Comunque lo si osservi, il criterio stesso di bioraffineria implica innovazione: dalla scelta del luogo di produzione – spesso in aree industriali dismesse – alla tipologia di materia prima, sia essa da filiere dedicate o da utilizzo di residui, dalle tecniche colturali all’impiego di packaging almeno parzialmente rinnovabile. 

Non solo. Tutta la filiera produttiva è sollecitata verso la ricerca costante di nuove soluzioni per ridurre gli sprechi nei processi, per impiegare il materiale in ingresso all’impianto secondo il principio “a cascata” così da estrarre sequenzialmente tutti i possibili composti ad alto valore aggiunto, e solo in ultimo utilizzare i sottoprodotti finali per recuperare energia e calore. 

Ormai ci sono innumerevoli esempi che testimoniano il forte grado di innovazione nelle tecnologie di produzione della chimica verde: frammentazione tramite pretrattamento meccanico o a microonde, frazionamento attraverso trattamenti meccanico-fisici (per esempio steam explosion) o biologici (enzimi), liquefazione tramite idrolisi enzimatica o acida, liquefazione idroterma, catalitica e non, pirolisi lenta (carbonizzazione) o veloce (flash), catalitica e non. Tutte tecnologie sviluppate in tempi relativamente recenti e adattate specificatamente allo sviluppo dell’industria biobased.

L’Italia è tra i paesi più avanzati in questo settore, sia come tecnologie e brevetti, sia come prodotti innovativi e capacità di acquisto intelligente da parte del consumatore. Ma a questo poderoso sviluppo non si accompagna una normazione europea – e soprattutto nazionale – in grado di far crescere il comparto o almeno di non ostacolarlo. 

Occorre riconoscere che in Europa, almeno con le precedenti Commissioni, sono stati fatti molti passi avanti e si è cercato di stimolare gli Stati membri con strategie innovative e progressiste. Purtroppo però l’attuale Commissione ha molto affievolito questa enfasi. Strategie come i “Mercati guida: un’iniziativa per l’Europa” del 2007 o il “Pacchetto clima energia” del 2009 o ancora “Una strategia per una bioeconomia sostenibile per l’Europa” del 2012 sono stati passaggi importantissimi per rimuovere il veto posto allo sviluppo della bioeconomia da molte lobbies legate al passato. 

L’Italia ha avuto un rapidissimo momento magico già nel 2006 quando, grazie a un emendamento dell’allora senatore Francesco Ferrante alla legge Finanziaria 2007 (n. 296/2006), venne approvato il blocco alla commercializzazione dei sacchetti non biodegradabili e non compostabili. Sempre in quegli anni sono nate varie norme di forte incentivazione per le prime filiere di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile distribuita. Si trattò di leggi lungimiranti, promosse con forte determinazione contro molti comparti industriali più obsoleti, ma necessarie per dare il primo impulso a un intero settore che adesso vanta successi e tecnologie estremamente competitive.

Furono fatti errori, ma successivamente fu migliorato il sistema e le cose funzionarono. 

Tra gli errori, il tentativo di decreto bioraffinerie, malfatto e inservibile, che non ha certo fatto bene al settore. Dopo quasi il buio.

Ma adesso a che punto siamo sia in Europa sia in Italia? 

Accenno a una sola tematica, quella dei cosiddetti sottoprodotti, perché la ritengo determinante anche alla luce del nuovo testo della direttiva rifiuti proposto dalla Commissione europea nell’ambito della strategia Ue sull’economia circolare, denominata “l’anello mancante”.

Nonostante la reiterata volontà europea di riduzione e riutilizzo degli scarti alimentari e non, la normativa italiana per la corretta classificazione dei sottoprodotti è molto ambigua, e ciò ha determinato notevoli difficoltà a parecchie filiere produttive, provocando, in non pochi casi, anche eclatanti risvolti giudiziari a carico di imprenditori agricoli. 

