Partiamo dal suo libro, che è considerato una vera e propria Bibbia dagli addetti ai lavori. Ci aiuta a comprendere dove sta andando l’industria chimica mondiale?
“L’industria chimica negli ultimi dieci anni ha iniziato gradualmente a spostare la propria attenzione dall’efficienza operativa e dalle commodities all’innovazione reale e alla convergenza tecnologica. La chimica sostenibile è destinata a diventare poco alla volta la norma nelle economie avanzate, mentre le economie emergenti saranno costrette a seguire, tanto più inizieranno ad applicare i regolamenti sempre più globali e stringenti.
La necessità di rendere più efficiente il consumo di energia e ridurre le emissioni globali di CO2 presenterà un costo rilevante per l’industria, ma soprattutto una opportunità di business enorme. In un mondo pronto a vivere con appena 4.000 grammi di CO2 pro capite al giorno entro il 2050, dai 28.000 grammi nel 2010, l’industria chimica, la tecnologia e l’innovazione sono destinati ad avere un ruolo formidabile. In tal senso la necessità di ridurre le emissioni e l’uso di energia rappresenterà la singola più grande opportunità di business nella storia umana, fino a 80.000 miliardi di dollari entro il 2050. L’industria chimica come un fattore chiave di soluzioni sostenibili sarà in prima linea.”
In questa logica la caduta vertiginosa del prezzo del greggio negli ultimi mesi non dovrebbe avere un impatto negativo sulla scelta di investire in risorse rinnovabili. È così?
“Ritengo proprio che sia così, perché l’impiego delle risorse biologiche da parte dell’industria chimica non è semplicemente trainato da ragioni economiche, ma dalla necessità di affrontare il cambiamento climatico e sviluppare una economia ecosostenibile.
A fondamento di tutte le innovazioni nella storia c’è il bisogno di risolvere un problema. Ma non deve essere l’industria a dire qual è il problema, devono essere i governi. All’industria spetta il compito di trovare la soluzione.
Mi consenta di farle un esempio storico: quando la fornitura di gomma naturale dal Sudest asiatico fu interrotta, all’inizio della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti chiesero all’industria chimica di impegnarsi nella ricerca e nella produzione di un’alternativa. Nacque così la gomma sintetica, denominata GR-S (Government Rubber-Styrene), che fu poi commercializzata in tempi record per soddisfare le esigenze degli Stati Uniti e dei suoi alleati durante la Seconda guerra mondiale.”
Restando sul lato della domanda, quanto ritiene sia importante la richiesta di prodotti biobased da parte dei consumatori, che sono disponibili – secondo alcune analisi di mercato – anche a pagare un premium price pur di acquistare prodotti sostenibili?
“Credo non sia un fenomeno rilevante, se guardiamo la questione in termini macroeconomici. Mettiamo anche che un 5-10% dei consumatori sia disposto a pagare un sovrapprezzo per un prodotto green. Parliamo solo dei paesi più ricchi: quindi 10 milioni in Europa, altri 10 negli Stati Uniti. Non è questo che può trainare il mercato della chimica.”
Crede allora che programmi come il Biopreferred degli Stati Uniti, che interviene per sostenere la domanda, obbligando le autorità pubbliche ad acquisti green e inserendo un sistema di standard ed etichettature per i prodotti biobased, possano essere utili per favorire la bioeconomia?
“Io sono fermamente convinto che i governi abbiano un ruolo essenziale nel guidare il cambiamento. In quest’ottica il programma Biopreferred favorendo la domanda di prodotti biobased è positivo. Bisogna fare attenzione, però, che non sia il governo a spiegare la soluzione all’industria. Il suo compito è di porre il problema, come avvenuto nel caso della gomma che le ho citato prima. Sennò, si rischia di creare delle distorsioni nel mercato. L’impiego di risorse biologiche è solo una delle risposte a disposizione dell’industria chimica per affrontare la sfida del cambiamento climatico e dell’approvvigionamento di energia.”
Un’altra possibile risposta è lo shale gas?
“Senz’altro. Oggi l’industria, non solo quella chimica, deve sempre più adottare una visione d’insieme e guardare non solo al prezzo delle materie prime, ma anche al prezzo della CO2, al prezzo dell’acqua e a quello dei rifiuti. Con l’impiego dello shale gas abbiamo una riduzione del 30% del prezzo della CO2. Quindi è due volte utile in quanto mantiene basso il prezzo della CO2 e il prezzo del petrolio. Con un effetto ulteriore sull’industria chimica, perché ne rafforza la tendenza a concentrarsi sulle specialità e non sulle commodities. L’uso di shale gas per ottenere metano a basso prezzo ha estremamente rivoluzionato l’industria chimica americana e sta per avere un forte impatto anche in Cina.
Detto questo, diciamo anche che dobbiamo essere consapevoli che il prezzo del petrolio tra il 2008 e il 2010 ha raggiunto picchi così alti che difficilmente potranno verificarsi di nuovo. Alla base di questa impennata si trova l’ingresso della Cina nell’Omc a inizio anni 2000, la sua forte richiesta di energia e la sua scarsa efficienza energetica. Oggi la Cina si sta avvicinando all’efficienza energetica di Europa e Stati Uniti e ciò significa milioni di galloni di petrolio in meno ogni anno.
Lo scenario economico ed energetico è in rapida evoluzione ed è difficile fare previsioni. Quello che è certo è che per anni è come se ci fossimo trovati nel deserto, costretti a pagare l’acqua come champagne. Ma oggi non siamo più in quelle condizioni.”
L’attenzione verso l’emissione di CO2 ci dovrebbe portare a dire che non è sostenibile una bioraffineria alimentata da biomassa che non proviene dal territorio circostante. In Italia è molto discussa la riconversione della raffineria di Eni in Sicilia in una bioraffineria che impiegherà olio di palma importato dalla Malesia. Cosa ne pensa?
“È evidente che se importo la biomassa da paesi lontani non riduco le emissioni di CO2. La biomassa deve essere locale, fondamento delle bioraffinerie integrate nel territorio. Certo non sempre è possibile trovare la soluzione migliore. Nel caso di Eni in Sicilia credo sia prevalsa la necessità di salvaguardare i posti di lavoro sulle valutazioni di sostenibilità ambientale.”
In definitiva, la strada della sostenibilità dell’industria chimica può essere considerata senza ritorno?
“Penso proprio di sì. L’industria chimica sarà chiamata a stare dietro a regolamentazioni sempre più globali, stringenti, mirate ed efficienti. Dovrà perciò imparare a essere sempre più proattiva. Le imprese e le industrie in grado di anticipare le prossime norme e di condurre la partita diventeranno i vincitori del futuro.
Convergenza tecnica e collaborazione tecnologica saranno al centro di quella che nel mio libro chiamo “terza rivoluzione industriale”. L’innovazione sarà il nucleo del settore chimico. La capacità di lavorare in tutta la catena del valore e di innovare attraverso una grande varietà di tecnologie e industrie diventerà la base dell’innovazione e dello sviluppo. A tal fine dovranno essere creati nuovi paradigmi di business e quadri normativi. Dovranno essere prese nuove competenze e metriche di performance.
Le imprese, i settori industriali, ma anche i paesi che non saranno in grado di pensare strategicamente, di innovare e di adattarsi alle nuove sfide del cambiamento climatico sono destinati a non sopravvivere.”