La pandemia di Covid-19 ha evidenziato le disfunzioni dell’attuale sistema agricolo e alimentare globale, esponendo molte persone a disordini e fame. Al tempo stesso, ha anche svelato la straordinaria resilienza di alcune comunità, mostrando come il cibo sia diverso da qualsiasi altra merce. Se da un lato le richieste di cambiamento da parte dei consumatori stanno guadagnando terreno, dall’altro per riparare la vulnerabilità del sistema alimentare è necessaria una proposta più a lungo termine: un’economia circolare per il cibo che aumenti la resilienza sociale ed economica di fronte agli shock futuri e prevenga possibili rischi per la salute e il clima. Per capire come si possa costruire una tale proposta abbiamo parlato con Jocelyn Bleriot, executive lead Institutions, Governments & Cities alla Ellen MacArthur Foundation.
Da diversi anni la Ellen MacArthur Foundation è impegnata a esplorare come si possano costruire città più resilienti e circolari, un lavoro che è diventando di estrema importanza soprattutto negli ultimi mesi se si pensa all’approvvigionamento di cibo nelle città. Tuttavia, proprio in questi ultimi mesi le immagini degli scaffali dei supermercati vuoti nelle aree urbane hanno fatto il giro del mondo. Come si può re-immaginare il rapporto tra città e cibo?
“Quando si parla di agricoltura e cibo credo che lo scollamento tra le città, quali principali centri di consumo, e le aree di produzione agricola, sia molto dannoso per la resilienza dell’intero sistema. Il sistema è ancora più imperfetto, poi, se si pensa che nelle città finiscono per concentrarsi tutti i nutrienti consumati (azoto, fosforo e potassio sono richiesti in quantità maggiori dalla pianta, mentre calcio, ferro, magnesio, manganese, boro e altri sono necessari in quantità minori, ma sono comunque essenziali, ndr). Nutrienti che non tornano indietro verso le campagne o i centri di produzione. Il sistema odierno è, quindi, fortemente squilibrato con un flusso di nutrienti a senso unico che va dalle aree agricole alle aree urbane e qui viene perso e non valorizzato. Fortunatamente ci sono esempi positivi. Penso all’Italia, e agli sforzi compiuti dal Comune di Milano negli ultimi anni. La Food Policy di Milano ha dimostrato e sta dimostrando quanto è possibile fare con la raccolta di materia organica e degli scarti e con i suoi sottoprodotti. Credo che reintrodurre i nutrienti nel sistema e chiudere così il cerchio sia davvero la prima cosa da fare.”
Negli ultimi mesi abbiamo visto anche quanto sia cruciale l’esistenza di economie alimentari locali, dato che a volte quelle basate su sistemi di fornitura globale non funzionano. Da dove si può partire per creare sistemi alimentari più resilienti rispetto a quelli attuali e assicurare così la sicurezza alimentare alle nostre città?
