Il polietilene tereftalato, o PET, è uno tra i polimeri sintetici più inquinanti e utilizzati al mondo. Derivato interamente da petrolio e gas naturale, è estremamente reticente alla biodegradazione, il che ne rappresenta contemporaneamente un punto di forza e di debolezza.
Per far fronte ai conseguenti problemi legati allo smaltimento e renderne la produzione stessa conforme ai dettami della transizione energetica, si stanno moltiplicando gli sforzi legislativi e tecnici per fare del PET riciclato un’alternativa sempre più concreta e conveniente. In quest’ottica, il 2020 si sta rivelando un anno piuttosto promettente in entrambi i campi, con l’approvazione italiana di una nuova legge e la scoperta anglosassone di un super enzima.
PET riciclato al 100%: i numeri della legge italiana
Con l’entrata in vigore della Legge 13 ottobre 2020, n. 126, il Decreto “Agosto” e relativo emendamento presentato dal senatore Ferrazzi, diventano realtà. Dal 14 ottobre, bottiglie e vaschette alimentari possono essere interamente costituite da PET riciclato al 100% (r-PET), mentre prima il Decreto ministeriale n. 113 del 18 maggio 2010 imponeva l’uso di almeno il 50% di materia vergine nella produzione. Dunque, uno schiaffo – o meglio, più una pesante carezza, data la tardività legislativa – alla catena produttiva del petrolio a sostengo di ambiente, industrie italiane e di una incoraggiante filiera del riciclo che annovera virtuosi esempi, come l’impianto di Bedizzole (Bs). Usando PET riciclato al 100%, inoltre, si potranno risparmiare oltre 450 mila tonnellate di petrolio e, di conseguenza, oltre 1,2 tonnellate di CO2 non immesse in atmosfera.
Il super enzima figlio di un batterio e della ricerca mondiale
Nel complesso panorama del riciclaggio della plastica, l’innovazione scientifica ricopre sicuramente un ruolo fondamentale – anche se non prioritario rispetto alla legislazione, come si evince dal caso italiano.
Il PET può essere riciclato attraverso metodi meccanici – preponderanti – o attraverso metodi chimici. I primi preservano la struttura molecolare, i secondi, invece, scompongono il PET nei suoi componenti, permettendone così il riutilizzo non solo nella ri-produzione di plastica, ma anche in altri processi industriali. È sulla scia delle potenzialità della chimica verde e degli scenari applicativi – oltre che degli ovvi finanziamenti – che nasce la fruttuosa collaborazione tra l’Università britannica di Portsmouth ed il NREL – National Renewable Energy Laboratory statunitense. Unendo artificialmente i due enzimi chiave nella degradazione della plastica, l’enzima PET e l’enzima MHET, hanno creato un super enzima in grado di degradare il PET 3 volte più velocemente del già precedentemente ingegnerizzato enzima PET. Il PET impiega secoli a biodegradarsi e l’enzima PET ha ridotto questo tempo a giorni. Un rivoluzione che ha avuto inizio in Giappone, nel 2016, quando un gruppo di ricercatori identificò il batterio mangia plastica Ideonella sakaiensis 201-F6.
Tuttavia, la tecnologia è ancora troppo lenta per essere applicata a scopi industriali e molti passi devono ancora essere compiuti.