Per l’Italia che sogna l’economia circolare la vita non è affatto semplice. Consumatori, aziende, gestori, consorzi di riciclaggio devono districarsi in una giungla, nella quale le buone intenzioni di prevedere tutto e di regolare tutto, creano muri, divisioni minuziose, a volte artificiose. Ma anche infidi spazi interstiziali nei quali tornano a infilarsi cattive pratiche. 

Nella gestione dei rifiuti ci sono condotte virtuose passibili di infrazione che sono ormai tollerate. E altre non peggiori che non lo sono. Ci sono troppe norme, alcune in contraddizione tra di loro. E di mezzo rischiano di andarci i cittadini e gli operatori del settore. In qualche caso si è trovata una soluzione, come per le batterie per piccoli apparecchi elettrici, per le quali si era storicamente aperto un problema. Non pochi negozianti avevano realizzato nei loro esercizi commerciali, per venire incontro alle esigenze dei clienti e raccogliere pragmaticamente un rifiuto pericoloso, degli stoccaggi temporanei “di fatto”, che sono stati resi legali, senza prevedere registrazione e autorizzazione, solo dall’articolo 6 del decreto legislativo 188 del 2008, che recepisce la direttiva comunitaria 2006/66/CE. 

Per un problema al quale è stata trovata soluzione, parecchi altri rimangono aperti. 

Resta ancora irrisolta la questione dei punti di raccolta dei toner e delle cartucce, tecnicamente rifiuti speciali da stampa informatica esausti, che di fatto è una gestione che non potrebbe essere effettuata senza autorizzazione dai negozi che vendono “consumabili” da ufficio, e che è quindi – quando l’autorizzazione manca – passibile di infrazione, anche se di fatto viene tollerata. Da notare che se i privati possono conferire alle isole ecologiche, le aziende e i titolari di partite Iva no. È previsto, infatti, per tutti i titolari di partita Iva l’obbligo di avvalersi di recuperatori-rigeneratori autorizzati al trattamento: e non conta se si è uno studio professionale che consuma tre toner all’anno o una azienda che ne usa mille. La Corte di Cassazione ha ribadito (sentenza n. 23971/2011) la corresponsabilità del produttore dei rifiuti “che non si avvale di soggetti autorizzati, non ottempera alla preventiva verifica di tutte le autorizzazioni e che non si accerti dell’effettiva e oggettiva attività di recupero o smaltimento dei rifiuti prodotti, principi posti dall’articolo 178, comma 3, Dlgs 152 del 2006”. Ma per ora, almeno per i privati, prosegue la pratica di lasciare il toner nel negozio che vende la cartuccia nuova. 

Un altro interessante caso di condotte virtuose che rischiano di essere sanzionate si è aperto con la nascita delle ecopiazzole, prevista dal decreto ministeriale dell’8 aprile 2008. La norma, al punto 37, prevede che gli inerti (miscele di cemento, mattoni, ceramiche) possano essere portati nelle isole ecologiche solo nel caso di “piccoli interventi di rimozione eseguiti direttamente dal conduttore dell’abitazione”. Perché il conduttore ma non il locatore? Mistero. Come è passibile delle più ampie interpretazioni anche il successivo punto 38, che stabilisce che – sempre nel caso di “piccoli interventi di rimozione eseguiti direttamente dal conduttore” – sia possibile conferire “rifiuti misti dell’attività di demolizione e costruzione”. Come dire, un mondo. Tutto questo crea disordine, e nel disordine c’è spazio per chi cerca di fare le cose per bene, ma anche per chi se ne approfitta. Un bel problema per i gestori delle isole ecologiche. Un esempio è il recupero e smaltimento degli pneumatici. Il decreto apposito prevede che giustamente nelle isole ecologiche possano essere recuperati solo pneumatici provenienti da utenze domestiche. Ma se, poniamo, un cittadino poco scrupoloso abbandona due copertoni fuori dall’ingresso dell’isola ecologica il gestore dell’impianto o il Comune non può prenderli e portarli nell’isola: deve chiamare lo smaltitore autorizzato. Anche se gli pneumatici sono proprio davanti all’ingresso. 

Ma è tutto il sistema a risentire di una mancanza di flessibilità che è figlia della stratificazione di leggi e decreti che, nel tentativo di normare tutto il possibile, hanno creato una selva di microcategorie e di disposizioni nelle quali l’errore è dietro l’angolo. 

