene per le quali la scomparsa delle foreste equivarrebbe all’annullamento della loro storia, della loro cultura e delle loro tradizioni. Al contrario, aiutare le comunità indigene e locali a mantenere la capacità di utilizzare in modo sostenibile le specie selvatiche equivale a proteggere gli ecosistemi e difendere le pratiche culturali a esse associate, garantendo così la sopravvivenza di entrambe.
I dati dell’IPBES potrebbero essere approssimativi e fallaci
Se gli scenari esposti dall’IPBES non sono per niente incoraggianti, per quanto emerga un certo ottimismo nella possibilità di invertire la rotta, uno studio pubblicato da Nature ritiene che l’analisi dell’organismo intergovernativo titolato a darci una visione dello stato della biodiversità a livello globale sia caratterizzata da significative lacune.
In particolare, secondo un gruppo di ricercatori indipendenti, l’IPBES si concentrerebbe eccessivamente sui benefici derivanti dallo sfruttamento della fauna selvatica mancando di descriverne accuratamente i danni a cascata per gli ecosistemi. Secondo una valutazione citata nel report, di circa 10.000 specie utilizzate dall'uomo, più o meno un terzo è caratterizzata da popolazioni stabili, il che suggerirebbe un loro uso alquanto sostenibile. Le altre, invece, mostrano segni di declino della popolazione che potrebbero essere causati dall'uomo. Tuttavia, secondo una biologa della conservazione che lavora all’Università di Hong Kong, la valutazione non considera gli effetti che il commercio di specie selvatiche ha, a esempio, sulla morfologia degli animali. È provato, infatti, che la rimozione dei grandi mammiferi - spesso vittime di caccia al trofeo - dal loro ecosistema, diminuisce le dimensioni degli animali rimasti, riducendone il pool genetico e rendendoli meno resistenti ai cambiamenti ambientali. I dati sull'uso di piante e alberi selvatici sono inoltre particolarmente scarsi e, quando presenti, fanno riferimento alla commercializzazione di organismi spesso catalogati per genere, o con nomi collettivi, senza indicazioni in merito alla specie precisa.
Nessun cenno, inoltre, all’impatto che lo sfruttamento e il commercio della fauna selvatica potrebbe avere sull’emergere di nuove e future pandemie. Una mancanza, questa, piuttosto sensibile in un momento storico in cui l’umanità stenta ancora a riprendersi dalla crisi sanitaria generata da COVID19.
È necessario un nuovo rapporto tra uomo e natura
Arrivando con un anticipo di una manciata di mesi dall’ultimo appuntamento della COP15 sulla biodiversità, il report dell’IPBES fornisce un ulteriore base negoziale fatta di dati e suggerimenti per stabilire un rapporto più equo con le specie selvatiche. Tuttavia, quello che forse manca è un’analisi che ricordi il valore etico ed intrinseco della diversità biologica del Pianeta. Anno dopo anno, secolo dopo secolo, gli ecosistemi e gli organismi che li abitano e contribuiscono alla nostra sopravvivenza sono infatti diventati scomodi co-abitanti del pianeta, esseri che invadono i nostri spazi, specie da governare a piacimento e da consumare per vizio più che per bisogno. Se siamo arrivati a questo punto è perché non siamo riusciti ad andare al di là dell’aspetto funzionale e abbiamo costruito un rapporto con la natura basato solo sulla soddisfazione immediata delle nostre reali o immaginate necessità.
Il primo passo che dovremmo sforzarci di compiere è quello di informarci sul valore della natura e capire che la biodiversità ha il diritto di esistere indipendentemente dai servizi che ci garantisce, e che ognuno degli organismi che la compongono, ciascuno degli ecosistemi, deve essere protetto perché è eticamente giusto che sia così. Solo iniziando a percepire la natura come un fattore vivente, oltre che vitale, potremmo eliminare l’apatia e l’indifferenza con cui, anno dopo anno, ne distruggiamo ogni frammento rimasto. E nel farlo salveremo anche noi stessi.
Immagine: Ray Hennessy (Unsplash)