Economia circolare 2.0. Potremmo definire così la nuova fase dell’economia sostenibile dove si analizzano le dinamiche delle filiere industriali che producono rifiuti, quelle dei processi che possono riutilizzarli come materie prime seconde “inventandone” gli stadi intermedi. Il tutto condito da un’estrema attenzione verso i bilanciamenti economici dei processi che devono consentire di stare “sul mercato”, pena il non utilizzo delle metodologie messe a punto appositamente. Si tratta di un lavoro da certosino, alla continua ricerca di quell’equilibrio che, fino a qualche anno fa, sembrava impossibile mantenere. La qualità del riciclo è un punto cardine dell’economia circolare dal quale dipende in gran parte il suo sviluppo. Il suo miglioramento sarà frutto d’innovazioni tecnologiche, ma anche e soprattutto sociali nel breve periodo, perché nei prossimi anni ci si aspetta un’impennata nella richiesta di materia riciclata. In Italia, l’aggiornamento del Codice degli Appalti impone, all’interno delle forniture legate agli appalti pubblici, una sempre maggior percentuale di materiale riciclato. Novità nata dalla formulazione più puntuale del Green public procurement (Gpp), come volano dell’economia circolare.
Riconoscere la qualità
In questo nostro viaggio alla scoperta della qualità del riciclo partiamo dalla fine dei processi. Ossia dall’etichetta ambientale, messa punto da ReMade in Italy con la quale si certifica la percentuale di materia proveniente dal riciclo che si trova all’interno di un “ri-prodotto”.
“Il tema della qualità del riciclo e dei ri-prodotti è strettamente legato a quello della tracciabilità: nelle raccolte, nelle gestioni a livello di filiera, nella produzione di MPS e di ri-prodotti. E non finisce nemmeno qui” ci dice Simona Faccioli, direttrice di ReMade in Italy. “Oggi si è in una nuova fase, nella quale l’utilizzo di materiale da riciclo è un valore qualificante per il prodotto, mentre fino a qualche anno fa le aziende nascondevano l’impiego di materiale da riciclo perché lo consideravano un fattore non premiante in termini di mercato.” Tracciare i processi permette di far risaltare ed evidenziare le eccellenze: “In Italia abbiamo dei casi eclatanti in questo senso: oltre agli ottimi e noti risultati degli imballaggi, abbiamo aziende che innovano davvero, come nel settore della rigenerazione degli oli esausti: questo rifiuto, tra i più inquinanti, diventa nuovo prodotto con pari se non migliore performance invece di essere smaltito con impatti devastanti per l’ambiente. Oppure pensiamo al settore dei materiali da costruzione, al recupero, con processi innovativi, delle scorie e delle ceneri, all’utilizzo di materiali che arrivano degli pneumatici, dai Raee”.
È una questione di tracce, di tenere memoria del flusso dei materiali e della loro gestione. Il fatto che alla base di tutto ciò ci sia la normativa sui rifiuti che impone una complessa serie di obblighi facilita il processo di certificazione poiché si tratta di mettere tutto in ordine, secondo lo schema di tracciabilità ReMade in Italy. “Una volta acquisite le informazioni sulla provenienza dei rifiuti e sul processo, con i bilanci sui flussi e il bilancio di massa finale si può affermare in maniera incontrovertibile che un dato prodotto contiene quella esatta percentuale di materiale da riciclo, nonché da dove arriva e quale percorso ha fatto” – conclude Faccioli. E che a dirlo sia un ente di certificazione terzo, indipendente e accreditato, rende questa certificazione uno strumento richiesto nelle “gare Gpp”. Un trend in crescita e che lo sarà ancora di più quando il GPP sarà arrivato a una diffusione capillare nelle pubbliche amministrazioni. Ci si augura in tempi brevi.