“Punterei sulle campagne nelle immediate vicinanze delle città. Molte città europee dispongono ancora di terreni agricoli in aree periurbane, basta allontanarsi di appena 30 o 40 chilometri dal centro cittadino. Sono terreni fondamentali. Fortunatamente, anche la politica inizia a prendere atto dell’importanza strategica di questi terreni per il futuro delle città. Penso alla città di Parigi, dove nell’ultimo decennio è stato ampiamente discusso il progetto di costruzione di un enorme centro commerciale e parco divertimenti, chiamato EuropaCity. Il centro sarebbe dovuto sorgere a circa 25 chilometri da Parigi, nell’ Île-de-France, in una delle aree agricole più fertili del nord della Francia. Nei mesi scorsi, tuttavia, il progetto è stato archiviato anche a seguito del ritiro del sostegno di 3,1 miliardi di euro da parte del presidente Macron che ha considerato EuropaCity ‘obsoleto’. Al di là del fatto che il progetto fosse davvero terribile, è interessante constatare come le scelte dei consumatori e dei singoli individui stiano cambiando. Se da un lato le persone non vogliono forse più passare molto tempo a fare shopping, dall’altro sarebbe stata una follia cementificare un terreno così fertile che può essere, invece, un centro di produzione e di sostentamento alle porte di Parigi. Bisogna arrivare alla sicurezza alimentare investendo in mercati dei contadini, in collettivi e cooperative in aree di prossimità rispetto alle città. Non ha senso che i prodotti dei piccoli agricoltori siano inviati in grandi magazzini centralizzati, per poi essere distribuiti nei grandi supermercati ed essere mischiati con altra frutta e verdura proveniente da tutto il mondo. Bisogna trattenere e utilizzare questi cibi nei luoghi in cui sono prodotti. Per il singolo cittadino-consumatore non ci sono molte possibilità di accedere direttamente ai prodotti dell’agricoltura locale, quando, in realtà, questa si trova a pochi chilometri dalle nostre case. Al momento il sistema dei nutrienti e del cibo è a senso unico, ma una volta sviluppato adeguatamente ci saranno anche una serie di elementi logistici da risolvere per riportare quanto viene consumato e i suoi nutrienti nel suolo, che non sarà poi così lontano. Quanto consumato naturalmente dovrebbe prima di tutto essere prodotto da fonti di energia rinnovabili, ma ci vorrà del tempo per arrivare a ciò. Si tratta di un problema di mentalità, di logistica e probabilmente anche di legislazione.”
A proposito di legislazione, pensa che la Commissione europea stia facendo abbastanza sulle politiche agricole o dovrebbe essere più coraggiosa?
“A livello generale posso dire che la politica potrebbe essere un po’ più coraggiosa su ogni singolo argomento. Ma, si sa, la politica è anche un compromesso. A essere onesti, è difficile giudicare qualcosa che non ho ancora analizzato in dettaglio. Se penso, però, alla strategia dell’Ue Farm2Fork, i segnali sono molto buoni per quanto riguarda la riduzione dell’uso dei fertilizzanti del 20% entro il 2030 e dell’uso dei pesticidi chimici del 50% entro il 2050 ecc. La mia preoccupazione principale non è tanto la sua ambizione, quanto sui modi in cui la discussione sulla Politica Agricola Comune, che è probabilmente una delle più difficili in Europa, andrà avanti, e come essa sarà accolta da lobbisti e politici. Ci saranno discussioni molto difficili prima che essa possa diventare la strategia guida per il futuro. Quanto meno all’inizio, quindi, è fondamentale che la Commissione sia molto ambiziosa.”
In che modo la percezione dell’economia circolare e in particolare della circular economy for food è stata cambiata dalla crisi del Covid-19?
“La crisi è arrivata nel momento in cui il dibattito era tutto concentrato attorno all’European Green Deal, quindi l’idea di cambiare il sistema era già in circolazione. La crisi avrebbe potuto oscurare e archiviare la discussione sul Green Deal, invece non penso siano stati fatti passi indietro. Vedo anzi molti segnali incoraggianti tra produttori e rivenditori. Vedo persone che attingono alle reti locali e reti locali che si autorganizzano. Penso anche all’aumento di richiesta di prodotti biologici e alla maggiore attenzione delle persone, che ha passato più tempo in cucina, verso il cibo, verso la propria salute. Molti hanno iniziato a farsi domande sui pesticidi, sulla tossicità di alcuni alimenti, su come questi sono prodotti. E, poi, naturalmente anche a interrogarsi sul tema degli imballaggi e della plastica.”
In effetti, i temi del cibo, della sicurezza alimentare e dell’igiene sono inestricabilmente connessi con la questione del packaging e della plastica. Come possiamo arginare l’overpackaging dilagante e l’utilizzo diffuso del monouso, tornato nuovamente di moda?
