Valentina, 35 anni, bolognese, diploma di conservatorio in viola, è spesso in viaggio sia per lavoro come orchestrale, sia per passione. E “per risparmiare, ma soprattutto per sentirsi più a casa”, da anni si serve di Airbnb, il gigante internazionale dell’affitto temporaneo di case private tramite annunci pubblicati sul suo portale: simbolo rampante della sharing economy, l’economia della condivisione, del baratto, del prestito di beni, servizi e competenze tramite l’uso di piattaforme digitali e di app che su internet favoriscono l’incontro peer-to-peer tra domanda e offerta. L’ultimo soggiorno targato Airbnb di Valentina risale a inizio gennaio, a Istanbul, in un appartamento super-accessoriato nel quartiere storico-monumentale che ha condiviso con due amiche per appena 12 euro a testa al giorno. Anche Gioia, 28 anni, di Napoli, laurea in scienze politiche, è una veterana di Airbnb, “per la filosofia di vita che viaggiatori e host condividono, il senso di comunità e il dialogo culturale che si instaura, impensabili in un’anonima stanza d’albergo”. Così, quando a dicembre l’Onu le ha proposto uno stage al Palazzo di Vetro, ancora una volta ha cercato una sistemazione su Airbnb. E l’ha trovata: un confortevole appartamento a Manhattan per 2.000 euro al mese che condivide con un’amica, una vera cuccagna considerando la location. E molto più di un divano o di un’altra sistemazione precaria presso famiglie ospitanti, come può capitare agli utilizzatori delle comunità internaute di couchsurfing, che privilegiano l’aspetto dello scambio di ospitalità e bandiscono dalla loro filosofia il passaggio di denaro tra ospiti e ospitanti.
Al contrario sull’effetto “casa fuori casa”, Airbnb – che trattiene una commissione sugli affitti – ha costruito un autentico impero: partita nel 2008 a San Francisco per opera di tre intraprendenti trentenni, oggi offre castelli, ville, appartamenti in oltre 34.000 città disseminate in 192 paesi, dà lavoro complessivamente a 15.000 persone e viene accreditata di un valore superiore ai 10 miliardi di dollari. In Italia – terzo paese al mondo per numero di annunci dopo Usa e Francia – a dicembre 2015 si è registrato un incremento delle inserzioni dell’81% rispetto al 2014 e una crescita vertiginosa degli ospiti (+87%). Per un totale di 3 milioni di viaggiatori dal 2008 a oggi. Inserzioni, prenotazioni e recensioni sulla piattaforma sono gestiti in autonomia dalla community di host e viaggiatori; Airbnb Italia mette solo a disposizione dei proprietari, se interessati, propri fotografi, i cui scatti vengono pubblicati sul portale con la rassicurante dicitura per i viaggiatori “foto verificata”. Nella sede di Milano i nove addetti della srl si occupano di marketing per gli annunci e, tramite focus group, degli incontri con gli host, mentre il servizio clienti europeo si trova a Dublino.