Filiere d’eccellenza
Dopo l’etichetta vediamo in concreto cosa succede sul campo. Per farlo andiamo in Veneto, e per la precisione dal Gruppo Veritas, la maggiore multiutility del settore che si occupa della gestione dei rifiuti e delle risorse idriche. Il Gruppo può vantare punte d’eccellenza nella raccolta differenziata: i primi cinque comuni, tra i 45 serviti dalla multiutility sul fronte dei rifiuti, oscillano su percentuali di raccolta comprese tra l’87,03% di Fossalta di Piave all’80,43% di Scorzè. Questo in un territorio – la provincia di Venezia – dove a fronte di 900.000 abitanti si registrano ben 42 milioni i turisti (circa i 2/3 di quelli che complessivamente visitano la regione), in costante crescita negli ultimi 10 anni. Tale sviluppo ha un forte impatto in molti settori e anche nella gestione della raccolta differenziata che comunque nella provincia di Venezia ha raggiunto il 61,5% nel 2014, il 63% nel 2015 e il 64,52 % nel 2016. Da qualche tempo, il Gruppo si è posto il problema della qualità della materia rigenerata dal riciclo ed è stato tra i primi a porsi quello della certificazione della filiera/piattaforma cosa. Il che, se da un lato ha consentito una maggiore certezza sul materiale in uscita, dall’altro ha permesso di “tarare” al meglio il processo di riciclo. È ciò che sta succedendo per il secco la cui tracciabilità è, secondo la multiutility, fondamentale. “Tutto il nostro secco non va in discarica, ma viene trasformato in Css (Combustibile solido secondario)” dice Giuliana Da Villa, responsabile della qualità e ambiente di Veritas. “Abbiamo tracciato i flussi di materia del rifiuto indifferenziato dai quali emerge chiaramente quante siano le sostanze ulteriormente recuperabili e che pertanto possono essere reintrodotte nel circuito del riciclo”. Tracciare questo ciclo, per Veritas, significa migliorare le prestazioni ambientali del riciclo in generale recuperando materia utile e non solo. Lo studio è servito per determinare quanto c’è di recuperabile nel rifiuto secco e, attraverso una serie di dettagliate analisi merceologiche, si è arrivati a capire quanto materiale utile sarebbe possibile recuperare se tutti i cittadini fossero corretti e virtuosi nel conferimento dei rifiuti nella raccolta differenziata. Un sistema che consente di avere delle certezze sul fronte degli obiettivi e di darsi precise prospettive industriali. La produzione di rifiuti in generale sta diminuendo e sta scendendo anche quella del secco. La utility sta quindi rivedendo la sua dotazione impiantistica puntando a selezionare in maniera ancora più precisa e accurata il rifiuto prima che diventi Css e depotenziandone così la produzione. “La chiusura di questo cerchio per noi è che il Css ottenuto si utilizza per la produzione di energia elettrica non in un impianto dedicato, ma in co-combustione nella confinante centrale termoelettrica dell’Enel, sostituendolo ad una quota di carbone – prosegue Da Villa – dove in una fase sperimentale prima e, successivamente con il funzionamento a regime, si è provato che si riescono addirittura a migliorare le prestazioni ambientali della centrale relativamente alle emissioni. Si tratta della valorizzazione di un rifiuto che dopo essere stato spremuto al massimo, sul fronte del riciclo, diventa, come ultima istanza, energia immessa in rete”.
Non ci sono opposizioni sociali e le decisioni sul cambiamento e il potenziamento degli impianti, sono state accettate all’unanimità dai 45 Comuni. Ma non è tutto qui, Veritas sta sviluppando anche il rapporto diretto con le imprese utilizzatrici della materia prima/seconda in uscita. E se c’è già un rapporto avviato per ciò che riguarda il vetro, sul fronte del legno la tracciabilità ha consentito di destinare il materiale derivato dalla raccolta differenziata ai processi produttivi dell’azienda Fantoni, che non si limiterà a riutilizzarlo ma potrà anche certificare la percentuale di materia prima non derivante da risorse primarie. Risultato? Chiudere il cerchio della filiera. La tracciabilità, essenziale per ottimizzare i processi industriali del riciclo e per raggiungere gli obiettivi normativi ambientali in materia di effettivo riciclo, ha anche un altro vantaggio. Quello di restituire informazioni a ogni Comune sulle disattenzioni dei cittadini nel conferimento delle varie categorie della raccolta differenziata e del secco, trasformando questa inefficienza in un dato ambientale e in uno di costo economico. Questa è una leva potente per migliorare la fase della raccolta perché consente ai sindaci di comunicare quante risorse si potrebbero risparmiare aumentando e migliorando la raccolta differenziata. E come al contempo migliorerebbero le performance ambientali. Alcuni sindaci hanno infatti utilizzato questi dati per stimolare i cittadini a incrementare ulteriormente la qualità della differenziata e per decidere come utilizzare i fondi risparmiati. E a proposito di tracciabilità, anche quest’ultima attività viene messa sotto la lente. Veritas, infatti, sta predisponendo la verifica della corrispondenza tra la comunicazione e l’aumento della qualità della differenziata.
E dopo il Veneto, la Toscana, dove Sienambiente opera sulla fase intermedia del ciclo dei rifiuti dopo la raccolta differenziata e si focalizza sugli impianti e sul loro ammodernamento, attuato seguendo due differenti logiche. La prima finalizzata a soddisfare richieste specifiche degli enti altri enti coinvolti nella gestione del ciclo di gestione rifiuti, mentre la seconda è relativa agli aggiornamenti impiantistici decisi dall’azienda stessa.
