Si è conclusa alle 7 del mattino di domenica 20 novembre la COP27, il ventisettesimo negoziato ONU della Conferenza delle Parti di Sharm el-Sheikh, con uno dei peggiori risultati di sempre in termini temporali, secondo solo alla fallimentare conferenza di Madrid. Il tempo è anche indicazione delle difficoltà incontrate per siglare il Sharm el-Sheikh Implementation Plan, il documento della decisione finale delle parti, che riflette il caotico scenario geopolitico e il ruolo dei petrostati, ma anche l’intenzione di andare oltre i vecchi equilibri globali nord-sud, cercando nuove sponde per una cooperazione multilaterale e per una riforma del sistema finanziario delle Banche multilaterali e non solo.

Fallisce il negoziato sul tema centrale dell’incontro, cioè l’implementazione dei piani di decarbonizzazione e di adattamento, la cui responsabilità pesa sulla Presidenza egiziana. Rimane l’obiettivo di mantenere le temperature medie entro 1,5°C, ma mancano i piani e le strategie per raggiungerlo, mentre inaspettatamente si trova la quadra per creare un fondo Loss&Damage, per compensare i Paesi più vulnerabili per le perdite e i danni legati ai disastri del climate change. Grande soddisfazione della società civile, che in una COP segnata dalla mancanza di libertà per manifestare, segna un punto importante per la giustizia climatica, con un assist importante dall’Europa che si presenta unita e ambiziosa. Uno spiraglio di speranza che dimostra come il ruolo dal basso di attivisti e delegati di piccoli Paesi, se congiunto e ben orchestrato, può portare a risultati concreti. Come consuetudine Materia Rinnovabile, che ha seguito da vicino i negoziati, vi offre la nostra analisi del testo finale e delle tante decisioni adottate.

Loss&Damage, un successo per i Paesi più vulnerabili

Il risultato più grande è l’accordo su un fondo per le perdite e i danni, cosiddetto meccanismo Loss&Damage. Presentato nel lontano 1992 come opzione da parte dei piccoli stati insulari, fortemente colpiti dall’innalzamento dei livelli del mare, in pochi avevano scommesso che il fondo Loss&Damage sarebbe stato un risultato dei negoziati egiziani. In Italia le associazioni come Italian Climate Network, WWF e Legambiente avevano lanciato una campagna di comunicazione per fare pressione sulla questione. Ma in pochi si aspettavano l’adozione di un fondo con cui i Paesi più vulnerabili potranno ricevere compensazioni per danni e perdite causate dalle rapide e violente trasformazioni climatiche e terrestri.

Il fondo per perdite e danni, un sogno alla COP26 dello scorso anno, è sulla buona strada per iniziare a funzionare nel 2023”, ha dichiarato Laurence Toubiana, l’architetta dell’Accordo di Parigi e presidente della Europen Climate Foundation. “C'è ancora molto lavoro da fare sui dettagli, ma il principio è stato approvato e questo è un cambiamento di mentalità significativo che ribadisce che viviamo in un mondo in cui gli impatti climatici causano gravi perdite”. Ora serve rendere operativo questo fondo, in modo che già dal 2025 si possano erogare le risorse. Ma non mancano le difficoltà per i negoziatori durante il 2023. Innanzitutto servirà definire chi sono i riceventi (“i Paesi più vulnerabili”) e chi pagherà per il fondo, e come sarà reso operativo. Questo compito spetterà ad una commissione creata ad-hoc che dovrà relazionare il prossimo anno. Festeggiano intanto gli stati insulari (rappresentati al negoziato dal gruppo AOSIS), i Paesi africani e la società civile che si intestano il successo come “il rilancio della cooperazione” nord-sud, con alcuni distinguo tra chi accetta il risultato e chi ingenuamente avrebbe voluto il fondo operativo già dall’inizio del prossimo anno). Per Mohamed Adow, del think tank Power Shift Africa, il “Loss&Damage all’inizio dei negoziati non era nemmeno nell’agenda dei lavori, e ora stiamo facendo la storia. Questo dimostra che il processo ONU può ottenere vittorie importanti”. Attenzione a un dettaglio: questa versione del Loss&Damage esclude la liability, ovvero la responsabilità dei Paesi che finanzieranno il fondo. Niente super-cause legali in vista.