La definizione di sottoprodotto compare per la prima volta in termini di diritto positivo nell’articolo 5 della nuova direttiva 2008/98/CE. In sintesi, una sostanza per definirsi sottoprodotto deve provenire regolarmente da un processo di produzione del quale però non sia il prodotto primario; deve essere certo il suo riutilizzo; non deve subire alcun “trattamento diverso dalla normale pratica industriale”; e – infine – il suo uso non deve arrecare alcun danno all’ambiente o all’uomo.

L’aspetto più controverso in questa definizione è proprio il principio di “normale pratica industriale”, sul quale vi sono molte interpretazioni in conflitto tra loro. A seconda dell’interpretazione dominante, cambia la classificazione di ciò che è sottoprodotto e di ciò che non lo è. 

Secondo la maggioranza dei giuristi, i trattamenti della “normale pratica industriale” possono definirsi come il complesso di operazioni o fasi produttive che caratterizza un dato ciclo di produzione di beni in base a una “prassi consolidata” nel settore specifico di riferimento. Tali operazioni non devono incidere sull’identità e sulle qualità merceologiche e ambientali del sottoprodotto, qualità che sussistono, per definizione, sin dal momento della sua produzione (e dunque in una fase precedente). Siamo quindi all’interno di un bel ginepraio.

Negli ultimi anni il ministero dell’Ambiente ha cercato di elaborare due proposte di decreto, nate sotto diversi governi – una pare sia in sosta alla Presidenza del Consiglio – per agevolare il settore imprenditoriale nell’utilizzo dei sottoprodotti. Ma nessuna delle due è intesa a recepire l’importanza del concetto di innovazione, connaturato al criterio di bioraffineria. La normale pratica industriale, di cui tratta la giurisprudenza, riconosce solo la pratica ordinariamente in uso nello stabilimento che utilizzerà il sottoprodotto e le operazioni consentite non possono che identificarsi con quelle che l’impresa normalmente attua sulla materia prima tradizionale. Addirittura vi sono interpretazioni più restrittive secondo le quali ogni eventuale trattamento consentito del residuo non deve mai comportare una trasformazione della sostanza o dell’oggetto. 

Purtroppo anche il nuovo pacchetto di misure sull’economia circolare proposto dalla Commissione europea e pubblicato a dicembre 2015 non rileva questo problema, nonostante la strategia comunitaria sia “incentrata sulla promozione della economia circolare tecnologicamente avanzata e in grado di utilizzare le risorse in modo efficiente”. Anzi lo aggrava perché rimuove l’intervento degli Stati membri, i quali non avranno più la possibilità di “adottare misure per stabilire i criteri da soddisfare affinché sostanze od oggetti specifici siano considerati sottoprodotti e non rifiuti” che è stato lo strumento legale attraverso il quale il ministero dell’Ambiente si è mosso nel suo tentativo. In pratica la Commissione revoca a sé tutti i provvedimenti.

Questa miopia legislativa si scontra frontalmente con il concetto di riutilizzo di uno scarto, con il criterio innovativo dell’uso “a cascata”, con tutte quelle tecnologie utilizzate per l’estrazione delle molecole ad alto valore aggiunto che non hanno niente della normale pratica industriale e che spesso sono il recentissimo frutto di lunghi e costosi progetti di ricerca e sviluppo. Dopo un trattamento con queste nuove tecnologie i sottoprodotti all’interno di una bioraffineria sono pronti per essere sequenzialmente utilizzati in altri impianti collegati tra loro e organizzati in “simbiosi industriale” per essere trasformati in un ampio spettro di bioprodotti. 

Ora, alla luce della norma, ogni residuo che deriva da un processo di lavorazione potrebbe essere potenzialmente un rifiuto, dato che certamente subirà dei trattamenti non riferibili alla normale pratica industriale. Con tutto ciò che un rifiuto comporta per gli adempimenti burocratici, i costi e le fortissime restrizioni al suo impiego. 

 

 

Immagine in alto: illustrazione di Michela Lazzaroni