“In ogni caso stiamo molto attenti ad adottare soluzioni migliorative e innovative, applicando criteri che ci mantengano allineati alla normativa vigente ma anche alle direttive di settore e alle Bat (migliori tecnologie disponibili)”, ci dice il direttore tecnico di Sienambiente, Fabio Menghetti. Il denominatore comune è il recupero, in primo luogo di materia ma anche d’energia a tutto campo non solo dalla raccolta differenziata ma anche dai flussi residuali.
Altro aspetto che Sienambiente cura con attenzione è quello della protezione del contesto ambientale, assicurata mettendo in atto nei propri impianti le opere di salvaguardia più evolute ed efficienti per la riduzione al minimo dell’impatto ambientale e usando le tecnologie più adatte per ridurre emissioni potenzialmente inquinanti, ma anche rumori, odori ecc.
Analoga filosofia è applicata al concetto di recupero di materia dove i miglioramenti ottenuti grazie al costante adeguamento degli impianti sono sia di carattere quantitativo sia qualitativo, permettendo di ottenere materiali collocabili nel mercato al valore più alto possibile.
“Oggi, per ottenere il massimo sotto il profilo del valore – spiega Menghetti – è necessario spingere molto sull’aspetto qualitativo. La nostra attenzione costante è quindi quella di mantenere un equilibrio tra quantità e qualità della materia in uscita, stando attenti a privilegiare quest’ultima. Allo stesso tempo è importante mantenere bassa la percentuale di scarto per ridurre al minimo la componente più costosa sotto il profilo industriale”.
Allo stato attuale la qualità del materiale in ingresso proveniente dai cicli di raccolta differenziata non è omogenea anche perché derivante da metodi di raccolta, non effettuata da Sienambiente, eterogenei.
“Con le tecnologie oggi disponibili per le lavorazioni della raccolta differenziata, rimane un legame molto stretto tra la qualità del flusso in ingresso agli impianti e la qualità e la quantità della materia in uscita, per cui è necessario intervenire in modo importante sul fronte della raccolta differenziata” ci dice Menghetti. “Con una bassa qualità della raccolta differenziata aumentano i costi del trattamento e la percentuale degli scarti oltre a diminuire la qualità del materiale ottenuto. La nostra sfida è di aggiornare i processi di lavorazione e i macchinari in modo da essere sempre meno legati alla qualità della raccolta”.
L’obiettivo finale di Sienambiente è gestire impianti in grado di ottenere del materiale utilizzabile anche con materia non selezionata a monte, compensando così anche eventuali problemi nella fase della raccolta differenziata. E la scommessa è farlo adottando soluzioni che, in virtù della loro efficienza ed efficacia, ripaghino gli investimenti senza pesare sulle tariffe. L’evoluzione continua delle tecnologie con nuovi sistemi ottici e balistici, per esempio, aiuterà Sienambiente in questa sfida, ma nel frattempo aiuterebbe di sicuro a migliorare la raccolta differenziata, in particolare dell’organico.
Sienambiente ha chiuso il 2016 con un utile di 2,11 milioni di euro, a fronte di 1,6 milioni d’investimenti con la crescita, come avvenuto negli ultimi tre anni, del margine operativo. Alessandro Fabbrini, presidente di Sienambiente, così descrive il modello operativo della società: “Sienambiente, opera nel settore nella gestione dei rifiuti e poi del riciclo dal 1988 e ha garantito alla provincia di Siena l’autosufficienza impiantistica, evitando totalmente l’esportazione di rifiuti. La dotazione strutturale è di un impianto di selezione, valorizzazione e compostaggio. Da quest’ultimo, otteniamo un ottimo compost certificato per l’agricoltura biologica e identificato dal marchio: ‘Terra di Siena’”.
“In questa ottica” continua Fabbrini, “gli impianti sono l’elemento essenziale per l’economia circolare legata al riciclo dei rifiuti, per ridare vita ai materiali provenienti dalla raccolta differenziata. per avviare filiere di prossimità che portino altri vantaggi, oltre a quelli ambientali. Si tratta di rispondere con soluzioni locali a tematiche di carattere globale, gestendo anche la parte di materiali non riciclabili o riutilizzabili nel nostro termovalorizzatore, e la parte residuale, in costante diminuzione, in discarica. Pensiamo di aver costruito un sistema efficiente ed efficace sul fronte della gestione dei rifiuti”.
