Il nemico giurato della circular economy è la green corruption: la sua esatta antitesi, la sua tomba. Un nemico liquido che si nutre e s’ingrassa di inefficienze burocratiche e pessime governance nella gestione delle risorse ambientali, di malaffare, di mancanza di etica e di responsabilità collettiva. Nemico ben peggiore delle lobby ancora aggrappate alle fonti fossili.
Ovunque nel mondo ma principalmente nei paesi con apparati istituzionali ed economici fragili o in via di transizione, l’uso della corruzione per depredare beni ambientali è sempre stata normale strategia di politica economica. Rimedio sbrigativo per accumulare denaro senza troppi scrupoli. Soprattutto nei paesi africani, così come in quelli asiatici e del Sud America, la corruzione è servita per rapinare biodiversità a beneficio dei ricchi mercati occidentali: disboscare, importare scorie tossiche dai paesi industrializzati in cambio di armi, come stava tentando di dimostrare la giornalista Ilaria Alpi, assassinata in Somalia il 20 marzo 1994.
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Proprio a causa di questa mattanza corruttiva, la Convenzione Cites, firmata a Washington nel 1973 e a cui aderiscono 182 paesi, ha inserito nelle liste di specie a rischio di estinzione più di 13.000 specie di mammiferi e uccelli, migliaia di rettili, anfibi e pesci, milioni di specie di invertebrati e circa 250.000 di piante.
Uno dei traffici più spregevoli, e al tempo stesso remunerativi grazie alla corruzione e ai vari sistemi criminali, è diventato il commercio illegale di pelli di rettili e dei loro derivati. Pari secondo l’Onu a circa 8 miliardi di dollari all’anno, è riuscito a confondersi con i flussi regolari, portando finora a rischio di estinzione un quinto delle specie conosciute. Rispetto alla mole impressionante dei commerci, i controlli rischiano di limitarsi solo alle carte esibite, che troppe volte raccontano un mondo completamente diverso da quello reale. A livello internazionale – solo nel periodo 2008/2012 – il numero di esemplari vivi protetti movimentati è stato di circa 5 milioni, mentre sono state esportate 11,2 milioni di pelli, per un totale di 372 specie interessate (Cfs, 2015), tutte incluse nell’Appendice II della Cites. È soprattutto il mercato del lusso legato all’industria calzaturiera e dell’abbigliamento (pelli di coccodrilli e affini, pitoni e affini) ad alimentare la domanda per il mercato nero. Il compito della corruzione è di creare margini di guadagni tra i passaggi delle filiere internazionali, facendo lievitare il valore monetario dei singoli animali, dai 30 euro pagati al raccoglitore che rappresenta il primo anello della filiera fino a più di 50.000 euro per un solo capo di alta moda (Progetto Civic, 2016). Come fanno notare fonti investigative Cites, la corruzione è determinante per aggirare i controlli e aggiustare le certificazioni richieste, legittimando network criminali attivi soprattutto nei paesi di origine dei rettili in Asia, Africa e Sud America: dalle catture ai trattamenti, passando per i depositi di pelli, prima che giungano presso i laboratori artigianali europei, italiani e francesi soprattutto. L’enorme divario economico tra i paesi di origine delle pelli e quelli di vendita finale fa il resto: una bustarella intascata da un operatore addetto ai controlli nella prima fase della filiera può valere anche un anno di stipendio.
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Altro settore cruciale della green corruption è la filiera del legno, soprattutto pregiato e protetto dalla Convenzione Cites. Secondo dati del Parlamento europeo (2007), il 35% del legname importato nell’Unione europea nel 2006 proveniva da risorse illegali, prevalentemente da Russia, Indonesia e Cina. Non solo: quasi l’80% del taglio delle foreste in Amazzonia è fuori legge o avviene senza permessi di taglio. Tra agosto e settembre 2014 Greenpeace ha usato nella foresta amazzonica brasiliana la tecnologia Gps per tracciare il mercato criminale legato al taglio abusivo e successiva commercializzazione del legname, dimostrando come l’industria del legno nello Stato del Parà sia in parte complice di questo mercato arrivando a fornire la documentazione utile per viaggiare all’estero.
