Gunter Pauli, imprenditore, economista, ecologista, inventore della Blue Economy, tra i promotori del Protocollo di Kyoto, è molto critico sulla Cop21: ha soluzioni, studiate in venti anni con la propria fondazione Zeri (Zero Emissions Research Initiative) che vanno oltre gli accordi internazionali sul clima e che puntano a risolvere anche i problemi sociali, oltre a quelli ambientali. Lo abbiamo incontrato a Milano, pochi giorni dopo la conclusione della Cop21 di Parigi.
La Cop21 di Parigi sul clima è finita da pochi giorni. Cosa pensa dell’accordo?
“Ho deciso di non andare alla Cop21. Per due motivi. Il primo è che sono convinto che la Camera e il Senato degli Usa non ratificheranno l’accordo fatto da Obama, mentre il secondo è che io partecipai ai lavori della Cop3 – quella dove si decise il Protocollo di Kyoto – e ricordo che noi tutti sapevamo che nella versione originale dell’accordo c’era un gruppo di nazioni molto forte, come l’Europa e il Giappone, che volevano davvero andare avanti nella difesa del clima. Nella Cop21 si è cercato il consenso ancora prima di cominciare e così si è annacquato tutto. Quando ho visto i documenti preparatori ho capito che Cop21 poteva essere solo un appuntamento dove incontrare delle persone interessanti, ma niente altro. Il primo appuntamento per la verifica sarà tra quattro anni, ma non possiamo attendere tutto questo tempo. In definitiva la Cop21 di Parigi è stato un appuntamento che sancisce la fine dei negoziati globali sul clima. È la fine del processo iniziato a Rio nel 1992 ed è una buona chiusura perché ora si può iniziare a fare sul serio.”
Fare sul serio come, in che maniera?
“Dobbiamo agire in maniera reale a livello locale, nelle città, con i cittadini e le comunità. Non dobbiamo aspettare ma puntare più in alto rispetto agli accordi internazionali che hanno fallito. Abbiamo oltre 50 accordi internazionali per la protezione dell’ambiente e l’ambiente non è mai stato così in cattive condizioni come oggi. Non si deve perdere altro tempo con il modello degli accordi globali, ma ci si deve attivare ora. Penso che una delle cose migliori successa durante la Cop21 sia stata l’invito che Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, ha rivolto a migliaia di sindaci di tutto il mondo per discutere su cosa sia possibile fare circa i cambiamenti climatici. E loro possono fare molto di più rispetto a qualsiasi governo nazionale perché i sindaci decidono come agire nelle città.”
Quali sono gli strumenti che possiamo usare per avviare un processo dal basso?
“Il cambiamento più importante riguarda il modello di business. Se continuiamo con la globalizzazione, aumentando il commercio internazionale su scala globale, incrementeremo le emissioni climalteranti. Dobbiamo lavorare con le economie locali cogliendo le opportunità dei territori: se non cambiamo il modello di business non combatteremo i cambiamenti climatici e non risponderemo ai bisogni dei cittadini a livello locale. Non ha senso utilizzare merci che provengono dall’altro capo del mondo, quando si possono produrre vicino a noi.”
Lei sostiene che la lotta ai cambiamenti climatici, senza una direzione chiara, può avere effetti catastrofici. Perché pensa questo e quali sono gli strumenti che abbiamo ora dopo la Cop21?
“Una delle sfide che abbiamo di fronte riguarda il fatto che l’accordo di Parigi non ha strumenti da utilizzare, non possiede obblighi, né adempimenti da rispettare. Nulla. Quindi ora non abbiamo nessuno strumento per forzare chiunque in direzione della tutela del clima. Ci aspettiamo che le persone diventino green, ma dovremmo attendere almeno 25 anni perché lo diventino sul serio? E nel frattempo cosa succede? L’unica maniera per spingere le persone a muoversi ora è, come dicevo, progettare e implementare modelli di business profondamente diversi da quelli attuali.”
Come per esempio?
“Prendiamo il fotovoltaico. Tutti sappiamo che alla fine l’energia solare sarà meno costosa di quella fossile, ma il calo dei prezzi è troppo lento e dobbiamo accelerarlo. Si tratta di un processo che necessita un altro tipo d’approccio e che non è possibile con gli strumenti che si imparano nei master di business administration, con i quali ci si focalizza su una cosa sola per volta, come la CO2, l’acqua, l’elettricità o le auto. Se ci si occupa solo di un aspetto produttivo non è possibile uscire dalla ‘trappola’ dell’inquinamento e delle emissioni climalteranti. Abbiamo bisogno di lavorare come opera la natura. Dobbiamo trasformare tutti i modelli di business in ecosistemi che sono molto più efficienti di quanto pensiamo. Anzi lo sono più di qualsiasi sistema pensato dagli ingegneri e dai manager. Secondo me la principale questione è il cambiamento del modello di business.”
E in che maniera possiamo realizzarlo?