“Le prospettive di miglioramento sono legate all’efficientamento della filiera del riciclo, come nel caso dell’impianto di selezione dove di recente abbiamo installato un nuovo sistema di raffinazione del compost che consente una notevole riduzione degli scarti di lavorazione. Altro obiettivo è l’abbattimento dell’emissione di gas serra, per esempio con il fotovoltaico, dalla frazione biodegradabile dei rifiuti e con la termovalorizzazione della frazione non riciclabile. Ciò significa produrre il 70% dell’energia che utilizziamo da fonti rinnovabili con un taglio di 26.700 tonnellate di CO2 nel 2016, un risultato migliore per circa 1.000 tonnellate rispetto al 2015”.
Sfidare la complessità
Rimaniamo in Toscana per occuparci di plastica. Nello stabilimento Revet, a Pontedera in provincia di Pisa, ricavano il granulo di plasmix dalle plastiche eterogenee che sono circa il 55% del peso degli imballaggi. Evitandone l’incenerimento. Con questa tecnologia avanzata si ottiene un prodotto finale di qualità, uguale al materiale vergine.
Qualsiasi oggetto di plastica, stampato a iniezione, può utilizzare il plasmix da riciclo composto in gran parte da polimeri compatibili tra di loro, PE a bassa e alta densità e PP in proporzione variabile. Il problema non sono quindi le tecnologie di riciclo, ma la quantità di materiale scartato a causa della qualità scadente della raccolta differenziata. “Oggi abbiamo una quantità troppo alta di scarti che devono essere smaltiti perché non sono riciclabili” ci dice Diego Barsotti, responsabile comunicazione di Revet. “Si tratta d’imballaggi che non sono inseriti correttamente nei contenitori. Così il costo diventa più elevato e diminuisce la percentuale di materiale riciclato in uscita”. Conta molto anche l’approccio culturale al problema del riciclo: da troppo tempo ci si concentra solo sulle percentuali della raccolta. Alla Revet si osservano percentuali di scarto comprese tra il 10 e il 15%, ma ci sono casi anche peggiori. Inoltre, stupisce che negli ultimi anni l’azienda veda un peggioramento nella qualità delle raccolte differenziate, mentre ne è aumentata la quantità. Questo accade per tutti i materiali trattati in Revet, non solo per la plastica. Secondo l’azienda c’è un problema di qualità delle campagne di sensibilizzazione sulla differenziata, dove servirebbe una comunicazione più dettagliata. Revet può fare degli esempi concreti: “Chi butta nella raccolta differenziata la scarpa da tennis, il tubo di gomma o il pallone da calcio difficilmente è consapevole del danno che produce alla differenziata, ma si tratta di un gesto che con ogni probabilità è guidato da un ragionamento per analogia del tipo: ‘dopotutto la gomma assomiglia alla plastica, per cui può essere riciclata’”, prosegue Barsotti. Se da un punto di vista è chiaro che non si possono pretendere dai cittadini analisi merceologiche sulle caratteristiche dei rifiuti, dall’altro emerge l’esigenza di un’informazione specifica sulle differenze tra imballaggi e rifiuti di varia natura da inserire nel flusso della differenziata.
Perciò, Revet sta lavorando su nuovi impianti di selezione e sulle filiere. Nel caso del vetro ha acquisito uno stabilimento a Empoli, dove si produce il “pronto forno”, un semilavorato che deriva dai rottami di vetro che vanno direttamente in vetreria. È questa la nuova frontiera dell’innovazione: allargare il proprio intervento ad altri pezzi della filiera per “produrre” efficienza nel riciclo e quindi valore.
I pezzi forti del riciclo
La fibra ha sette vite. Parliamo di quella della cellulosa con la quale si produce la carta, cosa che ha decretato negli anni il successo del riciclo di questo materiale e il consolidamento della filiera. Oggi l’evoluzione del processo di riciclo si concentra sulla raccolta con Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica) che sta investendo risorse da anni per incrementare la raccolta di carta e cartone nelle aree dove si incontrano più difficoltà: quelle del meridione.