Ma rallenta l’implementazione delle strategie di decabonizzazione

Di segno opposto i risultati sul processo di decarbonizzazione. Questa COP ha indebolito le richieste da fare ai Paesi che devono assumere impegni nuovi e più ambiziosi nei propri NDCs. Il testo non fa menzione della graduale eliminazione dei combustibili fossili e fa scarso riferimento alla scienza e all'obiettivo di 1,5°C, non includendo quello che avrebbe potuto essere un grande successo per il negoziato, ovvero l’inclusione dell’obiettivo di picco delle emissioni al 2025, considerato chiave per il target 1,5°C. Scomparsa la proposta dell’India di includere una menzione alla riduzione di petrolio e gas (phase down), per altro accettata da Europa e vari paesi dell’Umbrella Group.

La presidenza egiziana ha prodotto un testo che protegge chiaramente i petrostati del petrolio e del gas e le industrie dei combustibili fossili. Questa tendenza non può continuare negli Emirati Arabi Uniti il ​​prossimo anno”, ha aggiunto in nota stampa Laurence Toubiana. Con finanziamenti per circa 22 miliardi di dollari l’anno dall’Arabia Saudita e Eni come uno dei principali produttori di gas nel Paese (dove sta lavorando per espandere grandemente la produzione), il governo di Al-Sisi ha usato tutta la sua forza politica per annacquare il risultato e tutelare il mondo delle fossili. “Nel documento finale manca l’impegno per un’uscita sicura e socialmente sostenibile dai combustibili fossili”, afferma Luca Bergamaschi, co-fondatore e Direttore del think tank ECCO. L’obiettivo ora è riuscirci nel 2023 a COP28, promettono i delegati europei, fortemente insoddisfatti dal risultato finale. “Abbiamo perso velocità e sprecato un sacco di tempo”, ha commentato il vice-presidente UE, Frans Timmermans. La COP27 riconosce che per mantenere l'obiettivo di 1,5 gradi è necessaria una riduzione delle emissioni del 43% al 2030 rispetto al 2019. Con gli impegni di decarbonizzazione attuali tuttavia il taglio di emissioni sarebbe solo dello 0,3% al 2030 rispetto al 2019. Per questo gli stati che non hanno ancora aggiornato i loro obiettivi di decarbonizzazione (Ndc) sono invitati a farlo entro il 2023. Gli americani – debolissimi in questo negoziato – hanno visto fallire la loro proposta di accelerare sul controllo delle emissioni fuggitive del metano nel settore oil&gas attraverso il Methane Pledge, da un lato un tentativo per difendere il settore estrattivo, dall’altro una risoluzione importante per ridurre le emissioni di CH4, un potente gas climalterante, che se eliminato dall’atmosfera può portare una rapida riduzione del riscaldamento globale.

Non tutto è dramma, però. Le rinnovabili guadagnano un posto al sole ai negoziati e nel Sharm el-Sheikh Implementation Plan. Oltre ad aver avuto di gran lunga maggiore rilievo ai tanti eventi di questa COP27 rispetto alle fossili e nucleare, finalmente solare, eolico &co. trovano amplio spazio nel testo finale, che afferma come “si sottolinei l'urgente necessità di riduzioni immediate delle emissioni globali di gas a effetto serra da parte delle parti in tutti i settori applicabili, anche attraverso l'aumento delle energie rinnovabili e a basse emissioni, i partenariati per una transizione energetica (JETP) giusta e altre azioni di cooperazione”. Hanno suscitato molto interesse le JET-P, le Just Energy Transition partnership, collaborazioni multilaterali per progetti di energie rinnovabili ad impatto sociale, come quello da 20 miliardi siglato a Jakarta per i prossimi 3-5 anni da paesi Eu e USA, sia da garanzie con fondi pubblici che attraverso la finanza privata, facilitata dal Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ) Working Group creato lo scorso anno.

Il ruolo centrale della finanza climatica a COP27

Sebbene tutta l’attenzione mediatica fosse rivolta al Loss&Damage, la questione finanziaria ha giocato un ruolo centrale. Il tema più importante, che ha ricevuto alcune menzioni chiave è quello della riforma delle Banche di Sviluppo Multilaterali (MDBs). Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, le banche regionali come Asian Development Bank, African Development Bank, oggi non sono attrezzate con un chiaro mandato per erogare credito agevolato per progetti legati ai cambiamenti climatici. Hanno dei limiti per sostenere i Paesi meno sviluppati (a causa dell’alto debito o dei procedimenti di default) o non lavorano attivamente in questa direzione, come ad esempio la Banca Mondiale guidata da David Malpasse. Queste MDBs possono movimentare centinaia di miliardi di dollari per le rinnovabili, l’economia circolare, la resilienza, creando una leva di migliaia di miliardi da parte del settore finanziario privato. Infatti se se investono le grandi MDBs, gli istituì finanziari internazionali privati sono maggiormente interessati poiché si riduce il rischio e si offre una maggiore certezza sulla direzione degli investimenti.