L’irresistibile ascesa di Airbnb ne ha fatto un autentico faro per le start-up che si lanciano nel nuovo orizzonte di questa economia ispirata alla vocazione solidale di condividere, di risparmiare risorse anche a fini di tutela dell’ambiente ed esplosa letteralmente, a livello mondiale, grazie al potenziale virale delle moderne tecnologie digitali che la innervano. È il caso, per esempio, accanto ad Airbnb, del settore trasporti e in particolare di BlaBlaCar, la piattaforma regina del ride sharing che mette in contatto chi cerca e chi offre passaggi in auto su un percorso di media-lunga distanza. Opzione diversa sia dal car sharing urbano 2.0, che con Car2go ed Enjoy sta spopolando a Milano e Roma, sia dal car pooling, spesso organizzato a livello aziendale per formare team di dipendenti che si spostano su percorsi comuni. Nei 20 paesi al mondo in cui è presente (Belgio, Brasile, Croazia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Lussemburgo, Italia, India, Messico, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Russia, Serbia, Spagna, Turchia, Ucraina e Ungheria) la community di BlaBlaCar ha superato i 20 milioni di persone. 350 i dipendenti che lavorano in 13 uffici distribuiti ai quattro angoli del pianeta. Tra i driver più assidui della community italiana spiccano i cosiddetti “pendolari dell’amore”. Come Simone C., 42 anni, che pendola da anni in condivisione tra Modena, dove lavora, e Gualdo Tadino, dove vive la moglie, e non potendo fare a meno dell’auto perché il servizio ferroviario su quella tratta è proibitivo, è un convinto fautore del ride sharing “che rispetto ai viaggi in solitaria vince non solo in socialità ma anche in tutela ambientale, perché riducendo il numero di vetture in circolazione riduce l’inquinamento”. L’importo pagato – anche online – da chi prende il passaggio copre sia le spese di gestione (pari al 12% del costo del passaggio) che trattiene BlaBlaCar, sia il contributo richiesto dal conducente, che BlaBlaCar suggerisce di fissare a 5,5 centesimi a chilometro, per evitare che un servizio basato sullo scambio e sul desiderio di socializzare diventi un’attività profittevole. Con il rischio di generare, tra l’altro, i noti problemi di concorrenza con i tassisti provvisti di costose licenze che stanno ostacolando l’arrivo in Italia di Uber e che a fine gennaio hanno spinto quelli parigini sulle barricate. Molto critica su Uber, che non ritiene assimilabile alla sharing economy, è anche Marta Mainieri, fondatrice del portale Collaboriamo.org: “Bada poco agli interessi degli utenti e punta soprattutto ad arricchire il business della piattaforma, che detiene l’algoritmo e il potere di gestire questi pseudo lavoratori, che non sono né lavoratori autonomi né dipendenti, ma qualcosa di mezzo in balia dell’algoritmo e delle decisioni della piattaforma”.
Spinte dalla potenzialità del digitale, in aggiunta ad alloggi e trasporti le piattaforme collaborative pervadono ormai innumerevoli ambiti della nostra quotidianità: basti pensare che, stando a un rapporto del 2014 di Nesta, nel Regno Unito un quarto della popolazione adulta effettua scambi attraverso le piattaforme. E proprio l’Inghilterra – secondo uno studio di Justpark, la piattaforma che mette in contatto “cacciatori” di aree di parcheggio e persone che le cedono temporaneamente – è il paese numero uno della sharing economy in Europa, visto che ne ospita più di Francia, Spagna e Germania insieme, gli altri tre hub europei più prolifici del settore. Il primato mondiale resta però agli Usa, che hanno dato vita a oltre la metà delle 865 start-up dell’economia collaborativa, con San Francisco superstar con 131, seguita da New York (89) e Londra (72).
Venendo all’Italia, come evidenzia la mappatura 2015 coordinata da Marta Mainieri con il supporto di Phd Italia, da noi sono attive quasi duecento piattaforme medio-piccole distribuite sotto le voci abbigliamento, abitare, alimentare, cultura, formazione, lavoro, scambio di beni di consumo, servizi alle imprese, servizi alle persone, sport, trasporti, turismo. Per più della metà la forma giuridica scelta dai fondatori è la srl, il che rivela, dietro alla vocazione collaborativa, l’orientamento imprenditoriale.
Si scambiano o si cedono abiti usati e libri, si organizzano eventi teatrali e proiezioni di film, addirittura, con la piattaforma Fubles, si formano squadre di calcetto: sono più di 500.000 gli appassionati che ha fatto incontrare sul web, per un totale di circa 160.000 partite giocate. Mentre su TimeRepublik, la banca del tempo digitale per lo scambio di competenze, si possono barattare, per esempio, ripetizioni private per i figli con lavoretti di casa.