“I risultati del 2016 sono molto positivi per due motivi” ci dice Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco. “Il primo perché l’incremento della raccolta a livello nazionale supera il 3% dando il segnale sia della ripresa dei consumi sia dell’estensione dell’area di raccolta. Si tratta di 100.000 tonnellate in più, delle quali il 50% nel meridione che registra una crescita del 9%”. Il Sud Italia così conferma d’aver ingranato la marcia della raccolta differenziata di carta e cartone. “È il risultato di una strategia messa a punto da tempo e che sta dando i suoi frutti”, prosegue Montalbetti. “Il processo di modernizzazione della gestione dei rifiuti di carta e cartone passa attraverso l’allineamento del meridione ai tassi di raccolta che possiedono sia il nord sia il centro. Il meridione deve ancora fare della strada per arrivare a quest’obiettivo, ma sta andando in questa direzione”. Il gap è intorno ai 20 kg pro capite. Il sud è a quota 30, mentre la media nazionale è superiore ai 50. Ma il sud presenta una situazione poco uniforme. Sicilia e Calabria, per esempio, sono più indietro di Puglia e Campania che stanno rapidamente risalendo la china. Eclatante il caso di Napoli che ha segnato in anno un più 20%. Gli ingredienti di questo exploit sono stati la determinazione dell’amministrazione pubblica, la capacità del management nella gestione della raccolta e, puntualizza Montalbetti, “il ruolo di Comieco, che ha stanziato sette milioni di euro nel 2015 da destinare ai piani industriali nel meridione, investendo su mezzi e attrezzature”. Un aspetto essenziale è la capacità del cittadino di conferire il materiale in modo corretto. Per quanto riguarda l’innovazione nel processo, una dozzina di cartiere hanno introdotto dei sistemi per monitorare sia l’umidità sia la presenza di materiale improprio come la plastica, nella carta e nel cartone proveniente dalla differenziata. I margini di miglioramento ci sono. Sono ancora 600 mila le tonnellate, prevalentemente al sud, di carta da macero che finisce in discarica che potrebbe essere intercettata e riciclata valorizzandola. Stanno per aprire due grandi impianti industriali per la produzione del cartone che avranno una domanda di carta da macero importante. Avremo così un periodo di sviluppo del sistema di raccolta di carta e cartone.
E veniamo ora a un materiale che per le sue qualità intrinseche è quasi perfetto: l’alluminio. Riciclabile all’infinito, con un dispendio minimo d’energia rispetto al materiale vergine, l’alluminio è il materiale il cui riciclo è, se condotto secondo le regole, è il più efficiente. Partiamo dalla raccolta che può essere di due tipi: la multimateriale leggera e quella pesante. Con la prima si raccolgono acciaio, alluminio e plastiche, mentre con la seconda a questi materiali s’aggiunge il vetro. Si tratta di due sistemi che si dividono al 50% il totale delle metodologie di raccolta e che per la separazione dei materiali metallici lavorano in maniera analoga. Il materiale ferroso viene selezionato tramite dei magneti, mentre l’alluminio tramite un sistema di separazione a correnti indotte (Eddy current separator, Ecs) viene respinto anziché attratto come nel caso dell’acciaio. In pratica la lattina salta nell’apposito contenitore, quasi come se fosse animata da una volontà autonoma, verso il riciclo. Ma non sempre tutto va bene. A seconda dell’efficienza del processo, qualcosa che non è alluminio “salta” nel contenitore sbagliato. Si tratta di un fenomeno che dipende sia dagli impianti, sia dalla composizione stessa del rifiuto in entrata. Il livello medio di impurità riscontrato per l’alluminio è del 4%, un dato molto positivo, visto che la soglia oltre al quale il materiale deve ripassare la selezione è il 5%. Una volta arrivato in fonderia il metallo viene analizzato, pretrattato con un passaggio a circa 500 °C che elimina le sostanze aderenti all’imballaggio, come le vernici, e poi passa alla fusione vera e propria alla temperatura di 800 °C, producendo così i lingotti di qualità pari al vergine. “Un problema potrebbe essere quello delle leghe d’alluminio” ci dice Stefano Stellini, responsabile comunicazione di Cial, il Consorzio imballaggi in alluminio. “I rottami d’allumino sono composti da leghe diverse che sono miscelate durante la fusione per ottenere l’alluminio della qualità desiderata. Si tratta di una pratica consolidata anche perché le fonderie si specializzano per segmenti di mercato, come per esempio il settore automobilistico sanno come miscelare le varie qualità”. Altra caratteristica dell’alluminio è rappresentata dal fatto che a contatto con altri rifiuti non subisce delle modifiche chimiche o fisiche. E infatti l’alluminio può essere recuperato anche dagli impianti Tmb (Trattamento meccanico biologico) che separano il secco dall’umido e addirittura dalle scorie post combustione degli inceneritori”. Per l’alluminio la questione principale risiede negli extra costi dovuti al passaggio aggiuntivo nel processo di selezione causato dall’impurità del materiale in entrata.
