Le università svolgono una serie di servizi essenziali per la transizione circolare. Dalla definizione di che cos’è davvero un’economia circolare alla ricerca di soluzioni innovative, passando per didattica e dialogo con le imprese. Una missione che fa del mondo accademico una realtà sempre meno isolata.
Non sono torri d’avorio. Le università, pubbliche e private, rivestono un ruolo fondamentale nella ricerca e nella trasmissione di tutti quei principi e quelle soluzioni che traguardano l’economia circolare. Un orizzonte comune – allo stesso tempo centro e nucleo – che chi innova e forma le future generazioni ha la fortuna di intravedere dall’alto, da diverse angolature e in anticipo sui tempi. Nell’era della transizione ecologica, questa spinta centripeta fa della verticalità accademica un presidio permanente sul domani. A patto però di continuare ad abbracciare un pensiero sistemico e inclusivo.
Una disciplina pervasiva
Di economia circolare gli accademici in giro per il mondo danno oltre 114 definizioni. Un fatto, questo, che può comportare un disorientamento iniziale. “L’istruzione e la formazione, sia essa obbligatoria o professionale, hanno un ruolo primario nella transizione circolare. Non importa di quale settore si parli, e il motivo è molto semplice: l’economia circolare non è una scienza esatta”, spiega a Materia Rinnovabile Giorgos Demetriou, direttore del Circular Economy Research Center presso la parigina École des Ponts Business School. “Non è come la matematica, per esempio, o la fisica, che esistono da molti anni e hanno discipline e pratiche specifiche. La circolarità è un modello rigenerativo e dirompente rispetto al passato che può esistere e applicarsi in molti settori; e il modo in cui viene concettualizzata e poi implementata è diverso per ciascuno di essi. Se ad esempio voglio applicare l’economia circolare all’edilizia, a cosa devo pensare? Si tratta solo dei materiali da costruzione? È il riutilizzo proveniente dalla demolizione? È il progetto architettonico? Ci sono molteplici aspetti da tenere in considerazione. Dobbiamo fare ricerca, identificare buone pratiche e fallimenti. Sarà l’istruzione a colmare l’iniziale vuoto di conoscenze e a permettere all’economia circolare di diffondersi.”
Università che guarda alle imprese
Ricerca accademica e didattica si completano. Infatti, se la prima punta al maggior grado di certezza, la seconda serve alla sua diffusione. Nel mondo dell’economia circolare – modello che non abbandona certo la materialità – questo è un servizio che anzitutto deve guardare alle imprese, laggiù dove è necessario prendere decisioni scientificamente giuste tanto per il breve quanto per il lungo periodo. “Il ruolo dell’università nella circular economy è quello di inquadrare il concetto, accompagnando le aziende nel comprendere sia quali sono le innovazioni e le tecnologie da impiegare sia qual è il linguaggio da adottare”, racconta Franco Fassio, professore associato presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. “Mi occupo di systemic food design, ossia di come applicare l’approccio sistemico al cibo, modello che richiede di intervenire sulle relazioni che ci sono fra gli attori, quindi anche le imprese, che caratterizzano una filiera. Si lavora sulla progettazione, cercando di capire come preservare o generare nuove interazioni. Ragioniamo su input, output, flussi di materia ed energia, in modo da ottimizzare il sistema non solo dal punto di vista ambientale, ma anche dal punto di vista della sostenibilità economica e sociale”.
Per fare dell’economia circolare il modello produttivo predominante bisogna ideare, pensare, testare, anticipare soluzioni lungo tutto il ciclo di vita dei prodotti. Secondo Laura Badalucco, professore ordinario di Design e responsabile dei corsi di perfezionamento in Circular design e Packaging design presso l’Università Iuav di Venezia, sono le università, spesso, a rovesciare il business-as-usual, anche quando è uguale a tradizione. “Nelle vetrerie di Murano – spiega - il cosiddetto cotisso veniva buttato, triturato e reimpiegato come taglio da utilizzare nel sottofondo stradale. Ciò è pazzesco, se si pensa alla ricchezza anche culturale di questo materiale, che nelle fornaci gli artigiani usano per i colletti che servono a soffiare il vetro o come supporto per realizzare determinate forme. Questi elementi a volte hanno delle geometrie molto precise, che noi abbiamo catalogato, in modo da realizzare nuovi prodotti partendo dagli scarti. In un caso, per esempio, un’azienda ha recuperato il cotisso per realizzare dei meravigliosi lampadari per grandi spazi. Certo, non è questo il fulcro dell’economia circolare. Ma così abbiamo evitato la produzione di un rifiuto”.
