COP15 in piena empasse a causa delle divisioni tra le nazioni sviluppate e quelle in via di sviluppo su chi dovrebbe pagare per proteggere la biodiversità. I delegati dei Paesi in via di sviluppo hanno abbandonato le sale della conferenza, durante la notte di martedì, per protestare contro l’indisponibilità dei Paesi ricchi ad allocare ulteriori risorse economiche. Un segnale forte che rischia di far deragliare il negoziato.
Più soldi per proteggere la biodiversità nel Sud del mondo
Sulla scia della vittoria nel negoziato sul clima a Sharm el-Sheikh – dove i Paesi più vulnerabili hanno ottenuto l’approvazione del fondo Loss&Damage – i Paesi del Sud del mondo hanno lasciato i negoziati per evidenti disaccordi sulla finanza.
Uno dei target del post-2020 Global Biodiversity Framework, l’accordo che dovrebbe essere approvato a Montreal entro il 20 dicembre, include obiettivi specifici di risorse da movimentare fino al 2030, con cifre che variano dai 10 ai 200 miliardi l’anno, oppure 700 miliardi entro la fine del decennio. I principali destinatari di questo fondo dovrebbero essere i Paesi in via di sviluppo (anche se alcuni si possono dire industrializzati) megadiversi, ovvero con un’importante biodiversità: Cina, Brasile, Indonesia, India e Messico, da anni i principali recipienti del Global Environmental Fund. Ma molti Paesi dell’Africa, Asia e America Latina chiedono più risorse per la conservazione e la creazione di un fondo ad hoc per la biodiversità.
Paesi industrializzati vs. Paesi in via di sviluppo
Numerose fonti delle delegazioni europee (Italia non pervenuta) hanno però confermato che senza obiettivi ambiziosi e chiari è difficile determinare cifre. In particolare la creazione di nuovi fondi rallenterebbe decisamente l’erogazione dei finanziamenti dato che servirebbero vari anni per la creazione di un nuovo Biodiversity Fund. “Senza soldi però c’è il rischio che Montreal sia una nuova Copenhagen”, ha dichiarato Oscar Soria, portavoce dell’associazione Avaaz, in riferimento alla conferenza fallimentare sul clima del 2009.
Una notizia che arriva proprio durante il Finance Biodiversity Day, una giornata di convegni studiata per capire come movimentare sufficienti risorse per sostenere gli obiettivi del Global Biodiversity Framework. “La finanza pubblica non può bastare da sol”», ha ricordato più volte in queste settimane Elizabeth Maruma Mrema, segretaria esecutiva della Convenzione sulla Biodiversità. Movimentare le risorse private è fondamentale se si vuole far funzionare il Global Biodiversity Framework.
Per risolvere l’empasse servirebbe riformulare la questione dei Paesi donatori. La Cina vuole posizionarsi come una super potenza e quindi contribuire, insieme al Brasile e al Messico, alle risorse per la tutela della natura nelle nazioni più vulnerabili, oppure vuole continuare ad essere un Paese in via di sviluppo? Dato che Pechino detiene la presidenza della COP15, un fallimento sarebbe visto come uno smacco a livello diplomatico e un insuccesso con cui fare i conti anche a livello domestico. La spina nel fianco potrebbe essere proprio il Brasile, dato che la futura ministra dell’Ambiente, anche in un’intervista con l’autore, non vorrebbe transigere sulla creazione del fondo e sull’erogazione di “riparazione storica” per la perdita e i danni “irreversibili” alla biodiversità. Richiesta ovviamente irricevibile dai Paesi industrializzati. Ma vista l’assenza dei capi di stato a questo negoziato, è difficile che si riesca a spostare la divisione vecchia di 30 anni tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, che risale addirittura al Summit della Terra di Rio.