Eccoci a un altro metallo, quello che ha fatto un pezzo di storia: l’acciaio. Sul fronte del recupero di materia la filiera dell’acciaio è in pole position con il 70% del materiale prodotto che deriva dal recuperato. Anche sotto il profilo della qualità della raccolta differenziata non crea problemi nelle fasi successive, con il 90% circa di materiale che viene avviato a riciclo. La situazione cambia per la frazione che proviene dal rifiuto indifferenziato. In questo caso il deferrizzatore trascina con il materiale ferroso tutto ciò che ci si attacca. Pertanto la componente estranea è più elevata e il processo, per arrivare a una buona qualità è più complesso. Altro flusso dell’acciaio è quello del ferro combusto, estratto dalle ceneri provenienti dagli inceneritori; in questo caso c’è una quota d’impurità che deriva dalle ceneri che rimangono sulla superficie metallica e va anche considerata l’incidenza dell’ossidazione che rende il materiale meno appetibile sul mercato.
Sul fronte della quantità, per quanto riguarda la raccolta nazionale pro-capite annuale la situazione è mediamente buona. Al nord, dove la raccolta supera i 3 kg a persona, si è ad un ottimo livello; al centro sud si oscilla tra la fascia superiore e quella tra 1 e 3 kg, ma restano due regioni agli antipodi, Sicilia e Valle d’Aosta, dove si raccoglie meno di 1 kg a testa.
“È necessario sviluppare la raccolta con un mix di comunicazione, investimenti e mezzi, per aiutare i Comuni che devono essere disposti a investire” ci dice Rocco Andrea Iascone, responsabile comunicazione e relazioni esterne del consorzio Ricrea. “E poi si possono impiegare anche nuove iniziative, come lo sviluppo del riciclo circolare a chilometri zero, con il quale vogliamo accorciare le distanze della filiera del riciclo”.
In questo caso c’è anche una maggiore facilità da parte dei cittadini nell’utilizzo corretto della differenziata, poiché conoscono la destinazione del materiale e hanno ben chiaro qual è il ciclo. “In Sicilia siamo riusciti a lasciare il materiale sul territorio realizzando un ciclo quasi a chilometri zero” ci dice Luca Mattoni, responsabile dell’area tecnica di Ricrea. “Il valore aggiunto, oltretutto, l’ha messo l’impianto presente sul territorio che si è dotato di macchinari per ottenere un prodotto adatto all’acciaieria locale permettendo una raccolta mirata sul territorio”. Il risultato è stato un buon sistema di riciclo che fa percorrere meno chilometri possibili. Il problema fondamentale rimane quello della certezza della qualità, qualunque essa sia, anche perché nelle acciaierie è possibile cambiare il livello qualitativo del prodotto secondo la sua destinazione finale.
Le nuove tecnologie invece, visto l’assestarsi delle filiere del riciclo, possono essere messe a punto e adottate con buoni risultati. Tra queste vi è la frantumazione degli imballaggi con piccoli mulini che sono più adatti di quelli di grandi dimensioni. Il vantaggio di avere dimensioni inferiori è quello di poter lavorare con la calibrazione esatta, rispetto al materiale in entrata.
Si tratta di impianti che si stanno diffondendo sul territorio. È un segnale che gli operatori sono sempre più attenti alla frazione di materiale proveniente dalla raccolta differenziata. Sembra che si stiano scoprendo le miniere urbane.
Dalla raccolta al nuovo prodotto: come all’origine, meglio che all’origine
Proseguiamo il nostro viaggio nella qualità del riciclo incontrando il successivo attore della filiera, ossia chi riceve il prodotto della raccolta e lo riporta a nuova vita traendone un prodotto di qualità pari o superiore a quella di partenza. L’olio lubrificante, per esempio. Viscolube è uno dei soggetti maggiormente attivi nella rigenerazione degli oli lubrificanti e lavora nel settore da decenni, certificando tutta la filiera e immettendo sul mercato un prodotto che ha l’etichetta ambientale. “Oggi la qualità dell’olio in ingresso ha un impatto molto importante sulla qualità del prodotto in uscita perché con l’aumentare degli inquinanti presenti nell’olio usato, in teoria, si potrebbe ottenere una qualità minore della base lubrificante in uscita” ci dice Marco Codognola, direttore generale della divisione Ambiente di Viscolube. “Qui interviene il ruolo della tecnologia, nel senso che quanto in teoria ipotizzabile, ossia l’abbassamento della qualità del prodotto in uscita, è compensato da una serie di tecnologie mirate che permettono, a fronte del variare della qualità del rifiuto in ingresso, di correggere questi squilibri e arrivare a un prodotto finale che mantiene le caratteristiche concordate con i clienti fornendo loro un prodotto finale rigenerato con caratteristiche identiche a quelle del prodotto vergine. E questo è il nostro benchmark di riferimento”. Tecnologie e know-how accumulato negli anni che ora diventano essenziali all’interno dei processi. Ancora una volta, il nodo è centrale perché sulla