Per questo il Sharm el-Sheikh Implementation Plan “invita gli azionisti delle banche multilaterali di sviluppo e delle istituzioni finanziarie internazionali a riformare le pratiche e le priorità delle banche multilaterali di sviluppo, allineare e aumentare i finanziamenti, garantire un accesso semplificato e mobilitare finanziamenti per il clima provenienti da varie fonti. Incoraggia le banche multilaterali di sviluppo a definire una nuova visione e modello operativo, canali e strumenti adeguati allo scopo di affrontare adeguatamente l'emergenza climatica globale, compreso l'utilizzo di una gamma completa di strumenti, dalle sovvenzioni alle garanzie e agli strumenti diversi dal debito, tenendo conto dell'onere del debito e per affrontare la propensione al rischio, al fine di aumentare sostanzialmente i finanziamenti per il clima”.

La palla dunque si sposta ora alle riunioni dei consigli di amministrazione delle banche nella primavera 2023 che si prevedono incandescenti. Ma la riforma appare inevitabile e con chiaro mandato dei 196 paesi ONU. “Gli incontri finanziari internazionali del prossimo anno diventano quindi critici”, si legge in una nota stampa del think tank Ecco. “Importante sarà supportare e fare leva sull’iniziativa di Bridgetown delle Barbados, appoggiata ora dalla Francia, che presente un programma ambizioso di riforma [delle banche e finanza internazionale]. I Paesi G7 e G20 sono chiamati all’azione. La Presidenza italiana del G7 nel 2024 sarà fondamentale per implementare queste riforme”. Senza questa riforma non ci sarà una svolta reale nella decarbonizzazione globale.

Sul tema della finanza climatica rimane la questione dei 100 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2020-2025. Nel testo si chiede di chiudere il gap ma non si chiede di coprire gli ammanchi, ovvero il fatto che negli ultimi tre anni si sono versati circa 70 miliardi in meno (quest’anno siamo intorno agli 82 miliardi di dollari di impegni da parte dei paesi ricchi). Nemmeno ci sono riferimenti al framework di supporto economico post-2025, ovvero quanto i Paesi ricchi dovranno erogare per sostenere mitigazione e adattamento nei Paesi meno industrializzati.

Osservato speciale sulla finanza climatica sono gli Stati Uniti. Mentre i diplomatici americani hanno acconsentito a un fondo su Loss&Damage e ribadito di chiudere il gap sulla finanza climatica, il problema è che il denaro deve essere stanziato dal Congresso. L'anno scorso, l'amministrazione Biden ha richiesto 2,5 miliardi di dollari in finanziamenti per il clima, ma si è assicurata solo 1 miliardo di dollari, quando ancora i Democratici controllavano entrambe le camere. Con i repubblicani, che in gran parte si oppongono agli aiuti per il clima, pronti a prendere il controllo della Camera a gennaio, le prospettive che il Congresso aumenti il supporto alla finanza climatica sono minime.
“L'amministrazione Biden dovrebbe concentrarsi sulla riduzione della spesa interna, non sull'invio di denaro alle Nazioni Unite per nuovi accordi sul clima. L'innovazione, non le riparazioni, è la chiave per combattere il cambiamento climatico", ha dichiarato al NYT il senatore repubblicano John Brarasso. Oltre all’Europa chi metterà più soldi sul piatto della finanza climatica?

