L’etimologia di “giardino” (gan) che in ebraico è la stessa di “conservare” o “proteggere” (le-hagen). Il passaggio del Deuteronomio (20:19-20) in cui si prescrive il divieto di distruggere gli alberi da frutto persino quando ci si trova in guerra e si assedia una città. La richiesta (Numeri 35:2-5) di lasciare attorno alla città una striscia di territorio della larghezza di mille cubiti dove non sono permesse né case né coltivazioni perché serve “per la bellezza della città”, come spiega il rabbino italiano Ovadià da Bertinoro (Bertinoro, 1455 – Gerusalemme, 1516). E l’invito (Qohelet Rabbà 7) a non fare danni irreparabili: “Quando l’Onnipotente creò Adamo lo condusse a fare un giro nel giardino dell’Eden. Gli disse: ‘Guarda le mie opere, quanto sono belle, meravigliose! Le ho fatte tutte per voi. State bene attenti a non spogliare e distruggere il mio mondo, perché se lo farete nessuno potrà porvi rimedio”.

Sono tracce per esplorare la strada della sensibilità ambientale nel mondo ebraico. Tutte e tre le religioni monoteiste (come abbiamo visto nei servizi pubblicati sui numeri 4, 6/7 e 10 di Materia Rinnovabile) hanno in comune l’aspirazione alla cura del creato. Ma questa indicazione ha dovuto fare i conti con una storia travagliata e con interpretazioni che spesso hanno finito per spingere l’umanità in direzione opposta.

Sull’onda dell’allarme prodotto dalle dimensioni bibliche che rischia oggi di assumere il cambiamento climatico, il mondo religioso è percorso da un fermento di preoccupazioni ambientali che però si esprimono in modo diverso in base alle tradizioni delle singole comunità e alle modalità organizzative che ogni religione ha scelto. Con la Laudato si’ il papa ha dato su questo tema un segnale di inedita forza facendo anche riferimento alla necessità di superare concretamente il problema rilanciando l’uso delle fonti rinnovabili e il recupero della materia, in contrapposizione alla logica dello spreco. Il mondo musulmano è segnato da spinte contraddittorie nei confronti della modernità e dunque dell’impegno alla soluzione dei nodi ambientali.

Qual è la sensibilità dell’ebraismo davanti all’attualizzarsi di rischi che nessun testo antico poteva prevedere e che quindi vanno giudicati interpretando in chiave contemporanea gli insegnamenti? Circa un terzo dei precetti religiosi ebraici è riconducibile a indicazioni sulla tutela della salute e dell’ambiente, ma come vengono attualizzati? Il rabbino Gianfranco Di Segni indica elementi che possono fornire chiavi di interpretazione. Per esempio il rapporto con il cibo: “L’umanità in origine era vegetariana, nell’era messianica tornerà a esserlo e in ogni caso l’alimentazione va organizzata senza procurare sofferenza agli animali. Inoltre nel Talmud si precisano le distanze a cui vanno tenute, rispetto alle abitazioni, le attività a maggior impatto ambientale sotto il profilo dell’inquinamento o del rumore. Sono tutti segnali, assieme al grande rispetto per gli alberi, che rivelano un’attenzione antica a questi temi che oggi è più che mai d’attualità”.

Attenzione antica con riferimento ad aspetti puntuali, problemi nuovi che riguardano aspetti globali. Come si fa a colmare questa distanza? “Non è facile rispondere per due motivi. Il primo è che ‘come risolvere il problema climatico’ non è una delle questioni su cui l’ebraismo è più concentrato”, risponde Jeremy Benstein. “Il secondo è che ci sono 16 milioni di ebrei, moltissime comunità e opinioni contrastanti sui principali temi d’attualità: è complicato dire cosa pensa il mondo ebraico inteso come assieme. Posso ricordare per esempio che a Filadelfia c’è un gruppo molto impegnato sui temi ambientali, ma potrei citarne altri che la pensano diversamente. In sintesi, comunque, direi che non si fa abbastanza”.

Esiste un punto di riferimento teorico a cui agganciare il rilancio dell’attenzione? “Il concetto di stewardship, citato anche da Lynn White in The Historical Roots of Our Ecological Crisis”, continua Benstein. “È l’idea di una leadership che si conquista mettendosi al servizio degli altri. Si tratta di partire dai beni condivisi per costruire strategie di gestione nell’interesse comune. Non siamo di fronte a un gioco a somma zero in cui ciò che qualcuno guadagna è qualcun altro a perderlo. È piuttosto una prospettiva win-win in cui solo tutti assieme possiamo vincere”.

Eppure il luogo in cui lei vive sembra rispondere a una logica opposta: il conflitto arabo israeliano è alimentato anche dalle tensioni per il controllo delle risorse ambientali, a cominciare dall’acqua. “Io credo che esista una responsabilità individuale e vada perseguito l’obiettivo della giustizia ambientale. Se i palestinesi soffrono per la mancanza di acqua non può esserci pace né sostenibilità in tutta la regione. E questa è un’indicazione che ricavo dalla Bibbia: abbiamo da poco festeggiato la Pasqua che è la liberazione dalla schiavitù. Chi è fuggito dalla schiavitù in Egitto non può che essere contrario a ogni forma di schiavitù: è la radice della richiesta di una giustizia ambientale e sociale”.

 

 

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Lynn White, “The Historical Roots of Our Ecologic Crisis”, Science  10 marzo 1967, v. 155, n. 3767, pp. 1203-1207; doi: 10.1126/science.155.3767.1203