qualità del prodotto in uscita e sul mantenimento della catena del valore si giocano le prospettive di sviluppo dell’economia circolare. E vediamo i dettagli. Un esempio: per eliminare le sostanze più volatili bisogna agire sulle colonne di distillazione, per avere un lubrificante che sia in linea con le aspettative del mercato. Un altro elemento importante è l’indice di saponificazione, ossia la quantità di grassi presente nella materia in ingresso, fattore che incide negativamente sulle prestazioni del lubrificante. Per eliminare queste sostanze si utilizzano una serie di trattamenti chimici, come la centrifugazione e la filtrazione che devono essere tarati in base alla quantità di inquinante in ingresso. Questi e altri processi, come i catalizzatori di idrofinitura, sono stati sviluppati per ridurre la quantità dell’olio usato non utilizzabile che è un rifiuto pericoloso e ha come unico destino la combustione. E qui si apre un tema che è sia normativo, sia legato alla raccolta. Il fatto che l’olio usato, infatti, sia considerato un rifiuto pericoloso è un vantaggio circa l’attenzione e la tutela che deve essere riposta nella prima parte della filiera: quella della raccolta. I parametri di legge che contraddistinguono gli oli usati rigenerabili, infatti, sono stringenti, ma consentono alla maggior parte dell’olio esausto raccolto di poter essere rigenerato e grazie al lavoro capillare del Conou (Consorzio nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali usati) le società di raccolta fanno operazioni di selezione e raccolta accurate, con il risultato che la maggior parte degli oli raccolti rientrano nei parametri di legge che è necessario siano rispettati per poter essere rigenerati. Il legislatore nel settore degli oli usati ha voluto fissare dei limiti sul fronte delle impurità non tanto per motivi tecnici, ma per prevenire l’utilizzo “improprio” della filiera della rigenerazione. L’intenzione del legislatore è stata quella di tracciare una linea netta di confine tra ciò che può alimentare la filiera e ciò che deve rimanere un rifiuto. Così il prodotto in uscita è praticamente identico a quello delle raffinerie che trattano prodotti fossili vergini.
Un sistema perfetto quindi? Non esattamente perché nonostante gli ottimi risultati raggiunti ci sono ancora margini di miglioramento. Sotto al profilo della raccolta se il processo a monte fosse ancora più selettivo, con una maggiore attenzione alla segregazione presso i produttori iniziali, di sicuro il processo a valle avrebbe una qualità ancora superiore. “Ciò si tradurrebbe in un minor costo di rigenerazione, mentre il livello qualitativo rimarrebbe identico a quello di oggi. Ossia ottimo” prosegue Codognola. “Il mantenimento di un elevato livello in uscita è possibile perché abbiamo ovviato a ciò con la tecnologia”. Quindi anche in un settore professionale come quello degli oli usati è possibile fare di più e non bisogna farsi distrarre dall’elevata qualità in uscita. Alzare i ritorni dell’attività industriale in settori legati all’economia circolare, infatti, significa consentire alle imprese di investire in ricerca e sviluppo e mettere a punto pratiche e tecnologie innovative in grado di allargare le basi stesse dell’economia circolare, rendendo ancora più competitivo il prodotto finale, in questo caso rispetto alle basi lubrificanti vergini d’origine fossile. Ma si può intervenire anche sulle procedure, per migliorare la filiera senza eccessivi costi. Nel caso degli oli motore oggi c’è già una buona segregazione, a partire dalle autofficine che separano gli oli in maniera accurata, mentre nel caso degli oli industriali a volte capita che le aziende nel loro stoccaggio dei rifiuti miscelino anche delle emulsioni, delle acque di lavaggio e degli stream tecnici che vengono miscelati con i lubrificanti usati.
Siamo alla fine del viaggio. Alla tappa nella quale si assiste a una mutazione, ossia quella della trasformazione della materia da rifiuto in qualcosa di diverso e che ha più valore. Entriamo nel campo dell’upcycling e lo facciamo con un materiale dove il riciclo è un’eccellenza: la carta. La carta realizzata a Bassano del Grappa, presso la storica cartiera Favini, dove oltre a utilizzare fibra di cellulosa riciclate, impiegano anche residui, o meglio sottoprodotti, provenienti da filiere radicalmente diverse.
“La prima cosa da fare è quella di considerare questi residui come se fossero una materia prima acquistata normalmente” ci dice Achille Monegato, direttore ricerca e sviluppo di Favini. “Questi materiali quindi devono possedere un capitolato, affinché siano determinate e precise le caratteristiche della fornitura”. E qui arriviamo a un punto cruciale del nostro percorso, quello dove i sottoprodotti di scarto delle lavorazioni si elevano al livello della materia prima. In questo quadro il controllo della qualità della materia prima in ingresso diventa fondamentale.
