Viviamo in anni di forte evoluzione, grandi trasformazioni e con un mercato del lavoro che cambia a ritmi importanti, ma la crescita economica resta piuttosto lenta. Una situazione inedita, che per Daniel Gros – economista tedesco e direttore del Centre for European Policy Studies (Ceps) – “nessuno ha ancora spiegato in modo convincente, bisogna ammetterlo”. Gros segue da anni lo sviluppo dei mercati europei, dell’euro-area, del mondo del lavoro in Europa e non solo.

Come mai il grande sviluppo di questi anni non va di pari passo con la crescita economica e con l’occupazione?

“Ci sono diverse teorie, nessuna però ancora definitiva. Alcuni dicono che gli investimenti in nuove tecnologie non portano risultati tangibili nel breve periodo: sarebbero invece le basi per una crescita economica più veloce e incisiva nel futuro. E c’è chi dice che parte della nostra crescita economica consiste in attività che sono competitive, certo, ma che poi si annullano a vicenda. Le faccio un esempio. Prendiamo la pubblicità: qualcuno vende di più e quindi qualcun altro di meno, dov’è dunque l’aumento di produttività?”

È il rapporto domanda-offerta. L’economia comunque non va, eppure vediamo progressi tecnologici costanti.

“Questo è il problema dei nostri tempi, non c’è dubbio. Misuriamo peraltro il prodotto interno lordo con elementi che non danno valore aggiunto. Va detto però che nel settore manifatturiero la crescita della produttività prosegue, mentre è nei servizi – oggi in netta espansione – che è difficile misurare questo valore aggiunto.”

Il mondo del lavoro intanto sta cambiando a ritmi frenetici.

“Assolutamente. Mi lasci dire una cosa: in Italia e in Grecia la disoccupazione è il problema maggiore e si pensa che sia crescente dappertutto, ma non è così. Nel mondo dell’economia sviluppata, nella zona euro e negli Stati Uniti, il tasso di occupazione è a livelli record, il tasso di partecipazione al mondo del lavoro aumenta da 20 anni. Quindi nel mondo, a oggi, la disoccupazione è sempre meno importante. È un problema piuttosto italiano e greco, e riguarda le economie che funzionano male, perché i mercati del lavoro in questi paesi sono ingessati.”

Non esistono però mercati del lavoro senza problemi. Quali sono le problematiche dei paesi industrializzati?

“Certamente non esistono mercati senza difetti, ma il problema non è a la disoccupazione di massa. È piuttosto come trovare un metodo per determinare i salari. Il vecchio modello che contrappone i capitalisti ai lavoratori riuniti in sindacati non esiste più. Andava bene per le vecchie fabbriche, come per la Fiat di Torino, ma oggi non funziona. È ormai chiaro a tutti. È dunque sempre più difficile, in questo nuovo mondo del lavoro, trovare un giusto metodo per determinare stipendi e salari. Ecco il problema di fondo oggi.”

Ci sono poi la robotizzazione e la digitalizzazione che incombono. Crede che possano avere un effetto devastante sul mondo del lavoro?

“Sicuramente ci sarà un effetto, ma molto graduale. È chiaro che ci sarà una parte del mondo del lavoro che soffrirà questa ondata e si perderanno molti posti. Ma nel mondo fisico, lasciando per un attimo da parte le app e le nuove tecnologie che mutano alla velocità della luce, il progresso è sempre più graduale e non così immediato. I robot possono fare molte cose, ma ci vogliono anni per svilupparli e ancora altri anni per insegnargli nuovi compiti. Insomma, l’impatto ci sarà, ma arriverà passo dopo passo.”

È possibile che i robot cancellino milioni di posti di lavoro, anche quelli di chi è super-specializzato?

“Questo è il problema politicamente più importante, non c’è dubbio. Ma la situazione al tempo stesso è del tutto imprevedibile. Tutti si sentiranno incerti, impauriti dalla possibilità di perdere il lavoro anche se ciò avverrà in modo graduale e per fasi. Su alcune professioni ci sarà un effetto più dirompente, anche a breve. Quali mestieri? Difficile da prevedere. L’intelligenza artificiale comunque ha lati anche molto positivi, non va dimenticato: ci rende più competitivi e forti.”

