Ma ci sono scarti agricoli e rifiuti in grado di alimentare l’intera bioeconomia? La situazione che si va delineando a livello globale è molto intricata: da una parte la domanda di biomassa cresce e si indirizza non solo alle bioenergie ma anche ai cosiddetti biomateriali e biochemicals, dall’altro si proiettano verso il mercato mondiale della bioeconomia paesi che offrono ampia disponibilità di biomassa come Malesia, Canada, Brasile, ma anche i paesi dell’Europa settentrionale e la Russia, che detengono un enorme patrimonio forestale. Non è un caso che la Biochemtex, società del MossiGhisolfi Group, dopo l’inaugurazione della bioraffineria per la produzione di bioetanolo di seconda generazione a Crescentino, in provincia di Vercelli, sia impegnata oggi in nuovi progetti per replicare l’impianto italiano in Brasile, Cina e Malesia. Il governo di Kuala Lumpur ha messo la biomassa al centro del proprio piano di sviluppo economico dei prossimi anni. Nel 2011 è stata presentata una National Biomass Strategy 2020 focalizzata sull’olio di palma, che già oggi contribuisce all’8% del reddito nazionale: circa 25,5 miliardi di dollari (la Malesia è il secondo produttore ed esportatore al mondo di olio di palma). L’obiettivo è portare il contributo della bioeconomia al prodotto interno lordo (Pil) dall’attuale 2-3% all’8-10% entro il 2020.

 

Chi al tema ha dedicato numerosi studi è Michael Carus, amministratore delegato del nova-Institut, un centro di ricerca privato con base a Hürth, vicino a Colonia, in Germania. Il nova-Institut è considerato una vera e propria autorità e preso come punto riferimento non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, che citano espressamente le sue ricerche anche nel loro programma di sostegno alla bioeconomia “Biopreferred”. 

Ma come si definisce esattamente la biomassa? Gli esperti la definiscono come la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani. 

Secondo Carus, il vero problema oggi non è tanto la sua scarsa disponibilità quanto la “allocazione impropria”. Soprattutto in Europa. Bioenergia e biocarburanti dovrebbero costituire approssimativamente circa il 60% della quota complessiva di energie rinnovabili prevista dalla direttiva europea (Red, Renewable Energy Directive) e circa il 90% della quota dei trasporti entro il 2020. Se si limitassero tali percentuali rispettivamente al 40-50% e 80%, una dose significativa di pressione verrebbe tolta dalla biomassa. 

 

Michael Carus, managing director del nova-Institut, all’EFIB 2012, Dusseldorf 

 

Questo tipo di regolamentazione sarebbe più utile rispetto alla limitazione della quota dei biocarburanti di prima generazione, i quali spesso possono essere molto più efficienti nell’impiego del territorio rispetto a quelli di seconda generazione. La percentuale mancante – suggerisce il ricercatore tedesco – potrebbe essere ottenuta da una quantità maggiore di energia solare ed eolica e da altre fonti rinnovabili. Per quanto riguarda invece la percentuale di biocarburanti nel settore dei trasporti bisogna tenere conto che le alternative quali le auto elettriche e ad anidride carbonica non sono ancora sufficientemente disponibili sul mercato. Ma vanno adeguatamente incentivate per frenare l’impiego di biomassa. 

Carus è uno dei pochi in Europa a sostenere con forza che la contrapposizione tra prima e seconda generazione di biocarburanti non ha senso. In uno dei suoi studi – “Food o non-food: quali materie prime agricole sono migliori per gli usi industriali” – il fisico tedesco scrive espressamente che “tutti i tipi di biomassa dovrebbero essere accettati per usi industriali”. 

La scelta dovrebbe dipendere da quanto la biomassa può essere prodotta in modo sostenibile ed efficiente. Le misure politiche non dovrebbero distinguere semplicemente tra colture alimentari e non alimentari, ma utilizzare criteri come la disponibilità di terreni, di risorse e di efficienza del territorio, la valorizzazione dei sottoprodotti e delle riserve alimentari d’emergenza. Non mancano studi che hanno dimostrato come molte colture alimentari siano più efficienti nell’impiego del territorio rispetto alle colture non alimentari. Ciò significa, per esempio, che è necessaria meno terra per la produzione di una certa quantità di zucchero fermentabile – che è particolarmente cruciale per i processi biotecnologici – di quanta sarebbe necessaria per produrre la stessa quantità di zucchero con le presunte “non problematiche” colture non alimentari lignocellulosiche di seconda generazione.