Nell’alimentare, accanto a piattaforme collaborative che combattono lo spreco casalingo di alimenti, come S-Cambia Cibo, LastMinuteSottoCasa e I Food Share, altre promuovono il cosiddetto social eating, che al piacere della tavola unisce la voglia di fare nuove conoscenze. È il caso di Gnammo, che pubblicizza pranzi e cene organizzati dagli “gnammer-cuochi”, incassa i contributi richiesti agli “gnammer-ospiti” e li gira a chi cucina, trattenendo per sé il 12% a copertura dei costi di incasso, pagamento e gestione fiscale. Sì, perché con Gnammo tutto è tracciato, a differenza dell’evasione delle locali tasse di soggiorno che gli albergatori tradizionali imputano agli inserzionisti su Airbnb. A tre anni dalla sua attivazione per opera di tre quarantenni – Gianluca Ranno e Cristiano Rigon torinesi, amici d’infanzia, e Walter Dabbicco, barese – a dicembre 2015 la community di Gnammo toccava quota 160.000 iscritti con 3.500 cuochi/e che hanno pubblicato almeno un invito sul portale, per un totale di oltre 8.400 eventi e un “fatturato” nel 2014 di 7,2 milioni di euro.
Ma quanto ci si guadagna? “Per i cuochi più assidui la frequenza è un evento al mese, costo medio 20 euro: se i cuochi sono attenti a fare la spesa qualche soldo in tasca lo possono mettere. Ma non è per questo che invitano gente a casa: l’obiettivo prioritario resta la socialità, così come per gli gnammer-ospiti conta sì il menù, ma ancor di più insieme a chi e in quale ambiente e atmosfera si mangia”, spiega Gianluca Ranno, esperto di marketing e comunicazione con alle spalle anni di lavoro anche in Cina. Benedetta, torinese, 40 anni, insegnante d’inglese, è una delle cuoche-gnammer più gettonate. E più fantasiose. Alla sua tavola, per 28 euro, si può gustare una cena a base di cioccolato dall’antipasto al dolce o fare “il giro del mondo in 8 cene” con specialità di diversi paesi. E a 20 euro ci sono i ricchi tè per signore con tartine, sandwich e dolci accompagnati da svariate sfumature di tè. Per quanto i suoi sfiziosi menù facciano venire l’acquolina in bocca al solo sentirli descrivere, per Benedetta e i suoi ospiti (avvocati, funzionari, dirigenti d’azienda, per lo più donne, dai 30 ai 50 anni d’età) “il primo obiettivo è la convivialità, l’incontro con persone nuove, solitamente di spessore, che in alcuni casi si è trasformato in vera amicizia e condivisione del tempo libero”.
E mentre si diffondono gli gnammer casalinghi, la piattaforma sta lanciando ulteriori opzioni, dalle “cene organizzate per testare prodotti di industrie nazionali, come Barilla e Monini, una sorta di pubblicità bottom-up”, spiega il vulcanico Ranno, “al social eating al ristorante, che proponiamo ai gestori come un nuovo strumento per farsi conoscere. Immutato l’ingrediente di base: tavolate di una quindicina di persone che non si conoscono, con l’opportunità di incontrare lo chef, anche stellato, come è successo con Marcello Trentini del Magorabin di Torino, ma a prezzo social: 30 euro”.
In ambito finanziario, uno spazio abbastanza consolidato rispetto alla media delle piattaforme italiane lo occupa il crowdfunding, il finanziamento dal basso di progetti. A fine 2015 il valore dei finanziamenti raccolti in Italia da 858.000 donatori/finanziatori ammontava a 56,8 milioni di euro (+85% rispetto al 2014), con 82 piattaforme (+68% rispetto al 2014), che danno lavoro a circa 250 persone. Il valore medio dei fondi raccolti non supera i 10.000 euro a progetto. “Prestiamoci” è la start-up numero uno del social lending, il prestito remunerato tra privati: mette in contatto chi ha bisogno di denaro con chi ha un capitale da investire, al pari di “Smartika”, che vede prestatori e debitori interagire tra loro senza intermediari.
