Il colpo di freno del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – ha bloccato la direttiva sull’economia circolare che proibisce di gettare in discarica i materiali riciclabili e obbliga a riciclare il 70% dei rifiuti urbani e l’80% dei rifiuti da imballaggi entro il 2030 – fa venire in mente un film già visto in Italia. È a Roma che una classe di governo con scarsa cultura ambientale ha a lungo sottovalutato il potenziale delle rinnovabili concedendo sussidi all’energia pulita nella convinzione che si trattasse di spiccioli, che sole e vento andassero bene per le case di campagna di qualche hippy invecchiato ma non potessero scalfire gli interessi delle multinazionali che da oltre un secolo dominano con tutti i mezzi la scena del petrolio.
Sappiamo come è andata. Oggi più di una lampadina su tre si accende grazie all’energia pulita e il nuovo settore ha creato decine di migliaia di posti di lavoro. Ma proprio mentre si traevano i vantaggi economici di questa scelta (sia pure non ben calibrata nella graduazione temporale degli incentivi) è scattato un colpo di freno mirato più a punire che a risparmiare. Si sono persi migliaia di posti di lavoro. Si è ceduto terreno su un settore strategico proprio mentre i paesi leader avanzavano dimostrando che la crescita delle fonti rinnovabili è irreversibile. Si continua a pagare in bolletta il prezzo dell’innovazione ma, a differenza di quanto avviene in Germania dove la cifra è analoga e il percorso programmato, si butta via parte dei benefici.
Ora sembra che la scena possa ripetersi a livello europeo coinvolgendo l’altra gamba che sostiene un’economia capace di guardare lontano, quella del recupero della materia: è Bruxelles a leggere in ritardo le potenzialità dell’economia innovativa e a spaventarsi per i contraccolpi che può generare sui settori della old economy. Eppure proprio gli esperti della Commissione avevano messo nero su bianco le potenzialità della bioeconomia, asse centrale del recupero della materia: 2.000 miliardi di euro di fatturato, 9% dei posti di lavoro, la possibilità di crearne altri 130.000 nell’arco di 10 anni, una resa di 10 euro di fatturato entro il 2025 per ogni euro investito in ricerca.
Le analisi degli esperti che guardano verso il futuro saranno cancellate dal desiderio di non disturbare i potentati del secolo scorso? Molto dipenderà dalla capacità di reazione dei cittadini europei. Se crescerà la pressione per spostare l’attenzione dalle speculazioni finanziarie che si giocano sulle frazioni di secondo alle attività che producono benefici lungo i decenni, l’esitazione dell’Unione europea potrebbe essere solo temporanea. Perdere la leadership sulla bioeconomia e sulla sharing economy può infatti rivelarsi fatale per la capacità innovativa necessaria alla ripresa del Vecchio Continente. Solo per citare alcuni esempi: per le bioplastiche si prevede una crescita mondiale del 500% tra il 2011 e il 2016; l’economia condivisa ha dato prova di sé con l’exploit sul car sharing che nel 2014 è dilagato in Italia e cresce velocissimo nel mondo; nella Ue a 28 l’obiettivo del 50% di riciclo dei rifiuti urbani vale 875.000 posti di lavoro.
Non basta. Le cifre che popolano questo numero di Materia Rinnovabile mostrano che il trend attuale di consumo del pianeta contiene uno squilibrio capace di minare le possibilità di recupero e stabilizzazione dell’economia: un cambio di passo appare necessario a livello globale. Come scrive Aldo Femia, la specie umana sposta ogni anno tra i 50 e i 60 miliardi di tonnellate di roccia, pietre, sabbia e ghiaia: una quantità doppia rispetto a quella eruttata dai vulcani oceanici, tripla rispetto a quella portata al mare da tutti i fiumi, 60 volte maggiore di quella dovuta all’erosione eolica.
Aver trasformato il pianeta in miniera produce un impatto sempre più pesante perché si devasta il territorio nel momento del prelievo delle materie prime e si inquinano gli ecosistemi nel momento del rilascio dei rifiuti. Un rilascio che in buona parte avviene usando l’atmosfera come discarica: i 36 miliardi di tonnellate di CO2 emessi annualmente bastano da soli a far suonare il campanello d’allarme per il disastro climatico che si sta configurando.
Sono danni che potrebbero in buona misura essere evitati rimettendo in ciclo quello che si preleva, attraverso una riconversione del sistema produttivo che può dare – e sta già dando – risultati interessanti sotto il profilo economico oltre che ambientale. Nel 2011 – ricorda in queste pagine Antonio Pergolizzi – l’industria italiana ha impiegato circa 35 milioni di tonnellate di materie prime provenienti dal recupero dei rifiuti e in 10 anni ha raddoppiato il numero degli occupati nelle imprese del riciclo (da 12.000 a più di 24.000).
Ma si potrebbe fare di più. Il saldo italiano nel campo della materia necessaria a sostenere il sistema produttivo è ancora negativo per 4,3 milioni di tonnellate e per un valore di 2,2 miliardi di euro: buttiamo via beni preziosi e poi li ricompriamo. Non è più tempo di sprechi. C’è la possibilità di una crescita ulteriore del settore del riciclo che faccia da volano a un’economia ad alto livello di innovazione e di coesione sociale. Basta guardare dalla parte giusta. Verso il futuro.