Per allestire questo luogo d’incontro non intendiamo basarci su un modello già definito nei dettagli, ma su una scala di priorità basata sui limiti fisici del pianeta e un perimetro di analisi che accoglie le visioni più innovative dell’economia e della società: bioeconomy, green economy, circular economy, sharing economy, blue economy. Inoltre, di fronte alla profondità del mutamento imposto da ciò che viene riduttivamente chiamato “crisi”, è necessario ragionare e intervenire contemporaneamente su fronti diversi: dall’economia all’ambiente, dalla gestione delle risorse alle soluzioni per migliorare la coesione sociale.
La sfida da affrontare è la composizione di un nuovo e più ampio sistema di alleanze che parta da interessi diffusi e bisogni reali. Creare più lavoro, più sicurezza (ambientale e sociale), più benessere, più stabilità. È un cammino tutto da costruire, incerto nei tempi e nei modi. Per individuare il percorso, si può partire dalla lezione degli anni ’70. Dopo gli shock petroliferi che hanno fatto vacillare la sicurezza energetica basata sulla progressiva espansione dei combustibili fossili, si è affacciato il concetto di energia rinnovabile. Ci sono voluti quarant’anni per dare solidità a quella prospettiva ma ora, sia pure in mezzo a molte contraddizioni ed esitazioni, le proiezioni dell’International Energy Agency non lasciano dubbi: le fonti rinnovabili conquisteranno il primato in uno spazio di tempo minore di quello trascorso dalla crisi energetica del 1973 a oggi.
Sul primo pilastro dunque la direzione è ormai chiara: la marcia verso l’energia rinnovabile può solo essere rallentata, ma non invertita. È perciò arrivato il momento di aggiungere il secondo pilastro: la materia rinnovabile.
È un salto concettuale profondo che implica un capovolgimento del punto di vista dominante. Fino a oggi la produzione industriale ha creato un flusso unilaterale di materia, trasformando una parte di natura in miniera e un’altra in discarica, liquidando inquinamento e degrado ambientale come un inevitabile danno collaterale. L’approccio della materia rinnovabile considera invece il territorio come la risorsa chiave – un patrimonio che è all’origine di tutte le valorizzazioni possibili e del quale è possibile usare intelligentemente la rendita – e vede i materiali coinvolti nella produzione come fossero un flusso continuo, nel quale le singole merci non sono altro che fasi transitorie attraverso le quali passa la materia.
Questo salto concettuale richiede un cambiamento nel linguaggio. Termini come “materia vergine”, “materia prima”, “materia prima seconda”, “scarti”, “prodotti e sottoprodotti” presuppongono una scala di valori in cui la materia scende progressivamente di livello degradandosi (da materia vergine a materia prima, da materia prima a materia seconda, e così via). Il concetto di materia rinnovabile fa saltare questa vecchia gerarchia andando anche oltre l’idea di riciclo come singola fase di recupero, quasi un’eccezione che conferma la regola del percorso lineare.
Nella visione “dalla culla alla culla” l’aspetto centrale diventa la trasformazione, un modello efficacemente testato in oltre tre miliardi di anni di evoluzione della vita sul pianeta: dopo l’utilizzo la materia si scompone in parti che rientrano in circolo per tornare a essere quello che erano in origine o per diventare input di altri prodotti e altri sistemi industriali, artigianali, energetici.
Un punto di vista che sarebbe interessante rafforzare creando “Tavole di rinnovabilità” (come la Tavola periodica degli elementi di Mendeleev) che classifichino la diversa capacità dei singoli materiali di rigenerarsi o di essere riutilizzati, in funzione della loro struttura e delle capacità tecnologiche e ambientali al contorno.
Ciò che vogliamo documentare attraverso le idee e le esperienze che la rivista ospiterà è una rivoluzione radicale del modo di pensare il ciclo produttivo. Una rivoluzione che non può più attendere perché nel nuovo millennio il vecchio sistema produttivo ha perso le sue basi materiali. I prezzi delle commodities (le materie prime di base) continuano a crescere e il deficit di disponibilità toglie certezze al sistema produttivo. In Europa la disoccupazione ha raggiunto livelli tali da costituire un serio allarme sociale. La crisi climatica rappresenta una sfida al buon senso, con la comunità scientifica che segnala il grave rischio di catastrofe derivante dall’aumento dei gas serra, le emissioni di CO2 che continuano a salire e il sistema politico che non riesce a trovare una risposta globale.