Carus critica espressamente la politica bioenergetica e dei biocarburanti dell’Ue, come previsto dagli obiettivi ambiziosi fissati dalla Red, perché essa porta all’allocazione sistematica delle biomasse a scopi energetici a scapito dei materiali. La Red (che in futuro sarà associata alla Fqd – Fuel Quality Directive 9870 – nel settore dei trasporti) ha innescato lo sviluppo di piani d’azione nazionali e di sistemi di supporto per le bioenergie e i biocarburanti, e questo a sua volta ha fatto salire i prezzi della biomassa e gli affitti dei fondi agricoli, rendendo molto più difficile per gli altri settori mettere le mani sulle biomasse. 

C’è un’allocazione impropria della biomassa, dal momento che tutto ciò sta bloccando lo sviluppo di materiali ad “alto valore” come i prodotti chimici e le plastiche. Pertanto, gli sviluppi sul terreno collegati alla Red avranno un notevole impatto sulla futura disponibilità di biomassa per l’industria dei materiali. Un quadro regolatorio sfavorevole combinato con prezzi elevati e offerta incerta della biomassa dissuade gli investitori dal mettere soldi nella chimica e nelle materie plastiche biobased – anche se queste potrebbero generare un valore più elevato e una maggiore efficienza delle risorse. 

In quest’ottica Carus chiede una riforma della Red che la trasformi in Redm, dove la “m” sta per materiali. E reclama a voce alta – sempre più seguito in questo dai principali attori della bioeconomia europea – un level playing field, ovvero pari opportunità per tutti i settori. La stessa Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – ricorda il nova-Institut nel suo ultimo rapporto dedicato al tema e pubblicato lo scorso ottobre – ha sottolineato come “in generale il sostegno politico ai biocarburanti è molto più grande di quanto non sia per la plastica a base biologica o per i prodotti chimici a base biologica. Questo rischia di rendere lo sviluppo della bioeconomia irregolare, e potrebbe sfavorire l’uso della biomassa per bioplastiche e prodotti chimici a base biologica. Ciò può anche limitare lo sviluppo e il funzionamento delle bioraffinerie integrate”.

C’è urgenza di un nuovo quadro politico per l’utilizzo più efficiente e sostenibile della biomassa. Ciò significa in particolare la parità di condizioni per l’uso nel campo energetico e dei materiali. Cinque o sei anni fa questo era un problema in tutto il mondo, oggi è principalmente un problema per l’Europa. In America e in Asia il quadro regolatorio per i prodotti chimici e le materie plastiche a base biologica è molto più favorevole che in Europa. Di conseguenza, la maggior parte dei nuovi investimenti si stanno indirizzando verso Stati Uniti, Canada, Brasile, Thailandia, Malesia e Cina.

Per un’Europa ancora alle prese con la peggiore crisi economica del dopoguerra, questo non è certo un segnale incoraggiante.

 

Sui biocarburanti l’Ue è ancora in una fase di stallo

Prima o seconda generazione di biocarburanti? Dopo anni di accesa discussione sul tema, lo scorso giugno i ministri dell’energia dei paesi dell’Ue hanno raggiunto un’intesa per limitare al 7% l’impiego della prima generazione per i trasporti nel 2020 e per incoraggiare la transizione verso i biocarburanti di seconda e terza generazione (che dovranno pesare almeno per lo 0,5% sull’obiettivo 10%).

La questione però è tutt’altro che chiusa: ora, infatti, dovrà essere trovato un accordo tra Parlamento e Consiglio per arrivare a una posizione comune sulla legislazione. Il Parlamento Ue aveva fissato nel settembre del 2013 il tetto di utilizzo dei biocarburanti di prima generazione provenienti da colture alimentari al 6%, contro il 5% che aveva inizialmente proposto la Commissione Ue in precedenza.

 


 

BASF: The Chemical Company diventa Bio-chemical

Intervista a Michael Nettersheim, investment manager di BASF Venture Capital

 

The Chemical Company è lo slogan semplice ed efficace di BASF, la società chimica tedesca leader nel mondo. Parliamo di un colosso che nel 2013 ha portato nelle proprie casse quasi 74 miliardi di euro di fatturato, impiegando più di 112.000 persone in tutto il mondo. Non c’è comparto della chimica in cui il gruppo di Ludwigshafen non sia presente: prodotti chimici, materie plastiche, prodotti di nobilitazione, agrofarmaci e petrolio e gas. 

Ma per quanto tutto questo sarà ancora a base petrolchimica? I prezzi del petrolio e soprattutto le risorse fossili limitate stanno spingendo anche la società chimica per eccellenza verso l’impiego di materie prime rinnovabili come lo zucchero e gli scarti delle piante. Perché anche se la chimica rimarrà prevalentemente a base di petrolio nei prossimi decenni, anche per il costo e la limitata disponibilità di biomassa, vi è un enorme potenziale per aumentare l’uso di materie prime biologiche. Secondo l’Ocse entro il 2030 il 30% di tutti i prodotti chimici sarà a base biologica. The Chemical Company è destinata a diventare The Bio-chemical Company? Materia Rinnovabile ne parla con Michael Nettersheim, investment manager di BASF Venture Capital, il fondo di investimento del Gruppo, colonna portante della sua strategia di innovazione, a cui è affidato il compito di scovare in tutto il mondo le migliori start-up.