Università, diritto, istituzioni: una sinergia da migliorare
Se cambia il gioco, necessariamente cambieranno anche le sue regole. Tradotto, significa che la transizione circolare non si farà solo con la scienza dura. Ingegneria dei materiali, fisica e chimica non basteranno infatti a sostenere il passaggio a un modello a ciclo chiuso. Serviranno anche giuristi “ecologi”, capaci di dialogare – anche come interpreti – e anticipare i bisogni di un tessuto imprenditoriale che ha sete di certezza e garanzie del legislatore per mutare assetto. Inutile dire che, anche qui, si parte proprio dalle aule universitarie. “Il diritto dell’ambiente non è solo l’insieme di norme che regolano l’organizzazione della pubblica amministrazione. Se ci fosse un ceto di giuristi davvero pronto su queste tematiche, tutta la consulenza alle imprese sarebbe più facile e con essa la transizione ecologica”, sottolinea Barbara Pozzo, professore ordinario di Diritto privato comparato presso l’Università degli Studi dell’Insubria. “Il diritto dell’ambiente è invece una materia trasversale che occupa il diritto internazionale, il diritto dell’Unione europea, il diritto comparato sia privato che pubblico, la filosofia del diritto. Aver incasellato nelle tabelle ministeriali il diritto dell’ambiente come materia di diritto amministrativo fa perdere il suo glamour. Un diritto dell’ambiente ridotto a un discorso sulle procedure o sulle competenze del Ministero, dello Stato o delle Regioni non interessa. Dobbiamo trasmettere agli studenti che c’è tanto dietro questo tema, da fare e da poter fare”.
Didattica e ricerca: attenzione alle nuove generazioni
All’interno dell’università anche il ruolo degli under 30 sta cambiando. Studenti e studentesse sentono sempre di più, sulle loro giovani spalle, il peso del cambiamento. È l’eco-ansia, definita per la prima volta nel 2017 dall’American Psychological Association come la “paura cronica della rovina ambientale”.
E i docenti iniziano ad accorgersene. “Faccio questo mestiere dal 1994, ma solo tre anni fa ho iniziato a percepire la sensazione di dover cambiare approccio all’insegnamento - continua Laura Badalucco - In passato partivo dai problemi e solo in un secondo momento muovevo alle soluzioni. Poco prima dell’inizio della pandemia, però, ho iniziato a intuire che questo metodo portava a cali di attenzione, una sensazione di disagio che non so spiegare bene. Ho deciso così di stravolgere il mio modo di fare didattica e sono partita dalle soluzioni che già esistono, dalla dimostrazione che è possibile intervenire. Cerco di coinvolgere gli studenti spiegando loro che noi designer abbiamo un ruolo centrale perché in fondo ci occupiamo di prevenzione dei rifiuti, in termini di modifica dei consumi e dei bisogni, e non solo sulla gestione del fine vita della materia”.
Anche la ricerca si è incamminata su un percorso di rivoluzione. Ne è un esempio il programma di dottorato nazionale in Sviluppo sostenibile e cambiamento climatico coordinato dalla Scuola Universitaria Superiore Iuss di Pavia. Tre anni di percorso, oltre 150 borse di studio e più di 50 università italiane pubbliche e private aderenti al progetto. “Emerge proprio da questi dottorandi la volontà di essere utili per il contesto sociale in cui vivono. Credono nella causa per cui fanno ricerca, credono nell’interazione di diverse discipline”, racconta a Materia Rinnovabile Marcello Arosio, responsabile della comunicazione del programma. “Il nostro è stato il primo dottorato nazionale in Italia. Ora siamo all’inizio del secondo anno accademico, ma fino al 2021 non esisteva una normativa a riguardo. Le sfide che la società sta affrontando non possono più essere gestite solo in maniera disciplinare, verticale, come si è sempre fatto nel mondo della ricerca. Per questo offriamo sei curricula: sistema terra e ambiente, rischi e impatti socio economici, territorio e tecnologia, teorie istituzioni e culture, agricoltura e foresta e, infine, salute ed ecosistemi. Il programma prevede attività comuni ai vari gruppi, in modo da mettere il più possibile in relazione università e partecipanti. Così, nei nostri workshop i dottorandi in ingegneria si ritrovano seduti con quelli di filosofia, di lingue e magari con quelli di scienze del clima. Siamo ancora all’inizio, ma già intravediamo la ricchezza di questa mentalità di approccio alla ricerca”.
Immagine: Vasily Koloda (Unsplash)