“La plastica è un materiale molto utile. A mio avviso non è il materiale, di per sé, a essere messo sotto accusa. È il modo in cui noi lo usiamo. Bisogna spostare la discussione sui modelli di riutilizzo e sul design degli imballaggi. Sono questioni che possono essere molto interessanti per le aziende produttrici, anche dal punto di vista economico. La preoccupazione per la salute delle persone è lecita, ma ci sono stati alcuni studi che hanno dimostrato che, se trattati correttamente, questi imballaggi non rappresentano un rischio per la salute. Anzi, puntando su modelli di riutilizzo adeguati si avrebbe il vantaggio di mantenere i materiali in circolo in modo da non dover attingere a risorse vergini con un conseguente risparmio di costi e minore inquinamento. Il problema della dispersione della plastica è una bomba a orologeria. Tuttavia, come abbiamo visto negli ultimi mesi con le mascherine e i guanti usa-e-getta, che sono stati fonte di picchi di inquinamento, non ci è voluto molto tempo per reagire e passare alle mascherine riutilizzabili. Com’è normale in ogni crisi, ci sono stati certamente degli eccessi e un po’ di irrazionalità. Visto, però, che le mascherine e tanti altri imballaggi, per questioni di sicurezza e igiene, paiono essere qui per restare è necessario capire come rendere il loro impatto più lieve possibile.”
Dove vede le maggiori opportunità d’investimento in questo periodo?
“Come Fondazione negli ultimi mesi, anche per la crisi che ha colpito tutto il mondo, ci siamo chiesti quale settore creerà la prossima ondata di posti di lavoro. Di certo l’edilizia sarà un settore centrale che richiederà una migliore gestione dei materiali. Anche nel settore food non mancheranno le opportunità. Due sono in particolare i segmenti che abbiamo individuato essere i più promettenti nel settore alimentare e agricolo: quello della creazione di strumenti che consentono agli agricoltori di passare a modelli di produzione di agricoltura rigenerativa e quello delle infrastrutture di raccolta, ridistribuzione e valorizzazione dei prodotti alimentari e dei sottoprodotti. Si tratta di settori in cui, con la tecnologia e l’intelligenza artificiale si possono creare enormi opportunità economiche. Per cogliere queste opportunità, però, dobbiamo essere in grado di mostrare alle aziende gli enormi risparmi e i vantaggi che possono avere. Bisogna mettere le cifre sul tavolo. Al tempo stesso, credo sia necessario passare alla fase in cui l’economia circolare deve diventare una proposta più ampia: deve essere resa allettante come proposta sociale, come un’economia che ci permette di prosperare, creando un’Europa pulita e competitiva. È necessario puntare su questa narrazione. Il fatto che le fasce di popolazione a reddito medio-basso non abbiano, al momento, accesso a prodotti di qualità è una disfunzione del sistema che va eliminata.”
Quali sfide vede all’orizzonte per l’economia circolare?
“Il Covid-19 ha rappresentato un momento cruciale per l’economia mondiale e anche per l’idea di un’economia circolare. La Cina, per esempio, ha avuto l’economia circolare nelle sue politiche per molto tempo e appena qualche settimana fa ha pubblicato una nuova posizione sulle materie plastiche. Molti Stati in America Latina – come il Cile e i Caraibi – hanno iniziato a parlare di ecodesign, di schemi Epr e di overpackaging ecc. Molte regioni e Paesi del Sudest asiatico stanno cercando di sviluppare una propria strategia. La sfida futura sarà capitalizzare questi sforzi diffusi, creare un linguaggio comune e concordare su quali siano gli obiettivi specifici. Quando si guarda all’economia circolare e si comincia a legiferare, molti Stati non sanno da dove cominciare. Così c’è il rischio che se non c’è accordo sugli stessi concetti, si possa arrivare a politiche potenzialmente contraddittorie a livello globale. Invece, c’è un livello di globalizzazione di cui è necessario tener conto perché i flussi di materiali sono globalizzati. Si sa che gli standard di prodotto giocano un ruolo molto importante. Le iniziative individuali sono importanti, ma bisogna che siano inserite in un quadro generale comune e che si trovi un accordo su ciò che tutti intendiamo per economia circolare.”
Per approfondire: scarica e leggi il numero 33 di Materia Rinnovabile dedicato al sistema cibo.
Immagine in apertura di Giada Connestari