La COP27 apre a nuovi equilibri geopolitici climatici

Il tema di chi finanzierà il fondo operativo dal 2023 del Loss&Damage ha creato un terremoto geopolitico. Ad un certo punto l’Europa ha richiesto, in cambio dell’approvazione del fondo Loss&Damage, che alcune nazioni di recente industrializzazione, ovvero la Cina, entrassero a far parte della lista dei Paesi finanziatori. Apriti cielo. Storicamente la Cina fa parte dei paesi in via di sviluppo secondo il principio che, sì, emette tanto, ma ha iniziato solo recentemente. Ora però tutto potrebbe cambiare.
Sono anni che si riflette su quando sarà il momento che il Dragone entri nel novero delle nazioni sviluppate. La rielezione di Xi Jinping, che aspira a confermare la Cina come super-potenza e la grande pressione generata a Sharm el-Sheikh ha aperto un dibattito che difficilmente potrà essere ignorato: la Cina deve sedere accanto a Eu e Usa, condividendo oneri ed onori. Che nell’ambito climatico dell’Accordo di Parigi, significa pagare per aiutare i Paesi più poveri e vulnerabili.

Affinché ciò avvenga servirà pressione anche da parte dei Paesi asiatici e africani che ricevono appoggio da Pechino, specie se vogliono vedere potenziata la finanza climatica e gli aiuti tramite il fondo per il Loss&Damage. Al G20 di Bali, Cina e USA sono tornarti a parlarsi e a cooperare sul clima, ma è stata l’Europa che ha svolto la parte del leone in Egitto, mettendo al muro le due superpotenze, che hanno avuto la meglio solo grazie al lavoro di retroscena degli Egiziani con Arabia Saudita e petrostati, offrendo un accodo debole, ma che non apre il vaso di pandora. Ora il vero nemico al progresso dei negoziati è il blocco OPEC che continuerà a fare di tutto per non avere menzioni sulle fonti fossili nell’Accordo di Parigi. L’Italia avrebbe potuto fare la voce grossa con l’Egitto, ma gli interessi legati al gas e la recente riapertura di rapporti diplomatici han messo tutto a tacere.

Biodiversità, una sconfitta bruciante

Nessuna menzione nel comunicato finale alla Convenzione sulla Biodiversità (CBD) che si terrà a dicembre a Montreal e che dovrebbe consegnare un accordo quadro di grande rilevanza sul tema che guiderà l’azione delle nazioni fino al 2030.
Sebbene per la prima volta in un accordo COP si parli di agricoltura (paragrafo XV del documento) lanciando un piano di implementazione quadriennale per ridurre le emissioni di gas serra e aumentare la sicurezza alimentare, si evita di menzionare il ruolo che l’accordo sulla biodiversità avrà per preservare foreste, suolo e oceano (altro debutto importante in un testo COP) e aiutare nell’assorbimento e stock di CO2. La piattaforma mediatica di COP27 avrebbe aiutato ad aumentarne la visibilità. A riportare l’attenzione sulla CBD è il discorso di chiusura del Segretario Generale ONU, Guterres, che ribadisce la necessità di un accordo ambizioso sulla biodiversità, che contribuirà nella sfida globale sul clima. Al momento però non sono attesi capi di stato alla conferenza, segnale che l’attenzione politica sul tema è bassa. Va menzionato il paragrafo XIII “Ocean”, in particolare la decisione di includere l’azione di tutela dell’oceano (nda, va singolare) negli NDC, gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni.

Clima, una sfida di proporzioni bibliche

Stanchi e frustrati, delegati e giornalisti tornano a casa con gli occhi rossi e un deficit di sonno. Dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 si terrà COP28 a Dubai. Il lavoro è tantissimo e lo sforzo per implementare il processo di decarbonizzazione, immenso. Il prossimo anno si terrà il primo Global Stocktake, un assessment generale dell’Accordo di Parigi che offrirà uno spaccato su dove il mondo si trova nella sfida climatica e dove sta andando. Ambizione, riforma della finanza climatica, accelerazione sull’adattamento, conferma della scienza del clima e rimozione degli ostacoli politici, saranno alcuni degli elementi chiave. Sarà una COP pesante, che potrebbe confermare o negare l’efficacia dell’Architettura di Parigi. Il mondo sta inevitabilmente accelerando, viste le centinaia di iniziative e side event, report e analisi, ma ancora troppo poco.

Nel deserto del Sinai nella notte dei tempi vennero consegnate le tavole della Legge, oggi arriva un unico comandamento: fare sempre più in fretta, superando gli ostacoli di quei Paesi che favoriscono tatticismi e politica con visione a breve termine. Non arriverà un Salvatore, ma la sfida del clima è di proporzioni bibliche. Ognuno di noi è Sansone, e il Golia fossile può e deve essere sconfitto.

Immagine: COP27 official