Biobased, neoclassici ed ex novo: sono questi i neomateriali che rappresentano i nuovi scenari della materia. Di origine vegetale o biologica, ricavati dalle miniere urbane oppure recuperati dagli scarti sono i protagonisti del paradigma dell’economia circolare. Materia Rinnovabile ha chiesto ad Anna Pellizzari, che assieme a Emilio Genovesi ha curato il volume Neomateriali nell’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2017), di illustrarne le specificità.
Quali sono i macrofattori che stanno modificando il quadro delle materie a disposizione delle industrie (demografia, limitatezza delle risorse, pressioni sugli ecosistemi)?
“Il modello industriale attuale, che si basa di fatto ancora su un percorso lineare produco-consumo-dismetto, parte dal presupposto che le risorse siano infinite. Ovviamente non è così: la pressione data dal un lato dal boom demografico, dall’altro dall’espansione industriale dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina, ndr) e di tutti gli altri in via di sviluppo, ha determinato una contrazione nella disponibilità di materie prime, con forti tensioni sui mercati internazionali. A ciò si aggiunge la richiesta di materiali scarsi per loro natura – come alcuni metalli e terre rare – ma necessari per esempio alla fabbricazione dell’hardware nell’elettronica.
Specularmente, le modalità di distribuzione e la riduzione della durata di utilizzo dei beni (un cellulare, in media, viene dismesso dopo meno di due anni; per non parlare di prodotti più complessi come elettrodomestici, automobili, arredamento) generano quantità inimmaginabili di rifiuti. Oggi in Europa ben 6 tonnellate di materie prime, delle 16 complessive consumate individualmente all’anno da ogni cittadino dell’Unione, diventano scarti. Risulta evidente che i due fenomeni devono incrociarsi, sviluppando logiche di domanda e offerta per cui gli scarti possano diventare risorse.”
Quali sono i “padri fondatori” dell’economia circolare? Antecedenti storici, libri, teorici…
“È difficile stabilire una paternità in merito al concetto di ‘economia circolare’ per il fatto che si è sviluppato nel tempo grazie al contributo di molti. Al momento la definizione di circular economy più completa è quella della Ellen MacArthur Foundation, che ha proposto il famoso schema che illustra – dividendo i cicli di produzione in naturali (‘biologici’) e artificiali (‘tecnici’) – le modalità virtuose secondo cui il modello lineare produco-consumo-dismetto può essere ‘curvato’ facendo sì che da tutte e tre le fasi si possa ritornare all’origine. Questo attraverso politiche attive di riciclo, riuso, riparazione, ma anche grazie all’allungamento della durata della vita dei prodotti, all’efficientamento dei processi, alla riduzione degli sprechi e alla progettazione intelligente.
Il concetto in sé non è nuovo: l’idea di un circuito circolare dei materiali venne presentata già nel 1966 da Kenneth E. Boulding nel suo articolo ‘The Economics of the Coming Spaceship Earth’. Anche se, a ben guardare, tracce di economia circolare si trovano anche nell’antichità, dove il riuso dei beni a fine vita e la gestione controllata delle risorse erano prassi abbastanza consolidate.
Oggi uno dei pensatori più originali è senz’altro Gunter Pauli, che ha teorizzato la blue economy (la blue economy punta alla creazione di un modello economico globale sostenibile ispirato alla biomimesi e al funzionamento della natura, dove non esistono rifiuti, ndr).”
Il capitolo introduttivo del vostro libro si intitola “Dalla linea al cerchio”, una formula che ben sintetizza la trasformazione in atto. Di cosa si tratta e cosa implica per chi progetta, costruisce o produce, smaltisce e recupera?