Il taglio illegale è dunque il primo passo, segue il transito dalle segherie (spesso vere lavatrici di legnami tagliati illegalmente), il trasporto e la commercializzazione (diretta o tramite intermediari). Di solito i gruppi criminali si avvalgono di élite corrotte, pubblici funzionari e personale dei corpi di polizia messi regolarmente a busta paga, tessere indispensabili per reggere i traffici transfrontalieri. In Europa, l’area dei Balcani è tra le più esposte ai traffici illeciti di legname tramite apparati corruttivi. È da qui, dalla Balkan route, che arriva nel resto d’Europa buona parte del legno pregiato per i più disparati utilizzi. Come l’acero usato in Italia per costruire i migliori violini al mondo.
La facilità nell’aggirare i controlli, la difficoltà oggettiva nel certificare le procedure autorizzatorie dei movimenti e nell’applicare concretamente meccanismi di due diligence e di compliance, e soprattutto i notevoli benefici attesi, sono condizioni oggettive che spianano la strada alla green corruption.
La gravità e la diffusione della corruzione nel saccheggio ambientale è testimoniato anche dal numero di persone uccise a causa del loro impegno a tutela delle risorse naturali. Dal 2002 al 2013 se ne sono contate ufficialmente 908, di 35 diverse nazioni, con una media negli ultimi quattro anni di due attivisti uccisi a settimana. Ma altissima è l’impunità per questi reati: solo 10 criminali sono stati catturati e puniti. Le aree geografiche più colpite risultano, dai casi noti, l’America Latina e il Sudest dell’Asia.
In molti paesi, Ong, movimenti politici e semplici cittadini hanno iniziato a mobilitarsi per tentare di arginare la deriva corruttiva, ovviamente laddove è possibile manifestare. Uno dei casi più recenti riguarda il Marocco, dove, a causa dell’arrivo di 2.500 tonnellate di rifiuti speciali dall’Italia, l’associazione nazionale per la lotta alla corruzione di Rabat ha scatenato una protesta popolare impressionante. Lo stesso sta succedendo in Tunisia e a macchia di leopardo nell’Est Europa, e ancora in Sud Africa, Nigeria, Brasile, Colombia, El Salvador, Libano, Afghanistan.
Il legame tra Pil e reati ambientali: il caso Italia
Oltre all’evidenza investigativa, il forte legame tra reati ambientali e corruzione è dimostrato anche facendo ricorso alle scienze sociali. Grazie all’analisi quantitativa curata dall’economista Filippo Reganati dell’Università La Sapienza, utilizzando l’indice di correlazione di Pearson (tarato su scala regionale e per l’arco temporale 2007-2011) tra il numero di reati ambientali – comprese le denunce e gli arresti – con le condanne per corruzione (artt. 318-322 codice penale) e con il Pil pro capite, ne viene fuori una relazione positiva e statisticamente significativa tra reati ambientali e condanne per corruzione, e una speculare correlazione negativa e statisticamente significativa con il Pil pro capite regionale. Ciò significa che ecoreati e corruzione vanno di pari passo e si articolano sul territorio seguendo una loro intima affinità. L’indice di Pearson ci dice anche che più alto è il Pil pro capite, meno alto è il tasso di reati ambientali accertati. Sotto questa luce, i reati ambientali appaiono particolarmente effervescenti nelle regioni con le peggiori performance economiche, dove l’economia langue in schemi vecchi e stanchi, innestando una spirale perversa e con risultati socio-ambientali disastrosi.
Al medesimo risultato è arrivato Alberto Vannucci dell’Università di Pisa, seppur partendo da un indicatore diverso, più qualitativo: il Quality of Government dell’Università di Göteborg, elaborato sulla base di un sondaggio con domande relative sia alle percezioni sia alle esperienze personali di tangenti. Anche in questo caso, utilizzando i dati del Rapporto Ecomafia 2013, nelle regioni con il tasso più alto di infrazioni, arresti e denunce in materia ambientale si registra il numero più alto di condanne per corruzione.