“Prima di tutto dobbiamo rispondere ai bisogni locali con soluzioni locali, quando è possibile. È necessario creare sviluppo economico non grazie alle esportazioni, ma agendo sulle necessità locali. Negli Usa, per esempio, il 25% dei bambini nascono in povertà. Non è accettabile che nella nazione più ricca del pianeta un quarto dei nuovi nati sia povero fin dall’inizio della propria esistenza. Oggi possiamo vedere in maniera chiara i limiti delle risorse e come stiamo moltiplicando gli effetti di ciò nelle economie locali. Far arrivare il salmone dal Cile, le mele dal Sudafrica o i computer dalla Cina, per interessi economici, significa deprimere i territori, mentre dovremmo dare sicurezza alle persone più povere, sviluppando questi territori. La natura lo fa da sempre. Gli ecosistemi rispondono ai bisogni locali con le risorse locali. Dobbiamo imparare a vivere con dei limiti, il che non significa tornare al medioevo all’età della pietra e vivere in povertà.”
Bene, ma in concreto abbiamo delle soluzioni realizzabili oggi?
“Sì. Prendiamo, per esempio, una tazzina di caffè, prodotto commercializzato a livello globale, come molti altri. Quando beviamo un caffè ne consumiamo solo lo 0,2% e il residuo – cioè il 99,8% del prodotto – non dovrebbe essere buttato via perché è una risorsa. Il caffè utilizzato può essere impiegato come concime nella coltivazione dei funghi e gli scarti di questa coltivazione possono diventare, a loro volta, proteine per l’alimentazione dei polli. In questa maniera abbiamo tre prodotti anziché uno solo e, visto che la produzione mondiale di caffè è di dieci milioni di tonnellate, otterremmo il triplo di prodotti. Ma per fare ciò non si deve ‘chiudere’ il caffè nelle capsule d’alluminio, come avviene ora con il commercio globale, ma incapsularlo nelle bioplastiche basate sul cardo che si possono produrre a livello locale e consentono il riutilizzo del caffè. Questo è un modo nel quale si sviluppa anche l’economia locale dando reddito alle persone che vivono nei territori. Oggi invece abbiamo abbracciato la logica opposta, esternalizzando tutti i costi ambientali e utilizzando solo il commercio internazionale.”
Quindi l’Europa che pensa d’uscire dalla crisi puntando sulle esportazioni sbaglia?
“La Germania, per esempio, dipende dall’esportazione e per questo motivo è tra i primi dieci paesi del mondo in termini di occupazione. Ma nelle altre nazioni non si genera lavoro e aumenta la povertà: questa è una trappola perché così l’occupazione cresce solo in dieci paesi e aumenta l’emigrazione. Questa dinamica si nota anche in Italia, dove i territori periferici, come le isole perdono abitanti da oltre 25 anni, perché le persone non vedono un futuro in questi luoghi. È necessario trovare un bilanciamento tra il commercio e la risposta ai bisogni locali. L’Italia è un caso interessante perché è una delle poche nazioni che ha fatto dei passi concreti nella bioeconomia. E una delle cose che dobbiamo fare è proprio riconnettere l’agricoltura con l’industria. Oggi si pensa che l’agricoltura sia il passato e che il lavoro in questo settore non produca sviluppo economico. Non è vero. Basta osservare i settori della produzione alimentare e della realizzazione delle macchine per questa attività. Occorre integrare il settore industriale primario e quello secondario, producendo valore nelle nostre economie. Ma bisogna considerare che la crescita non è fatta di numeri assoluti, anzi, oggi abbiamo perso la cognizione dell’aumento del valore complessivo perché la globalizzazione e il commercio internazionale ci spingono a pensare solo al taglio dei costi. Per questa ragione la maggior parte delle aziende italiane produce oltre oceano. La domanda è: quanti dei vantaggi della produzione agricola, dalla pesca, dall’attività mineraria, possiamo far ricadere sulla produzione dei beni a livello locale?”
Nuovo bilanciamento, per nuovi vantaggi. Ma su che scala, visto che quella globale ha dei limiti?
“Anche il livello nazionale non funziona. Bisogna puntare sul modello e sull’identità regionale come ha fatto l’Unione europea. Penso che quando si scommette sull’identità regionale si può far crescere l’economia locale in maniera più forte rispetto al fatto di puntare sull’economia globalizzata. Anche se ci sono delle contraddizioni, basta pensare all’acqua. Sulle risorse idriche abbiamo investito miliardi di euro in infrastrutture a livello locale, ma compriamo l’acqua in bottiglie di plastica, realizzate con il petrolio e commercializzate dalle marche internazionali a un prezzo cinquanta volte maggiore. Sviluppare economie di questo tipo è una cosa senza senso. L’esperienza che abbiamo fatto con la fondazione Zeri in diverse parti del mondo è che un’economia diversa non solo è possibile, ma è anche l’unica via per avere la piena occupazione. Oggi ci si sorprende quando si parla di piena occupazione e la maggioranza dei politici dice che è irrealizzabile, però se si pensa che non sia possibile in partenza è ovvio che l’obiettivo non si raggiungerà mai e si accetteranno percentuali come il 10, il 15 o il 20% di disoccupazione. È sufficiente vedere cosa succede in Spagna, dove hanno creduto che con l’economia globale si potesse dimezzare la disoccupazione e oggi hanno il 25% dei giovani che non hanno mai avuto un lavoro in tutta la loro vita. Che tipo di società si realizza quando si danno come priorità la competitività globale e il commercio internazionale? Quando le persone mi dicono che non hanno nulla e quindi non possono fare nulla, io rispondo: ‘guardate ancora’.”
