La transizione verso un’economia sostenibile passa anche attraverso la centralità della bioeconomia: quel sistema che utilizza tutte le risorse biologiche rinnovabili, provenienti dalla terra e dal mare, inclusi gli scarti, per la produzione di beni, servizi ed energia. Un comparto fortemente connesso ai territori proprio per la sua capacità di creare filiere multidisciplinari integrate nelle aree locali. Ma anche un comparto che in Italia vale 317 miliardi di euro e impiega due milioni di persone, il 7,9% dell’occupazione totale nazionale, valore che sale al 10,7% nel solo Mezzogiorno (secondo i dati del settimo Rapporto sulla Bioeconomia redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo), rivelandosi quindi un settore ad elevata intensità di sviluppo per l’occupazione.
La bioeconomia si è dimostrata resiliente anche durante la crisi pandemica: dopo aver chiuso il 2019 con un incremento dell’1,4% del valore della produzione, nel 2020 ha perso nel complesso il 6,5%, un calo nettamente inferiore rispetto a quanto segnato dall’intera economia nazionale (-8,8%). Il peso della bioeconomia sull’economia, in termini di produzione, è pertanto salito al 10,2% rispetto al 10% del 2019 e al 9,9% del 2018.
Numeri che ci mettono al terzo posto in Europa alle spalle di Germania (Paese in cui la bioeconomia vale 414 miliardi di euro) e Francia (359 miliardi). A dimostrazione che il sistema-paese è agganciato al treno di testa e proprio per questo non possiamo permetterci di perdere contatto. E per farlo abbiamo bisogno da un lato di superare gli ostacoli burocratici che frenano gli investimenti e dall’altro di accelerare sullo sviluppo dei progetti.
Burocrazia e investimenti
Grazie alla ricerca, alle nuove tecnologie e all’attivazione di processi di co-innovazione, oggi possiamo accelerare la transizione verso modelli di sviluppo sostenibili e resilienti. Per farlo, come detto, si deve lavorare su quei fattori che oggi risultano elementi bloccanti, o quanto meno frenanti.
Partiamo dalla burocrazia. In Italia c’è una storia emblematica da questo punto di vista: una joint venture, nel settore dei prodotti per la cura della persona, tra un’azienda italiana e un grande gruppo internazionale. Obiettivo dell’iniziativa: recuperare pannolini e assorbenti usati per rimettere la cellulosa nel ciclo produttivo. Un’operazione virtuosa e lungimirante che, a fronte di investimenti importanti, ha poi dovuto aspettare anni tutte le autorizzazioni necessarie per avviare l’industrializzazione. Un bizantinismo che inevitabilmente spaventa e allontana gli investitori. Un cortocircuito figlio del fatto che l’Italia sia uno dei pochi Paesi a non aver messo in piedi un vero piano per l’economia circolare quando, invece, sarebbe una fondamentale leva per la competitività della nostra economia.
E poi ci sono gli investimenti. Gli investitori, italiani e non, possono guardare con grande interesse a quei settori in cui abbiamo l’occasione di eccellere. Colmare il gap che ci separa da Cina e Stati Uniti sul fronte del software o dell’intelligenza artificiale è una sfida da brividi, nel campo della bioeconomia, invece, abbiamo l’opportunità di fare la differenza, diventando un catalizzatore di innovazione e investimenti.
La scommessa della bioeconomia
Bisogna supportare le realtà italiane più innovative, creare interconnessioni con le eccellenze scientifiche del territorio e con aziende leader di settore, diffondere la cultura dell’open innovation e contribuire a dare un forte impulso all’innovazione e all’economia del nostro Paese. E in questo senso l’esperienza di Terra Next, il nuovo acceleratore che nasce su iniziativa di CDP Venture Capital insieme a Intesa Sanpaolo Innovation Center e Cariplo Factory, è unica nel suo genere, in Italia ma anche in Europa. Non esistono altrove acceleratori di bioeconomia che abbiano l’obiettivo di creare filiere di valore aggregando imprese di diverso tipo, per portarle a confrontarsi con il mondo delle startup. Un programma di open innovation al quale le startup contribuiranno con la loro agilità e la loro capacità di rompere gli schemi, mentre le grandi corporate metteranno sul piatto competenze, organizzazione e sviluppo.
Con la consapevolezza che sia indispensabile portare il paradigma dell’open innovation anche nel campo della bioeconomia, perché nessuno è in grado di affrontare da solo la complessità dei temi e delle frontiere che portano cambiamenti di simili portata. Serve, quindi, la contaminazione tra imprese, grandi e piccole, che hanno diverse competenze, esperienza del mercato, risorse umane tecniche e tecnologiche, forza organizzativa, necessità di crescere e sperimentare nuovi modelli di creazione del valore, e serve un acceleratore del cambiamento. Non a caso, al progetto Terranext, prendono parte imprese che lavorano su scala internazionale, come Pasta Garofalo, il Gruppo Getra, Nestlé, Novamont e altre che stanno manifestando grande interesse.
Il cibo, il punto di partenza
Superate le paure di aspetti burocratici tipicamente italiani, trovati investitori che credono nel progetto, da dove su può partire per innescare un circolo virtuoso nel nostro Paese? L’Italia non può che partire dal “cibo”, anche perché la filiera agroalimentare, che rappresenta oltre il 60% del valore della bioeconomia, è risultata meno colpita dalla crisi generata dalla pandemia (nonostante la chiusura della ristorazione a valle). Sempre secondo il Rapporto sopra citato, in tutta Italia la filiera agro-alimentare riveste un ruolo di primo piano nella bioeconomia, con un peso che varia da circa il 50% nelle regioni del Centro, a quasi l’80% nelle regioni meridionali. I trend da inseguire sono ben delineati e partono tutti da quel settore. Secondo la FAO, ogni anno, si perde o si spreca il 30% di tutti gli alimenti prodotti sul pianeta. Sprechi che si traducono nella dispersione di acqua potabile e di energia, oltre a un incremento costante della deforestazione. E, sempre secondo la FAO, il 6% delle emissioni di gas serra globali sono legate allo scarto alimentare. La situazione è molto simile per quanto riguarda il grande tema degli imballaggi.
Nel campo della bioeconomia l’Italia ha già un fortissimo network. Sono molte, nel nostro Paese, le imprese e le startup attive nella ricerca e sviluppo in questo settore. Come indicato nel settimo Rapporto sulla bioeconomia, le specificità del tessuto produttivo delle diverse regioni italiane non si fermano al settore agroalimentare ma sfociano verso le nuove frontiere della chimica bio-based. La mappatura mette in luce un sistema dinamico e complesso, con più di 830 soggetti, 84 Università e Centri di Ricerca (pubblici e privati) e circa 730 imprese (delle quali, oltre 500 start-up), a cui si affiancano altre istituzioni ed associazioni con ruolo di supporto e promozione. Numeri che indicano chiaramente che una delle strade per lasciare un segno, per fare la differenza, attraverso l’innovazione, passa per la bioeconomia.
L’Italia ha una grande opportunità che va sostenuta. Adesso e senza indugi.
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