“È necessario analizzare tutte le caratteristiche, verificare quelle che sono critiche e stabilire un intervallo di accettabilità” prosegue Monegato. “Tutto per avere una determinata qualità del prodotto in uscita. Per quanto ci riguarda parametri come il colore, la granulometria, il contenuto d’umidità, la parte solubile in acqua e altre caratteristiche devono essere costanti”.
Bisogna fare delle scelte, come nel caso del cuoio che ha Favini utilizzano per la carta Remake. Gli sfridi di cuoio non sono tutti uguali e dipendono dal tipo di concia. Quelle al cromo, con i tannini o quella wet withe producono sfridi che hanno caratteristiche differenti e quindi la scelta deve essere compiuta identificando il sottoprodotto in base alla filiera di provenienza. “Per fare upcycling ma soprattutto per trovare strade nuove serve la conoscenza” prosegue Monegato. “Conoscenza, conoscenza e conoscenza: questo è ciò che serve. Ma non in un unico settore manifatturiero, ma in più campi, in diverse filiere”.
Esistono però dei problemi che potremmo chiamare intrinseci sotto il profilo della fornitura, anche perché stiamo parlando di sottoprodotti che presentano delle variabili per natura, come nel caso dei sottoprodotti della lavorazione degli agrumi, il cui colore non è costante. I frutti raccolti a novembre hanno un colore diverso da quelli colti a marzo, a causa della diversa concentrazione di betacarotene.
E questo è un problema nel momento in cui il pastazzo di agrumi ossia il residuo della lavorazione viene utilizzato per fare della carta oppure dei tessuti. Per ovviare a ciò è necessario utilizzare il residuo che contiene un’esatta percentuale di betacarotene già determinata nel capitolato. Diventa essenziale quindi l’utilizzo di una materia proveniente da un raccolto effettuato in un determinato periodo e ciò implica che da entrambe le parti, fornitore e utilizzatore del sottoprodotto, ci sia una consapevolezza circa tutto ciò. E la conoscenza incrociata delle filiere introduce un altro problema: quello della difesa del know-how industriale. Se da un lato, infatti, si pone la legittima questione della protezione del know-how derivato dagli investimenti in ricerca e sviluppo, sotto un’altra angolazione c’è la questione dello sviluppo e della diffusione di queste pratiche che potrebbero fare da volano per l’economia circolare. Oggi siamo ancora all’inizio di questi processi, ma in un futuro ormai prossimo sarà necessario trovare dei punti di equilibrio tra le diverse esigenze.
Ma torniamo all’incrocio tra le filiere e le specifiche dei sottoprodotti, con un altro esempio tratto dall’esperienza di Favini. “Il residuo dell’uva, (utilizzato dall’azienda per realizzare la carta della scatola della linea di champagne bio di Veuve Clicquot, ndr) per esempio, può avere quattro differenti destinazioni” conclude Monegato. “Nel primo caso non viene nemmeno essiccato ed è utilizzato come fertilizzante, mentre nel secondo caso – cioè essiccandolo – ha tre destinazioni aggiuntive. La prima è quella del recupero energetico tramite la combustione, la seconda quella dell’utilizzo come integratore per i mangimi animali e la terza quella dell’impiego per la realizzazione della carta”. Ecco che aggiungendo una fase di lavorazione, l’essiccazione, a un sottoprodotto in uscita se ne espandono le possibilità d’utilizzo, e anche di mercato. L’adeguamento della fornitura dei sottoprodotti diventa così una leva di mercato.
La qualità del riciclo che abbiamo visto sotto molte angolazioni è – e sarà – una tra le questioni centrali nello sviluppo dell’economia circolare. L’approccio dovrà essere lo stesso utilizzato nell’impiego delle risorse non rinnovabili, per due buone ragioni: la necessità di inserire elementi d’economia circolare nelle filiere produttive esistenti, e la necessità di limitare al massimo gli extracosti che potrebbero derivare dall’uso di materiali da riciclo.
Sottovalutare tali aspetti potrebbe creare seri ostacoli all’insediarsi di una vera economia circolare.
S. Faccioli, “Curare il verde con il Gpp”, Materia Rinnovabile n. 12, settembre-ottobre 2016; www.materiarinnovabile.it/art/255/Curare_il_verde_con_il_Gpp
S. Ferraris, “Il cartone vince sul degrado”, Materia Rinnovabile n. 5, agosto 2015; www.materiarinnovabile.it/art/116/Il_cartone_vince_sul_degrado
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