In questo contesto si aprono nuove possibilità che richiedono anche un ripensamento del rapporto tra globale e locale, dove il rapporto con il territorio assume una importanza sempre più determinante. Mentre fino a oggi poche industrie hanno determinato le regole delle produzioni e della crescita d’ora in poi saranno le aziende più legate al territorio ad avere la possibilità di dimostrare al mondo produttivo quanto può essere efficiente il “pensare sistemico” in ambiti geografici più ristretti. Un approccio che parte dal basso come risposta concreta ai rischi di una globalizzazione ormai fuori controllo economico e ambientale.
Se la cornice finora delineata è ampia e si allarga potenzialmente a ogni settore produttivo e sociale, conviene cominciare a mettere meglio a fuoco i contesti in cui il cambiamento di prospettiva appare più maturo. Possiamo distinguere tre ambiti che presentano caratteristiche differenti ma condividono questa nuova sensibilità e sono strettamente intrecciati (le commodities, i biomateriali, i rifiuti) e il contesto che le accomuna (il territorio).
Le commodities. Le materie prime di base rappresentano il cuore del problema. Il loro flusso traccia l’andamento dell’economia e della distribuzione dei redditi, oggi reso più complesso dalla mondializzazione e finanziarizzazione dei mercati. È uno scenario in continuo mutamento: la recente tendenza a sostituire i prodotti con i servizi (per esempio l’automobile o la fotocopiatrice in uso anziché in proprietà) può trasformarlo radicalmente.
I biomateriali. Si tratta di materiali che provengono dal mondo organico (prodotti agricoli e scarti di filiere organiche) e come tali sono rigenerabili in tempi relativamente brevi, tanto da poter essere definiti rinnovabili. Nel loro insieme costituiscono una miniera inesauribile a basso impatto ambientale che, grazie all’innovazione tecnologica, può divenire fonte di approvvigionamento per una molteplicità di settori industriali creando un’alternativa alle materie prime classiche. Valgano come esempi i biocarburanti, oggi ormai in grado di alimentare perfino gli aerei, o le bioplastiche, utilizzate sempre più largamente in un campo di applicazione che si estende dal packaging alle tecnologie medico chirurgiche.
I rifiuti. Come è divenuto chiaro negli anni più recenti, non sono affatto un prezzo obbligato da pagare al sistema di produzione ma rappresentano piuttosto un deficit di efficienza al quale si sta cercando di porre rimedio. In una fase di crisi economica, il fatto che un rifiuto non sia altro che “una risorsa messa nel posto sbagliato” assume un’evidenza sempre più misurabile in termini monetari. È evidente come l’enorme flusso di materiali che si trasforma in rifiuti non possa essere sprecato e debba essere valorizzato in qualche forma. Ma come? Gli approcci possibili sono molteplici e dipendono dal livello di innovazione nella creazione di un prodotto. Se chi produce, generando inevitabilmente rifiuti, non si occupa dell’uso possibile di quei “rifiuti” allora le operazioni di valorizzazione e recupero degli scarti diventano difficili. Se invece chi genera il prodotto ha immaginato una strategia efficiente per recuperare gli scarti, la quantità di materia sprecata diventa minima, e corrisponde soltanto alla quota di entropia inevitabile in ogni processo di trasformazione. Ci sono quindi già oggi materiali che attraversano la fase “rifiuto” con una perdita minima di valore perché, grazie a trattamenti appropriati, tornano a esprimere le prestazioni che avevano all’inizio del ciclo produttivo. Mentre la maggior parte dei materiali viene recuperata grossolanamente, o inviata in discarica.
Il territorio. Tutti i flussi che abbiamo indicato hanno a che fare con il territorio. Le materie di base, siano esse organiche o inorganiche, vengono attinte dal suolo. I biomateriali e i biocarburanti si basano su colture agricole che inevitabilmente si sostituiscono ad altri impieghi possibili degli stessi territori. I rifiuti impattano sul territorio, o generano emissioni climalteranti che a loro volta incidono sulla qualità e il rendimento del suolo. Per conciliare le diverse strategie industriali occorrono dunque due elementi essenziali. Un approccio sistemico senza il quale si rischia di guadagnare da un lato e di perdere dall’altro, diventando inefficienti. E la capacità di creare interessi comuni, espressione del territorio, che siano capaci di guidare la trasformazione.
Abbiamo ereditato dal dopoguerra una società vitale che oggi è minacciata dall’inquinamento e dall’indebolimento della coesione sociale. Sono problemi che non si risolvono erigendo palizzate difensive per fermare l’innovazione ma costruendo ponti verso un futuro coinvolgente.
Rinnovando energie, materie, relazioni.