Risultati che confermano come la buona governance in campo ambientale, la qualità del capitale sociale e l’adozione di modelli economici sostenibili e fortemente legati al territorio, sono lo strumento migliore per la tutela dei beni comuni e per sbarrare la strada al malaffare. Oltre a difendere gli ecosistemi, dunque, la circular economy porta nel suo Dna i cromosomi per guardare avanti nella direzione giusta, facendo a meno della green corruption.
Con la globalizzazione s’è allargato anche il mercato della green corruption. Come spiega Marco Arnone, più i mercati si allargano e si intrecciano a livello globale più monta la corruzione, sfruttando l’utilizzo di schemi societari tra differenti paesi che di fatto rallentano l’esercizio delle giurisdizione penali. Per Arnone, la globalizzazione dei mercati ha anche evidenziato che alcuni paesi sono più propensi di altri a “esportare” corruzione. Alcune multinazionali sono infatti più inclini di altre a corrompere i pubblici ufficiali del paese dove operano, “esportando”, quindi, corruzione. Esiste, infatti, una relazione positiva tra livello di corruzione interna e livello di corruzione esportata dai singoli paesi: dove il grado di corruzione è alto, gli operatori tendono a esportare questa tipologia di cultura di impresa nel resto del mondo.
I costi economici e ambientali sono enormi. Solo in Italia, negli anni 2001-2011 si sarebbero persi circa 10 miliardi di ricchezza per colpa della corruzione in campo ambientale (dati Legambiente, Libera e Avviso Pubblico, 2012). Sempre nel nostro paese, Legambiente negli ultimi sei anni ha censito almeno 302 inchieste di grande rilievo nazionale, concluse con 2.666 persone arrestate e 2.776 denunciate, coinvolgendo 68 procure nazionali (Ecomafia 2016, Edizioni Ambiente).
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La green corruption è, in sostanza, lo strumento usato per addomesticare e aggirare leggi e regolamenti, trovando l’habitat ideale soprattutto nei meandri dell’economia lineare, esasperando il classico meccanismo di privatizzazione dei profitti e di socializzazione dei costi ambientali e sociali. Si regge sulla forza del dogma dell’homo oeconomicus cantato a squarciagola dalle teorie neoclassiche, l’attore estremamente utilitarista, razionale e amorale che guida l’azione economica verso la massimizzazione dei propri fini, senza curarsi dei disastri lasciati dietro di sé (Karl Polanyi, 1944). La corruzione è per definizione un crimine razionale (Gary Becker, 1968), appunto. Se l’azione economica si sgancia da considerazioni sociali ed etiche e insegue solo l’utilità economica, è facile che le matrici ambientali e i beni comuni siano i primi a cedere sotto i colpi delle ciniche e razionali regole del mercato e dell’intermediazione criminale. La Tragedia dei beni comuni, ammoniva Garret Hardin negli anni Sessanta.
Inoltre, la moneta corruttiva è particolarmente efficace tra le pieghe della normativa ambientale incardinata sul paradigma del “Comanda e controlla”, che stabilisce standard ambientali minimi (cioè tassi di inquinamento accettati) che tutti debbono rispettare – soprattutto chi fa impresa – demandandone la verifica in concreto a un apparato tecnico-burocratico articolato su vari livelli geografici, dove nei margini di discrezionalità soggettivi e nelle inefficienze procedurali si generano spazi enormi per i mercati illeciti e i sistemi clientelari. E più le norme ambientali si rinforzano più si alza il prezzo della corruzione. Non a caso, esiste ampia letteratura economica che individua tra le condizioni che favorirebbero il ricorso alla corruzione l’elevata pressione tributaria, l’eccessiva regolamentazione dei mercati legali e della regolamentazione burocratica in genere, l’ingente spesa pubblica (Centorrino, 2010).
Convenzione Cites – Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora, www.cites.org/eng
Immagine in alto: vettoriale di Gan Khoon Lay - the Noun Project