Il cambiamento climatico ha bisogno dell’economia circolare. Ne è certo Jocelyn “Joss” Blériot, direttore della Ellen MacArthur Foundation, il più attivo think tank che si occupa di ridurre l’uso di materie prime, massimizzare la vita dei prodotti e impiegare qualsiasi scarto o rifiuto. Responsabile dei rapporti con la Cina e la Commissione europea, Blériot gestisce anche le relazioni con i governi e gli organismi sovranazionali come le Nazioni Unite, la G7 Resource Alliance, l'OCSE e il World Economic Forum. Lo abbiamo intervistato nei corridoi della COP26 a Glasgow.

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Da tempo la Ellen MacArthur Foudation insiste per una maggiore presenza dell’economia circolare dentro il consesso ONU sul clima.
Sì, qui a Glasgow abbiamo lavorato con i “campioni del clima” Nigel Topping, vulcanico direttore di Carbon Disclosure Project e dell’alleanza We Mean Business, e Gonzalo Munoz, imprenditore di successo cileno, per inserire il tema dell’economia circolare all’interno dei negoziati per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici. Il 45 % delle emissioni di gas serra vengono da cibo e prodotti di consumo. Se non affrontiamo il lato materiale dell’economia, ma solo quello energetico, vediamo solo una parte della sfida.

Per ora però nessun riferimento…
Intanto siamo riusciti a far menzionare l’economia circolare all’interno del comunicato finale del G20 di Roma a fine ottobre. La presidenza italiana in questo ha avuto un ruolo positivo. Grazie anche alla direttrice Laura d’Aprile siamo stati capaci di far passare l’idea di come l’economia circolare sia un elemento centrale della decarbonizzazione, ma ancora poco considerato.
Poi con l’
International Resource Panel, che fa parte dell’Agenzia Onu per l’Ambiente, che potremmo definire l’IPCC dei materiali, stiamo lavorando a una lista sull’impatto dei materiali che sarà presa come riferimento da tante agenzie Onu.

Azioni che avranno un riflesso nel framework Onu sul clima?
Queste azioni sono importanti perché possono influenzare il negoziato che oggi è interamente focalizzato sull'energia rinnovabile e sull'efficienza energetica. Dato che tanti elementi sono ancora aperti dentro COP, su questi temi è difficile introdurre un nuovo elemento nel discorso negoziale. Ma deve essere un obiettivo da perseguire.

Coinvolgendo stati e policy maker?
Anche con il supporto del settore privato. Società finanziarie come BlackRock sono a favore di una strategia di economia circolare per il clima e stanno cercando di influenzare la discussione.

Quali altri segnali positivi vede emergere nell’ambito della COP26?
Aumentano sempre di più le menzioni di economia circolare negli NDCs, i contributi determinati a livello nazionale per la riduzione delle emissioni, stabiliti con l’Accordo di Parigi. A luglio circa un quarto di tutti gli impegni conteneva un riferimento. Certo bisogna distinguere tra chi intende veramente implementare processi di economia circolare a livello industriale e chi menziona il termine solo perché è di moda.

Per mettere a terra l’economia circolare negli NDC è necessario avere un piano nazionale per l’economia circolare?
I governi devono capire che il piano nazionale economia circolare e il piano clima non sono due cose distinte. Devono essere strutturati per rafforzarsi vicendevolmente. Innovazione, gestione intelligente dei flussi dei materiali, nuovi modelli di business, possono ridurre i costi e la dipendenza da materie prime, e ridurre emissioni e impatti ambientali. Prendiamo il Cile: è stato il primo paese ad inserire una strategia di economia circolare nel proprio NDC, perché aveva realizzato una strategia circolare efficace. Lo potrebbe fare anche l’Italia.

Quali sono i settori che attraverso una transizione circolare possono avere un impatto maggiore sulla decarbonizzazione?
Nel nostro report “Completing the picture: How the circular economy tackles climate change” del 2019 è emerso che sono la plastica, il cemento, l’alluminio, l’acciaio e il cibo. Se applichiamo strategie circolare intelligenti, possiamo avere una riduzione delle emissioni complessiva equivalente, a livello globale, a quella del settore dei trasporti. Parliamo di 9.3 miliardi di tonnellate di CO2.

Quali sono le strategie più efficienti?
Dalla sostituzione dei materiali, da vergini a riciclati o più sostenibili, fino all’ottimizzazione, usando materiali più leggeri nel settore mobilità o attraverso modelli di business come il prodotto-come-servizio. Dunque possiamo raggiungere risultati importanti sia attraverso i processi di produzione, sia con nuovi modi di utilizzo dei prodotti.

Cina e Usa hanno firmato un accordo importante, ma la Cina è molto più avanzata dell’America sull’economia circolare. Quale è la sua opinione a riguardo?
Il 14° Piano quinquennale, uscito questa estate, vede nell’economia circolare una componente centrale, molto orientata verso soluzioni upstream. Si concentra sull’eco-design e sulla concezione dei prodotti. Una visione che va ben oltre la gestione dei rifiuti, ed è più una strategia di innovazione. Tantissima attenzione sugli imballaggi di plastica, ma anche sulla produzione tessile. Pechino è dal 2008 che insiste in questa direzione. In Usa c’è molto interesse, con iniziative di rilievo come Remade Institute, finanziato dal Dipartimento di Energia, ma rimane molta strada da fare.

Avremo mai un Gruppo di lavoro sull’economia circolare a COP?
È quello per cui lavoro!