 

Perché BASF ha deciso di creare un proprio fondo di venture capital?

La decisione di creare BASF Venture Capital risale al 2001. Investiamo in start-up che sviluppano tecnologie innovative e si incentrano sulle nuove sostanze chimiche come fattore strategico del proprio successo. L’obiettivo che ci poniamo è quello di agevolare l’accesso di BASF ai nuovi settori tecnologici e di conseguenza le nostre attività puntano alla realizzazione di questo aspetto strategico. Perciò promuoviamo la cooperazione tra il gruppo BASF e i partner esterni, e naturalmente investiamo nelle start-up più promettenti, preferibilmente quelle che hanno innovazioni associabili alle attività di BASF Group già esistenti, che lavorano nelle aree progettuali di BASF New Business GmbH o sono attive nei campi tecnologici o di crescita preferenziali del gruppo BASF.

 

Anche la bioeconomia è uno dei fattori che promuove le decisioni di investimento di BASF Venture Capital?

La biotecnologia industriale, la trasformazione delle materie prime e i prodotti agricoli sono settori tecnologici di estrema rilevanza per BASF, e vengono attentamente analizzati. Nel corso degli anni abbiamo investito in tante start-up attive in questi campi, che realizzano prodotti e soluzioni innovative. BASF coopera inoltre con numerosi partner esterni per sviluppare prodotti e tecnologie nuove. 

 

Quali sono le start-up in cui avete investito?

BASF ha compiuto due importanti acquisizioni nel settore delle sostanze chimiche di origine biologica: Allylix e Renmatix. Entrambe con base negli Stati Uniti, Allylix (lo scorso novembre l’azienda è stata acquistata da Evolva Holding, leader globale negli interventi sostenibili basati sulla fermentazione, che realizza ingredienti destinati alla sanità, al benessere e alla nutrizione, ndA) dispone di una piattaforma tecnologica per la produzione di molecole complesse per l’industria degli aromi e delle fragranze, sempre tramite fermentazione. Renmatix sta sviluppando una tecnologia per l’avvio della catena di valore del settore chimico, nello specifico zuccheri prodotti a livello industriale, sostenibili ed efficienti dal punto di vista dei costi e utilizzabili come materia prima per una vasta gamma di processi di fermentazione. Si tratta di tecnologie che, combinate con le tecniche di fermentazione di nuova generazione per la produzione di sostanze chimiche di base, monomeri, molecole complesse e così via, offriranno idee convenienti e sostenibili per l’industria chimica, sia in soluzioni drop-in sia come nuove alternative basate sulle sostanze biologiche. Questa tecnologia potrebbe anche fornire la materia prima per l’intero settore (bio)chimico. Va evidenziato che la tecnologia di Renmatix si basa sull’impiego di materie prime non alimentari né competitive degli alimenti, per esempio il legname.

 

Gli investimenti di BASF appaiono incentrati esclusivamente sul mercato Usa. Come considera le prospettive di crescita della bioeconomia in Europa? 

In linea di principio le prospettive di crescita sono positive. Le aziende leader come BASF e alcuni nostri concorrenti hanno posto in essere attività di grande rilevanza in Europa. Anche gli attori del mondo accademico sono concorrenziali, sebbene ci sia per loro qualche margine di miglioramento. Gli ostacoli che incontra la maggior parte delle start-up, soprattutto nelle prime fasi di sviluppo, sono la capacità di attrarre un management esperto e competente, e la possibilità di accedere ai capitali di rischio. Rispetto agli Stati Uniti, queste sono le sfide principali per il settore high-tech europeo emergente.

 

Secondo l’Ocse, nel 2030 il 30% di tutte le sostanze chimiche saranno a base biologica. Quanto grava questa previsione nelle decisioni di investimento strategico di un gigante della chimica come BASF?

In questo ambiente di mercato così dinamico, consideriamo le risorse rinnovabili come una delle tante opzioni che, anche nel lungo termine, possono garantire una fornitura di prodotti sostenibile e che si adatteranno a nuove applicazioni in molte aree. Sempre più spesso inoltre i nostri clienti chiedono prodotti che derivano da risorse rinnovabili, pertanto il settore è estremamente importante per le attività di BASF Venture Capital, sia dal punto di vista della tecnologia sia degli investimenti. 

 

Steam cracker di BASF a Ludwigshafen, Germania

© BASF