La Commissione europea, con il uso studio “Crescita Blu” ha valutato che l’industria del mare genera tra il 3-5% del Pil europeo (27 paesi), con variazioni dall’1,2% dell’Irlanda (2007), al 4,2% della Gran Bretagna. L’obiettivo
è di raggiungere valori vicini al doppio di queste cifre, entro il 2020. Tuttavia, stime più precise sono necessarie, ma purtroppo mancanti, se vogliamo identificare il volume d’affari che questo settore genera. I dati economici sono indispensabili per la gestione dei nostri sforzi di sviluppo, e per distribuire adeguatamente i fondi per la ricerca e l’innovazione. Qualsiasi investimento si giustifica quantificando il probabile ritorno, sia in beni materiali sia immateriali. Tuttavia, solo una piccola parte del vasto dominio trans-settoriale dell’economia blu è attualmente inventariata, controllata e descritta.
La punta dell’iceberg dell’economia blu è rappresentata dalle attività più tradizionali come la pesca, l’acquacoltura e il trasporto marittimo. Le attività più innovative, con il loro grande potenziale di crescita, sono invece solitamente escluse dai resoconti. La mancanza di dati sull’economia generata dalla biotecnologia marina è dovuta a una reale difficoltà di catturare le tendenze di queste attività produttive. Come riportato dal progetto Interreg Ue Atlantic Blue Tech (ABT), questo settore si basa principalmente su micro e piccole imprese, che spesso non hanno obbligo di rendiconto. Inoltre, quanto più sia innovativa la loro attività, maggiormente veloce appare la loro evoluzione, con aziende che nascono e vengono passate di mano o dismesse, nel breve periodo.
Diversi paesi europei hanno interiorizzato le direttive della Commissione adottando una specifica strategia marina. In Europa, questi includono Irlanda e Portogallo. La Norvegia ha, anche, da tempo, stabilito una strategia di ricerca di biotecnologia marina. Addirittura, la visione europea per il ruolo dei nostri oceani ha oltrepassato i confini europei e ispirato la politica di paesi anche molto lontani, e con diverse velocità di sviluppo, a livello globale.
Dal Canada, che ha chiamato “i nostri oceani: il nostro futuro”, e promosso una conferenza per l’innovazione marina nel 2013; ai piani più recenti del governo del Bangladesh, per una politica strutturata di utilizzo del loro ecosistema marino e dei suoi servizi. Un documento orientativo sull’economia marina, predisposto dal Ministero degli affari esteri del Bangladesh, riporta una zona economica esclusiva di 100.000 chilometri quadrati; e il Golfo del Bengala come il più esteso tra i 64 Grandi econo-sistemi marini (LMEs), classificati nel mondo dalla Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco.
Data la crescente attenzione che i mari stanno attirando, è di vitale importanza che la raccolta dei dati sia ottimizzata per il monitoraggio del loro stato ecologico e il loro valore socieconomico. È anche importante che la diversità del dominio dell’economia blu, che esiste al di là dei tradizionali settori della pesca e dell’acquacoltura, guadagni rappresentanza nell’Osservatorio sulla Bioeconomia della Commissione europea. Tuttavia, le due principali strategie Ue, Crescita Blu da un lato e Bioeconomia dall’altro, sembrano mancare un riferimento incrociato o una comunione di dati. Sarà necessario un ulteriore sforzo per scoprire e comunicare la complessità delle attività produttive derivanti dall’utilizzo delle risorse biologiche marine. A questo proposito, ci sono grandi aspettative che la prima Valutazione mondiale degli oceani, curata dalle Nazioni Unite, fornisca un modello di lavoro adeguato per descrivere lo stato di tutti i mari del mondo, valutandone al contempo gli aspetti sia ambientali sia economici e sociali; ovvero, inquadrando senza ombre il problema della sostenibilità della crescita blu.