“Il superamento dello schema lineare punta a reimmettere nel ciclo produttivo la massima quantità possibile (tendenzialmente tutto) di risorse – laddove per ‘risorsa’ non si intende solo la materia fisica che compone il prodotto, ma anche gli elementi collaterali che entrano nel processo di trasformazione, come aria, acqua o l’energia impiegata nella produzione sia se generata da fonte fossile o rinnovabile. In pratica il superamento dello schema lineare non si limita a dismettere e riciclare il prodotto finito, ma si estende a varie ‘policy di rientro’, che possono essere indirizzate ai diversi livelli della catena produttiva: dall’autoriparazione fino allo smaltimento e al ritorno all’origine nella catena che porta a una nuova produzione.
L’idea di economia circolare va oltre il ciclo del singolo prodotto, proponendo sinergie tra diverse imprese finalizzate al riutilizzo di ciò che per un’industria è scarto e che per altre può essere risorsa. Oppure immaginando modelli di consumo diversi, come il noleggio, in cui la gestione, e quindi in ultima analisi la responsabilità, del manufatto rimane in capo all’azienda, la quale riesce a centralizzare tutti gli aspetti da curare (riparazione, aggiornamento, sostituzione pezzi, fino al ritiro e smaltimento finale) in maniera più competente e quindi più efficiente.
Lo studio di McKinsey commissionato dalla Ellen MacArthur Foundation individua cinque strategie principali:
- filiera circolare;
- recupero e riciclo;
- estensione della vita di un prodotto;
- sviluppo di piattaforme di condivisione;
- passaggio da prodotti a servizi.
Far riparare la lavatrice (e quindi, come azienda produttrice, renderla più facilmente riparabile), per esempio, è un’azione che rientra nell’economia circolare. Lo è anche, per un’azienda, utilizzare il legno di 100 piante per costruire cassetti e metterne a dimora altrettante. Ricondurre questi singoli elementi entro una policy unitaria che punti a un impatto zero è l’obiettivo dell’economia circolare.”
C’è la distinzione tra materiali biobased, materiali neoclassici ed ex novo materials. Di cosa si tratta?
“Biobased sono quei materiali di origine vegetale o comunque biologica, costituiti parzialmente o totalmente, da componenti organiche che, come tali, vanno considerate rinnovabili in quanto riproducibili secondo le modalità e i ritmi della vita biologica. Tra questi materiali, i più innovativi sono i biopolimeri che sostituiscono, con prestazioni sempre più interessanti, i tradizionali materiali plastici da fonte fossile, nonché quei materiali ‘coltivati’ a partire da batteri o miceli, in cui ai vantaggi della componente organica si aggiunge la sensibile riduzione dell’energia impiegata in trasformazione.
La seconda famiglia di materiali circolari proviene, invece, dalle cosiddette ‘miniere urbane’ o ‘miniere industriali’. Sono quelli che fino a poco tempo fa chiamavamo ‘rifiuti’ e che oggi si candidano a diventare nuove materie prime. Si tratta di materiali già da tempo sottratti alla discarica attraverso filiere industriali consolidate e quindi definiti ‘neoclassici’: carta, vetro, alluminio, acciaio, legno e – più recentemente – le materie plastiche e la gomma, ma anche i rifiuti elettronici.
A questi si aggiunge una terza famiglia, appena affacciatasi nel panorama delle materie prime, che punta al riutilizzo dei materiali fino a ieri considerati irrecuperabili, per motivi economici o di processo, e destinati inesorabilmente all’incenerimento, alla discarica o allo stoccaggio. Materie come gli scarti della lavorazione industriale degli alimenti, ma anche le terre di spazzamento delle strade, polveri da inceneritore, reflui gassosi, fino a rifiuti urbani di difficile recupero come i pannolini o il mix plastico. Sono gli ex novo, ovvero materiali dati per ‘finiti’ e che invece, grazie allo sviluppo di nuovi processi e filiere, rientrano nel ciclo produttivo, spesso ripartendo da zero, ovvero utilizzati come nuova materia prima vergine.”
Quale, tra gli svariati materiali/filiere raccontati nel libro, è il più interessante? E perché?