Lei ha detto che il tasso di occupazione nel mondo industrializzato è in crescita. Per il futuro ci sono segnali che fanno pensare a un ulteriore sviluppo o a un rallentamento?

“Credo che il tasso di occupazione continuerà a crescere, così come sta avvenendo in Italia, anche se a ritmi ben più bassi della media europea. Le cause di questa crescita sono molto semplici: nelle fasce di età tra i 50 e i 65 anni c’è uno scarto molto grande tra i livelli di istruzione. Tra lavoratori cioè anziani con un tasso di istruzione bassissimo e un altrettanto basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro; mentre chi ha un livello di istruzione più alto, ha anche un tasso ben più alto di occupazione. E dato che la nuova generazione europea ha un alto tasso di istruzione, maggiore di quello dei genitori, progressivamente cambia la natura della nostra manodopera, aumentando così la propensione a lavorare e a partecipare al mercato del lavoro.”

Esiste però una fetta di lavoratori che viene considerata un “rifiuto”. Si tratta di persone non più pronte a un mercato del lavoro dinamico, poco specializzate, che faticano a trovare una nuova occupazione. Come affrontare questa situazione?

“Credo che tra dieci anni gli esodati saranno sempre meno. Rimarrà lo stock di oggi, ma la quota non aumenterà. La soluzione credo sia quella adottata in Germania dove c’era lo stesso identico problema che oggi interessa molti paesi. Bisogna incoraggiare le persone, attraverso l’intervento dello Stato, ad accettare anche lavori molto mal pagati, integrando il salario con finanziamenti pubblici, per arrivare così a un livello minimo di stipendio.”

Finora abbiamo parlato dei paesi industrializzati. Qual è la situazione invece in quelli meno industrializzati?

“Anche lì vedo un certo progresso, basti pensare all’India. Questo sviluppo però c’è soltanto nei paesi che non vivono di materie prime, contrariamente agli Stati africani. Progredisce chi non vive di materie prime: le situazioni sono le più diverse, ma in media si può dire che questi paesi fanno importanti passi in avanti.”

Torniamo all’Europa. Come cambierà il welfare negli anni futuri?

“Sarà sempre più individualizzato. Le carriere si stanno frazionando e non ci saranno più persone che hanno alle spalle lo stesso lavoro da 40 anni. In questo modo però diventerà sempre più difficile gestire il sistema, che sarà pieno di eccezioni e regole diverse. E qui arriviamo a un punto molto importante: per gestire un sistema così complesso e frazionato serve un apparato governativo e amministrativo efficace. I paesi che non hanno queste qualità sono un problema. È il caso dell’Italia che – in percentuale di Pil – spende per la sicurezza sociale quanto la Svezia con risultati però nettamente peggiori e un tasso di povertà più alto. Dunque, più si va verso un sistema frazionato e più diventano importanti non tanto le leggi che si fanno in Parlamento, ma il modo in cui viene applicato il sistema. Questo è un discorso che per i populisti in Europa vale zero, ma è fondamentale.”

In merito al mercato del lavoro e alla spesa sociale, un ruolo storicamente cruciale lo hanno sempre avuto i sindacati. In questo mondo in continua evoluzione sembra però che siano rimasti fermi. È così?

“Non esiste più il vecchio modello che dicevo prima, di capitalisti contro operai organizzati. I sindacati quindi hanno perso dappertutto la loro importanza. C’è stato forse un rinascimento in alcuni paesi europei per il settore pubblico, ma ora la situazione lavorativa si sta frazionando anche lì. I sindacati per come li conosciamo non hanno alcun futuro, devono evolversi anch’essi. Non sarà però facile.”

Guardiamo all’economia europea e al mondo del lavoro in Europa. Cosa crede che occorra per avere una crescita sempre più incisiva?

“Ho la netta sensazione che ci sia una visione troppo pessimistica rispetto all’Europa nel suo insieme. L’impressione che il Vecchio Continente cresca poco deriva semplicemente dalla sua demografia. Se guardiamo all’evoluzione della popolazione lavorativa, la crescita del reddito pro capite è uguale a quella degli Stati Uniti. Non bisogna disperare, i numeri non mostrano una realtà così negativa.”

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Foto di Daniel Gros: www.ceps.eu