“C’è un eccesso di normazione – osserva Paola Ficco, giurista ambientale, già componente del Comitato Ecolabel Ecoaudit Sezione Emas Italia, nonché esperto legislativo del ministero Attività produttive, del ministero dell’Ambiente e membro dell’Albo gestori ambientali – del quale non si sente il bisogno. Ma ormai è un processo irreversibile: si complica quello che potrebbe essere semplice. E nulla sembra indicare che questa tendenza possa invertirsi. È in arrivo uno schema di decreto sui Raee con altre definizioni di stoccaggi. E i problemi si moltiplicano. C’è uno scollamento tra quanto previsto dalla normativa e gli stili di vita. E spesso il legislatore non capisce che una cosa è una condotta a livello industriale, altra sono i comportamenti dei cittadini: sono due piani diversi che andrebbero normati diversamente”. 

Prendiamo l’esempio delle biciclette. Una bici abbandonata è considerata rifiuto, quindi non può essere riutilizzata se non dopo controllo, pulizia e preparazione. Che gli operatori non professionali non fanno. Altra questione delicata, gli elettrodomestici. Una lavatrice senza spina elettrica è un Raee. Se la gestisce uno smaltitore, tutto bene; ma se la prende un piccolo laboratorio, la ripara e rimette la spina, commette un illecito, e non tutti ne sono consapevoli. Da notare che la nuova direttiva 2012/19/Ue sui Raee, che regola lo smaltimento dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, tende a incentivare il più possibile l’affidamento a smaltitori autorizzati, stabilendo il principio dell’“uno contro zero”, cioè la possibilità per il consumatore di consegnare in negozio lampadine e piccoli elettrodomestici anche senza doverne comperare di nuovi. E per il consumatore è un indubbio vantaggio perché riduce la tentazione di rivolgersi a smaltitori non autorizzati. 

Ma talvolta, come nel caso degli abiti usati il confine è sottile. 

Su questa materia è spesso intervenuta la magistratura, che ha cercato di fornire interpretazioni innovative. In una sentenza la Cassazione penale (30/07/2013, n. 32955) ha confermato la sussistenza del reato di traffico illecito di rifiuti in una fattispecie consistente nella “illecita condotta di una pluralità di soggetti che aveva organizzato la raccolta di abiti dismessi e accessori, prodotti come rifiuti urbani da parte di privati e, previo trasporto presso ditte che fungevano da centro di smistamento, li avevano affidati alla vendita presso il mercato interno ed estero, in assenza del trattamento legislativamente previsto per il recupero, configurando così i reati di associazione a delinquere, attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e falso”. La stessa sentenza ha anche stabilito che gli indumenti usati possono essere considerati come rifiuto soltanto dopo operazioni di raccolta differenziata e, in generale, di dismissione da parte dei precedenti proprietari. In tutti gli altri casi, nei quali non esiste una volontà di dismetterli, ma al contrario c’è il riutilizzo in un diverso ciclo di consumo, non si può parlare di rifiuti ma di vere e proprie merci. Il che significa che occorre una contestualizzazione. “La nozione di rifiuto – precisò la Corte di giustizia europea nel 1997, sentenza Tombesi – va interpretata dinamicamente. Ciò implica che la definizione di rifiuto va interpretata in senso lato”.

Ma questo dovrebbe essere recepito anche dalla normativa, specie se si vuole davvero far partire l’economia circolare. “Per avviare dei cicli virtuosi – osserva Paola Ficco – le leggi devono cambiare. Oggi il rifiuto può essere solo smaltito o recuperato, il che significa che per il suo riutilizzo serve una preparazione che deve essere autorizzata mediante una procedura complessa in carico a Regioni e Province. Si devono pagare fidejussioni, va predisposto un formulario, si devono utilizzare trasportatori autorizzati. 

Ciò va bene per l’industria del riciclo. Ma per piccole attività, per piccoli numeri, non è fattibile. Anche perché espone chi si mette in gioco, spesso in perfetta buona fede, a un fortissimo rischio. È chiaro – prosegue Paola Ficco – che la definizione di rifiuto, se davvero si vuole l’economia circolare, deve cambiare e si deve tornare al concetto di abbandono. Bisogna riposizionare i termini della questione, essere sereni nei confronti dei rifiuti considerandoli davvero delle risorse. E poi la normativa è troppo farraginosa: le norme vanno rese più chiare, senza una serie infinita di eccezioni. Quali condotte sono lecite e quali no, io lo devo sapere prima e in maniera semplice.” 

Ancora una volta uno dei problemi è l’Europa, perché nella bozza di direttiva sull’economia circolare la definizione di rifiuto non cambia. E così, da un lato si dice che molti materiali sono risorse e non rifiuti, ma per la norma sono ancora rifiuti. E il sospetto è che di circolare, nella gestione dei rifiuti, per adesso c’è solo la burocrazia. 

 

 

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