Tuttavia, la capacità degli oceani è tutt’altro che infinita. Ricerche hanno mostrato il grande impatto dell’alterazione, spesso per mano dell’uomo, delle condizioni ambientali: inquinamento, riscaldamento globale e pesca eccessiva hanno lasciato il segno. Le conseguenze di questi fattori possono essere estremamente negative, e in alcuni casi irreversibili, per le varietà commercialmente più rilevanti di pesce, come merluzzo e salmone, per esempio; oppure, come osservato in questi ultimissimi mesi, sardine. Considerando che, invece, la popolazione mondiale sta crescendo (per raggiungere il traguardo di nove miliardi di persone nel 2050) la risorsa “biomassa” è diventata un lucroso prodotto di investimento.
Ciò è evidente da recenti manovre commerciali dell’industria e degli investitori; così come dagli sforzi dell’Europa per comprendere le opportunità di crescita blu associate alla bioeconomia. Un modo semplice per rilevare questo cambiamento è osservare la rapida trasformazione della terminologia associata ai prodotti di questa filiera.
Appena dieci anni fa, il materiale biologico scartato durante il processo di lavorazione del pescato veniva indicato come un “flusso di rifiuti del cibo” o, nella migliore delle ipotesi, un “sotto prodotto”. Il suo utilizzo era principalmente legato alla produzione di prodotti a basso costo: farine, oli, idrolizzati e mangimi.
Ma l’industria ha dovuto adattarsi a grandi cambiamenti che hanno influenzato le pratiche di utilizzo di tutti i pesci raccolti: il sistema delle quote di pesca, per esempio; o le enormi fluttuazioni delle popolazioni di pesce; e infine l’impossibilità di scaricare i sottoprodotti in mare e la conseguenza di dover sostenere i costi della gestione dei rifiuti. Sotto queste pressioni, sia i pescatori sia l’industria della lavorazione hanno maturato un improvviso interesse per l’innovativo utilizzo di queste materie fino a quel momento scartate.
Negli ultimissimi anni, questa necessità si è infine fortemente coniugata con le più avanzate conoscenze biologiche e capacità tecnologiche. Si è così scoperto che questi materiali biologici contengono una serie interminabile di nuovi composti, come lecitine marine, acidi grassi, enzimi e peptidi; i quali hanno già dimostrato una valenza importantissima in vari settori di applicazione, dalla medicina, alla nutrizione e ai processi industriali.
La percezione del valore di queste risorse è, quindi, oggi, finalmente cresciuto; tanto da aver recuperato dignità anche in termini semantici: ora si parla di “materie prime inutilizzate”. Il loro potenziale è fornire un servizio ancora più elevato di quello della preziosa carne sfilettata di pesce. Una politica dedicata alla gestione di queste materie prime inutilizzate potrebbe dunque essere necessaria per gestire la nuova ricchezza del mare che stiamo appena iniziando a scoprire.