Ma se è così pervasiva, quanto può valere la sharing economy? La società di consulenza aziendale britannica PwC ha stimato il suo fatturato annuale mondiale intorno ai 15 miliardi di dollari, che nel 2025 potrebbero toccare i 335 miliardi.
E mentre qualcuno suona già – prematuramente – le campane a morto per il capitalismo, il Credit Suisse (Global Investor, novembre 2015) ha provato a calcolare, sulla base dello scenario svizzero, il contributo al Pil della sharing economy, arrivando alla conclusione, probabilmente sottostimata secondo Il Sole24Ore, che oscilla tra lo 0,25 e l’1%. Ovvero, se proiettato sull’Italia, fra i 4 e i 16 miliardi di euro. Non è poco in assoluto, ma in percentuale un dato ancora trascurabile.
Immagine in alto: Scultura Quo Vadis, di David Černý, Praga – Elaborazione grafica. ©Wikicommons / Wegmann
Intervista al professor Leonardo Becchetti, Ordinario di Economia Politica presso l’Università di Roma Tor Vergata.
A cura di Silvia Zamboni
Non sarà la fine del capitalismo
Sarà l’economia della condivisione a far crollare il capitalismo?
“Fine del capitalismo per opera della sharing economy? Non direi, parlerei di un processo di ibridazione tra l’economia profit e quella della condivisione, ma una sostituzione della seconda a danno della prima la giudico irrealistica. La vera novità che sta dietro alla diffusione della sharing economy è l’uso della rete: le piattaforme online mettono a disposizione informazioni su beni e servizi offerti, permettono l’incontro tra domanda e offerta individuale e a ciascuno di scegliere il proprio ruolo nella transazione. Abolendo svariate funzioni prima imprescindibili nelle aziende tradizionali, l’economia digitalizzata ha drasticamente ridotto i costi di transazione, producendo una ‘polverizzazione aziendale’. Il car sharing consente l’accesso al servizio (mobilità) indipendentemente dal possesso del bene (auto) e aumentandone il tasso di utilizzazione, con ricadute positive per l’ambiente. Un altro elemento distintivo è il sistema di reputazione collettiva che si crea nel tempo attraverso specifiche modalità di rating (come, per esempio, i giudizi espressi da driver e trasportati su BlaBlaCar, e quelli di host e viaggiatori su Airbnb, nda).”
A differenza dei portali di puro e-commerce, la sharing economy si caratterizza anche perché nel proprio dna porta impressi condivisione, scambio, socialità.
“Anche nell’economia tradizionale esistevano ed esistono possibilità di dono, di condivisione, di scambio informale; l’elemento di novità oggi è l’uso della rete. Bisogna allora distinguere caso per caso tra le piattaforme: se siamo in presenza di uno strumento che facilita gli scambi, quindi di un mercato che funziona meglio, o se ci sono profili che vanno oltre la mera transazione economica. Senza trascurare i rischi di natura fiscale e tutela del lavoro. Se parliamo di condivisione e gratuità ritengo più significativo valutare il contributo della rete nella generazione di quelli che chiamo beni comuni collaborativi (i collaborative commons) come Wikipedia, costruita da persone che mettono a disposizione, gratuitamente ed anonimamente, informazioni e conoscenze. Al contrario di quelle piattaforme che si fanno rientrare nella sharing economy ma che si limitano a migliorare il mercato delle transazioni commerciali.”
Eppure c’è chi parla di superamento del capitalismo a opera della sharing economy.
“Quello a cui assisteremo è semmai un progressivo processo di ibridazione tra motivazioni profit e no profit: le aziende profit hanno la necessità di accreditarsi come imprese socialmente responsabili, mentre le organizzazioni no profit quella di sopravvivere e quindi di affiancare delle attività commerciali. La sharing economy arricchisce le opzioni a disposizione, non è un sostituto dell’esistente. Crescerà a fianco dell’economia tradizionale con un ruolo complementare: le persone vorranno andare una volta al ristorante e un’altra partecipare a una cena Gnammo, oppure prendere una stanza in albergo e successivamente cercare un alloggio su Airbnb.”