Tra confini planetari e confini sociali
Il concetto dei “confini planetari”, introdotto nel 2009 da un gruppo di eminenti scienziati riuniti da Johan Rockström dello Stockholm Resilience Centre, individua un set di nove processi interconnessi del sistema Terra (figura 1) essenziali per mantenere il pianeta in quello stato relativamente stabile che identifica il periodo geologico dell’Olocene. Uno stato dimostratosi negli ultimi 10.000 anni estremamente vantaggioso per l’umanità. Se sollecitati da pressioni eccessive originate dall’attività umana, tali processi potrebbero oltrepassare queste soglie biofisiche – alcuni su scala globale, altri su scala regionale – per produrre cambiamenti repentini, e a volte irreversibili, che metterebbero pericolosamente a repentaglio la base di risorse naturali da cui dipende il benessere dell’umanità.
L’equipe di Rockström ha definito la zona circoscritta all’interno dei nove confini come “uno spazio operativo sicuro per l’umanità”. Secondo le prime stime almeno tre dei nove confini sono già stati oltrepassati – cambiamenti climatici, ciclo dell’azoto e perdita di biodiversità – e le pressioni sulle risorse si stanno rapidamente avvicinando ai limiti globali previsti anche per altri (secondo le stime aggiornate ai primi tre si aggiungono ora l’uso del suolo, confine “di sicurezza” oltrepassato soprattutto a causa della deforestazione, e quello del fosoforo, ndR).
Il concetto dei nove confini planetari comunica efficacemente complesse questioni scientifiche a un vasto pubblico, mettendo in discussione le concezioni tradizionali dell’economia e dell’ambiente. Mentre l’economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una “esternalità” che ricade in gran parte fuori dell’economia monetizzata, gli scienziati hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra. Questi confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali a garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello dell’Olocene.
Eppure, anche se si stanno elaborando i dettagli per meglio definire la natura e la portata dei confini, c’è ancora un aspetto importante che manca nel quadro generale.
Il benessere umano dipende infatti tanto dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse al di sotto di soglie critiche naturali, quanto dal bisogno degli individui delle risorse necessarie a condurre una vita dignitosa e ricca di opportunità.
Tra i diritti umani di base e il tetto ambientale dei confini planetari si può quindi individuare una fascia a forma di ciambella, sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità (figura 2).
Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo chi si batte per il rispetto dei diritti umani ha sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro limiti ambientali. Questo spazio è una combinazione dei due e definisce una zona in cui sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale sono rispettati, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i diversi confini e al loro interno.
Anche per l’attività umana e i diritti sociali di base è possibile individuare i confini che oggi risultano oltrepassati. Da una prima valutazione, basata su dati internazionali, emerge che l’umanità è ben al di sotto del limite socialmente accettabile in otto dimensioni per cui sono disponibili indicatori comparativi. Per esempio, circa il 13% della popolazione globale è denutrita, il 19% non ha accesso a elettricità e il 21% vive in condizioni di estrema povertà.
Quantificare i confini sociali combinandoli a quelli planetari rende evidente la situazione fuori dalla norma dell’umanità (figura 3). Milioni di individui vivono ancora nella più abietta privazione, ben al di sotto della soglia socialmente accettabile. Oltretutto l’umanità nel suo complesso ha già superato molti dei confini planetari.
Questo è un chiaro indicatore di quanto finora sia stato profondamente iniquo e insostenibile l’andamento dello sviluppo globale.
Dinamiche tra confini
Qual è attualmente la fonte principale di stress dei confini planetari? Sono i livelli eccessivi di consumo di circa il 10% della popolazione mondiale e i modelli produttivi che richiedono un elevato impiego di risorse utilizzate da imprese che producono beni e servizi a uso e consumo di quella piccola parte di mondo che li può acquistare. Il 10% più ricco della popolazione mondiale detiene il 57% del reddito globale.
Sarà quindi cruciale fare un uso più equo ed efficiente di risorse tra i singoli paesi e al loro interno e trasformare gli stili di vita che richiedono un intenso impiego di risorse se l’umanità vorrà intraprendere un cammino di sviluppo che operi nella zona tra i confini planetari e quelli sociali.
Quali sono dunque le implicazioni di questo sistema di confini planetari e sociali nell’ottica di rivedere gli indicatori necessari a governare le economie? L’obiettivo prioritario dello sviluppo economico globale deve essere la prosperità in uno spazio equo e sicuro, ponendo fine al sovrasfruttamento delle risorse naturali.
Immaginate se il grafico a forma di ciambella dei confini sociali e planetari fosse riportato sulla prima pagina dei libri di testo di macroeconomia. Volete fare gli economisti? Allora prima di tutto ci sono alcuni dati di questo pianeta che dovete sapere: come ci sostiene, come reagisce alle pressioni eccessive di origine antropica, e come ciò metta a repentaglio il nostro benessere. Dovreste anche conoscere i diritti della sua popolazione e le risorse umane, sociali e naturali necessarie per realizzarli. Quando si accetteranno i concetti di confini sociali e planetari, il compito di un economista diventerà inequivocabilmente chiaro: concepire politiche e norme che aiutino a portare l’umanità entro i confini di uno spazio equo e sicuro dove sia possibile prosperare.
Una volta ridefinito il concetto di cosa sia una politica economica di successo, si devono modificare profondamente gli indicatori per orientare il percorso verso uno sviluppo equo e sostenibile. Quattro sono i cambiamenti chiave, già in corso e necessari a tal fine.