Siamo abituati all’alta intensità energetica. Come possiamo pensare di continuare ad avere sufficiente benessere con una minore intensità energetica?
“Diamo per scontata l’alta intensità energetica e il fatto d’averne bisogno. Un esempio. All’industria serve energia per produrre aria compressa, ma la pompa dell’aria più efficiente del pianeta è la balena che è in grado di comprimere centinaia di litri d’aria con sei volt d’elettricità e senza manutenzione per 80 anni. Chi è quell’ingegnere che oggi può raggiungere l’efficienza della balena? Questo è ciò che dobbiamo realizzare. Noi pensiamo in maniera inefficiente e siamo molto lontani da ciò che fanno le altre specie. Pompando l’aria come fanno le balene potremmo risparmiare il 90% dell’energia impiegata nell’operazione. E non si tratta di una cosa da poco visto che la compressione d’aria rappresenta il 10% dei consumi industriali. Quindi possiamo passare dal 10 all’1% imparando dalle balene, risparmiando energia e costi. Noi crediamo d’essere efficienti solo quando non facciamo una comparazione dei nostri standard d’efficienza con quelli della natura. Penso che abbiamo creato il bisogno di un’elevata intensità energetica perché abbiamo accettato come usuale una progettazione energeticamente inefficiente.”
“Whales” di Simon Child, the Noun Project
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Bene le balene e i processi industriali. Ma nel quotidiano?
“La casa ha delle enormi possibilità. L’80% di tutto ciò che usiamo nelle nostre abitazioni oggi è alimentato da corrente continua, ma utilizziamo la corrente alternata a 220 volt. Questo perché vogliamo produrre elettricità in maniera centralizzata trasmettendola per lunghe distanze, tutto ciò è molto inefficiente. Prendiamo, per esempio, il caso dei led alimentati dai pannelli fotovoltaici. Il fotovoltaico genera corrente continua che viene convertita in alternata e riconvertita in continua per alimentare i led. Una doppia conversione che è un doppio spreco. Nelle nostre case non abbiamo piccole reti in corrente continua per cui perdiamo il 20-30% dell’elettricità nelle conversioni. Si tratta di una cosa senza senso quando si hanno pannelli fotovoltaici sul tetto.”
Come possiamo diffondere queste idee, questa visione alle imprese e convincerle?
“Occorre coinvolgere i leader di mercato. In Olanda, per esempio, la seconda compagnia distributrice d’elettricità, la Eneco, ha deciso di promuovere la fornitura di corrente continua nelle nuove aree urbane. E le città sono molto interessate a usare nel migliore modo possibile la propria elettricità, a loro non importa trasportarne una grande quantità per lunghe distanze. Alle città preme avere elettricità al prezzo più basso, in maniera stabile e magari da fonti rinnovabili. Anche le grandi aziende di elettrodomestici stanno guardando con interesse alla corrente continua e hanno ingegneri specializzati in corrente continua che studiano come usarla e abbandonare la corrente alternata. Poi è necessario sviluppare la domanda da parte dei consumatori per incoraggiare questa transizione. I centri urbani, per esempio, possono promuovere l’utilizzo di sistemi a led senza inverter e trasformatori, imponendo rapidamente questi nuovi standard per incrementare l’efficienza. Ma manca una connessione: la maggior parte degli studenti d’ingegneria non impara quasi nulla sulla corrente continua e i suoi vantaggi. Se non stimoliamo e formiamo in questa direzione le menti della prossima generazione di creativi potremmo perdere questa e altre sfide.”
Per finire. Lei ha sei bambini: c’è qualcosa che si può fare, oltre a ciò che mi ha già detto, per le generazioni future?
“Penso che come padre la più grande responsabilità che ho non è quella d’insegnare cose ai miei figli, ma quella di ispirarli. Noi dobbiamo stimolare i bambini con idee che oggi non sono in televisione, che non sono pubblicizzate. Siamo diventati esperti nel diffondere, anche ai nostri figli, solo cattive notizie, come l’estinzione di molte specie, la distruzione di intere foreste alle quali ora si aggiungono quelle sull’economia, sul lavoro. L’urgenza verso la prossima generazione è quella di raccontare le cose incredibili che sono possibili e che la nostra generazione non ha fatto. Dobbiamo dedicare ogni giorno tre minuti a ispirare i bambini, per narrare storie, per condividere. Credo che questo mondo possa andare nella direzione giusta se noi ci lasciamo alle spalle i politici internazionali, i banchieri, i trader di Borsa. E iniziamo a ispirare i nostri bambini.”