Nuovi sistemi di finanza per la biodiversità
Dunque la sfida è capire come creare sistemi misti pubblico privati di gestione delle risorse. Anche qua non mancano le spaccature, tra attivisti che denunciano una presenza senza precedenti del mondo finanziario al negoziato e chi propone bond, fondi e meccanismi di disclosure finanziaria per arrestare e invertire la perdita di biodiversità.
Sono stati decine gli incontri a COP15 per parlare di nuovi strumenti finanziari, della riforma delle Multilateral Development Bank (come Banca Mondiale e IMF), del ruolo di un quadro di gestione e divulgazione dei rischi legati alla perdita di biodiversità. “Molti settori industriali possono essere impattati enormemente se collassa la biodiversità”, ha tuonato Amanda Blanc, CEO of Aviva, colosso assicurativo britannico. “Per questo sono importanti nuovi sistemi di finanza per la biodiversità”.
Vasti flussi finanziari pubblici e privati sono ancora indirizzati ad attività che danneggiano direttamente la biodiversità. Ad esempio, nel 2019, le principali banche di investimento hanno fornito circa 2,6 mila miliardi di dollari (circa l'intero PIL del Canada o del Regno Unito) in settori che gli scienziati concordano essere i principali motori della distruzione della biodiversità. I sussidi pubblici dannosi per la biodiversità sono stati stimati a 542 miliardi di dollari nel 2019 nei settori dell'agricoltura, della silvicoltura e della pesca, da aggiungere a 395-478 miliardi di dollari di sussidi alla produzione di combustibili fossili. Queste cifre fanno impallidire a fronte dell'ammontare totale dei flussi finanziari per la conservazione della biodiversità a livello globale, stimati tra 124 e 143 miliardi di dollari.
Secondo la Taskforce on Nature-related Financial Disclosures (TNFD) è necessario “fornire un quadro integrato per la gestione e la divulgazione dei rischi che consenta alle organizzazioni di segnalare e agire sull'evoluzione dei rischi legati alla natura, con l'obiettivo finale di supportare un cambiamento nei flussi finanziari globali lontano da esiti naturali negativi e verso esiti naturali positivi”. Quaranta membri della task force con un patrimonio di 20,6 mila miliardi di dollari stanno lavorando con i co-presidenti della TNFD per sviluppare la struttura della di questo sistema di disclosure, atteso nel settembre 2023, che permetterà alle imprese di individuare ed agire per risolvere i rischi e le opportunità legati alla natura nei loro processi decisionali. A bordo dell’iniziativa i governi olandese, francese, inglese, tedesco, svizzero; assente l’Italia (che peraltro ha avuto zero speaker in tutti i panel seguiti).
Gli investitori indubbiamente possono avere un ruolo. La campagna contro la società mineraria canadese Belo Sun, che ha portato all’attenzione degli investitori durante la prima settimana di negoziati gli impatti negativi delle miniere in Amazzonia, ha avuto successo. Il 14 Dicembre il prezzo delle azioni di Belo Sun è crollato di oltre il 50% dall’inizio della campagna di opposizione indigena, e attualmente si trova a meno di 8 centesimi per azione, con buona pace per il Volta Grande Project (VGP), una miniera d'oro a cielo aperto sulle rive del fiume Xingu in Amazzonia. Altri esempi portati all’attenzione dei giornalisti sono stati bond sulla biodiversità e sul clima che variano nei rendimenti in base alle performance del governo, quindi spingendo risparmiatori e investitori a fare pressione affinché i governi mantengano le promesse ambientali fatte.
Senza un Global Biodiversity Framework ambizioso, però, tutto questo potrebbe rimanere sulla carta. Per questo è importante che l’empasse rientri già oggi, 15 dicembre, con l’arrivo dei ministri da tutto il mondo. Senza un accordo non ci saranno risorse, non ci saranno investimenti, nè speranza per poter dare una svolta sul tema biodiversità dopo il grave fallimento dei target di Aichi.
Immagine: COP15 official