Primo cambiamento: contabilizzare non solo ciò che si vende ma anche ciò che si offre gratuitamente.
Secondo: prestare attenzione non solo al flusso di beni e servizi ma anche al monitoraggio delle materie prime che ne stanno alla base.
Terzo: prestare attenzione non solo agli aggregati e alle medie ma anche alla distribuzione. È l’effettiva distribuzione dei redditi, della ricchezza e della produzione all’interno di una società che determina il livello di inclusività dello sviluppo.
Infine, per creare un miglior quadro di strumenti di progresso socioeconomico occorre anche passare dagli indicatori monetari a quelli sociali e naturali. Non tutto ciò che conta può e deve essere monetizzato. Nelle valutazioni politiche deve essere data più visibilità e importanza a “indicatori sociali” quali il numero di ore di assistenza non retribuita offerta dai cittadini e a “indicatori naturali” quali i calcoli dell’impronta pro capite di carbonio, acqua, azoto e suolo.
La creazione di indicatori che vadano oltre il Pil è fondamentale, però implica nuove complessità e controversie. C’è una costante tensione tra gli indicatori dell’economia e dell’ecologia per stabilire quale lingua, quali concetti e quali misure definiranno l’emergente paradigma di sviluppo. L’economia ingloberà l’ecologia, attribuendo un valore monetario a tutte le risorse naturali, con tanto di prezzi ombra, sostituibilità e scambi di mercato? Avrà il predominio l’ecologia, prescrivendo uno spazio per l’attività economica entro limiti sicuri pensato per evitare soglie naturali critiche, espresse e governate esclusivamente attraverso l’evoluzione di indicatori naturali del pianeta? Oppure sarà possibile creare un quadro di strumenti di riferimento che integrerà le diverse realtà e nozioni?
Se sarà possibile creare tali indicatori olistici, questi dovranno essere di pubblico accesso, in modo da mettere gli individui in condizione di verificare l’azione dei decisori. Un cambiamento che offrirebbe ai governi, alla società civile e alle imprese uno strumento di navigazione di gran lunga migliore del Pil, che permetterà all’umanità di procedere in uno spazio equo e sicuro in cui tutti potremo prosperare.
L’articolo è un estratto dall’intervento di Kate Raworth “Definire uno spazio equo e sicuro per l’umanità”, pubblicato in State of the World 2013, a cura del Worldwatch Institute, edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna, Edizioni Ambiente, 2013.
L’economia circolare ci aiuterà
Intervista a Kate Raworth, di Marco Moro
Che ruolo possono svolgere la bioeconomia e l’economia circolare nel riconnettere economia, ambiente e società?
Il progresso verso un’economia basata maggiormente su un uso sostenibile di risorse rinnovabili può contribuire a portarci in quello spazio “sicuro ed equo per l’umanità”? A quali condizioni?
Se vogliamo avere una chance di stare dentro lo spazio sicuro ed equo della “ciambella” dobbiamo avere l’intelligenza di mettere l’idea di economia circolare al centro delle nostre economie. L’economia circolare è uno dei modi più diretti e dinamici per riportare le attività economiche entro i confini planetari. Ma se vogliamo che questa ci aiuti anche ad agire sulle fondamenta sociali, dobbiamo ragionare su cosa può implicare l’adozione di politiche e modelli di business a essa improntate. Di cosa dovrebbe trattarsi? Cercare di soddisfare le necessità in termini di salute, energia e cibo delle fasce a più basso reddito attraverso un approccio di economia circolare, coinvolgendo le comunità locali e le minoranze nella progettazione; promuovere misure focalizzate sulla creazione di lavoro, considerando gli effetti distributivi dello spostamento verso l’economia circolare.
Queste idee sono sintetizzate in una nota che ho redatto per l’International Institute for Environment and Development e pubblicata nel relativo sito web.
Quale può essere l’impatto di un’economia più efficiente dal punto di vista del consumo delle risorse? Lo sviluppo di un’economia circolare può condurre a una decrescita? Meno consumi, minore produzione, minore occupazione: è un rischio reale?
Oppure questi sviluppi potrebbero indurre un effetto positivo, creando una domanda aggiuntiva e stabilizzando le economie?
Se vogliamo vedere una continua crescita nelle economie delle nazioni più ricche, allora come prima cosa dobbiamo ripensare a cosa intendiamo con “crescita”, dal momento che gli attuali incrementi del Pil sono in buona parte generati da un ampliamento delle ineguaglianze sociali e del degrado ambientale. Più importante di un reddito nazionale costantemente in crescita è una sua distribuzione di gran lunga migliore di quella attuale, unita alla rigenerazione del capitale umano, sociale e naturale, da cui dipendono la nostra ricchezza e il nostro benessere. Mentre la transizione verso un’economia circolare continua il suo decollo, abbiamo bisogno di sviluppare una metrica adatta a cogliere la crescita di questa vera ricchezza.
Ritengo che oggi, nelle nazioni più sviluppate, abbiamo l’occasione per creare delle economie in cui la questione dell’andamento annuale verso l’alto o verso il basso del Pil non sia più considerata come il segnale fondamentale del successo, perché avremo più ricche e importanti misure di quel benessere che, in definitiva, tutti cerchiamo.
L’articolo di K. Raworth, S. Bass e S. Wykes, “Ten ways to secure social justice in the green economy” è disponibile online http://www.iied.org/ten-ways-secure-social-justice-green-economy