“Sicuramente la famiglia più affascinante è quella degli ex novo perché è quella dove risiedono le sfide maggiori in termini di creatività e sviluppo di tecnologia. Gli ex novo, di fatto, prevedono una progettazione a 360°: individuazione degli scarti più interessanti (ovvero quelli di cui esiste una fornitura costante che consenta lo sviluppo di una filiera stabile); la creazione del modello di business, della filiera insomma comprensiva di logistica; lo sviluppo della tecnologia in grado di trasformare lo scarto. C’è poi l’idea di valorizzare materie che, di primo acchito, parrebbero senza speranza: polveri da inceneritore, terre di spazzamento delle strade, reflui e fanghi. Elementi a valore zero, o addirittura sottozero (ovvero che prevedono costi di smaltimento) che risalgono la catena del valore diventando piastrelle, materie plastiche, tessuti.”
Tra i settori su cui molti scommettono, e che sono elementi costitutivi della Quarta rivoluzione industriale, ci sono – tra gli altri – la robotica e le biotecnologie avanzate. Quali sinergie si possono individuare tra i nuovi materiali e questi settori in forte accelerazione?
“In generale, si può dire che questi neomateriali si inseriscono nello stesso paradigma industriale, che è appunto quello dell’economia circolare. Le sinergie sono diverse: la robotica e l’industria 4.0 hanno una serie di implicazioni concrete che coinvolgono anche la sfera dei materiali. In particolare su tematiche quali la riduzione degli scarti, attraverso processi produttivi innovativi, come per esempio la manifattura additiva, e la gestione di lotti piccoli pur rimanendo in ambito seriale, cosa che consente di ridurre le rimanenze. O la possibilità di ‘taggare’ le diverse componenti di un prodotto in modo da programmarne la sostituzione e quindi allungarne la vita. In questi ambiti i materiali intervengono fornendo soluzioni abilitanti, dalle materie adatte a essere trasformate con processi additivi, a sensori, tag, circuiti stampati e molto altro.
Anche le biotecnologie avanzate fanno grande uso di materiali biocompatibili i quali, in linea generale, si dividono in due macrocategorie: materie che potremmo definire ‘inerti’, ovvero che non interagiscono negativamente con l’organismo con cui vengono a contatto perché non rilasciano sostanze nocive, né vengono ‘attaccati’ come corpi estranei. Si tratta di quei materiali classicamente impiegati nel settore medicale, come per esempio il titanio. A questi si aggiunge una nuova generazione di biomateriali, che invece sono simulazioni di tessuti organici, i quali vengono creati con tecniche di ingegneria tissutale.”
Sarebbe la quadratura del cerchio, la scoperta della pietra filosofale: a che punto sono gli studi per associare nuovi materiali e progetti per assorbire la CO2 dall’aria?
“Il problema principale risiede nel basso livello energetico della CO2, una molecola a bassa reattività, che richiede enormi quantità di energia per interagire e trasformarsi in un altro composto, il che impatta negativamente sulla carbon footprint complessiva dell’intera operazione.
Mentre l’uso diretto della CO2 è ancora in fase sperimentale, e il suo vantaggio calcolato attraverso Lca non è così ovvio, il suo impiego indiretto è già in uno stadio più avanzato, come base per la formazione di polimeri intermedi nella catena di produzione dei poliuretani. Per esempio, la si può convertire in metanolo e successivamente in formaldeide e in poliossimetilene diolo, un building block per la formazione dei polioli (composti chimici molto importanti nella scienza dell’alimentazione e nella chimica dei polimeri, ndr). Il metanolo a base di CO2, già disponibile in commercio, è al centro di molti progetti che stanno dando risultati incoraggianti.”
Material ConneXion Italia, it.materialconnexion.com
Ellen MacArthur Foundation, Growth within: a circular economy vision for a competitive Europe, 2015; tinyurl.com/gnrrnz9