I numeri, per prima cosa. In Italia al momento abbiamo 7.123 chilometri di autostrade, 24.241 chilometri di strade statali, 154.948 chilometri di provinciali e 1,3 milioni di chilometri di comunali. Ciò significa che il settore delle infrastrutture, tra manutenzione e realizzazione di nuovi tracciati, ha un impatto centrale nella produzione di rifiuti e nel conseguente inquinamento ambientale. Ma, visto da un’altra prospettiva, è un campo fenomenale dove applicare i principi dell’economia circolare, per rilanciare il settore e ridurre l’impatto degli interventi, spingendo il riciclo di materiali. Non si tratta di utopie ambientaliste ma di prospettive concrete, anzi, di un processo già in corso e delineato da leggi e decreti italiani ma anche dalla direttiva europea (2008/98/Ce), che prevede che al 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione. E non mancano le opere pubbliche e private già realizzate in Italia, seppur tra molte difficoltà e rallentamenti. L’esempio più evidente è quello dell’Anas, una società per azioni italiana avente per unico socio il ministero dell’Economia e delle Finanze, che gestisce direttamente circa 26.000 chilometri di strade, compreso il 90% di quelle statali. Da alcuni anni Anas sta effettuando una revisione dei propri capitolati speciali d’appalto, puntando a implementare, per le imprese affidatarie, la certificazione ambientale per la gestione di cantieri. 

Un caso concreto di infrastruttura realizzata da Anas recuperando i rifiuti edili è il passante di Mestre, dove si è potuto risparmiare oltre il 70% del materiale, pari a 32.000 metri cubi di materiale da cava. In questo modo, aspetto non secondario, si sono eliminati circa 40.000 viaggi di camion per il trasporto del materiale, riducendo notevolmente le emissioni di anidride carbonica.

Qualche altro dato può rendere bene l’idea della questione in ballo. Ogni anno in Italia vengono prodotti quasi 45 milioni di tonnellate di rifiuti inerti, ovvero calcinacci, mattoni, pezzi di vetro e sabbia, residui di cantieri edili e demolizioni. Se il 70% di tutto questo venisse riciclato, anziché finire in discarica, si potrebbero chiudere per un anno almeno 100 delle 2.500 cave attive in Italia, come ha evidenziato Legambiente nel suo ultimo rapporto dell’Osservatorio Recycle sul riciclo dei materiali edili, pubblicato lo scorso giugno. 

Oggi il 62,5% di quanto viene estratto dalle cave in Italia è composto da inerti. E lungo tutta la penisola esistono almeno 15.000 cave usate e abbandonate, di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia. Una situazione destinata a ripetersi, con forti ripercussioni su paesaggio e territorio, visto che il recupero dei rifiuti inerti in Italia sfiora a mala pena il 10%, secondo i dati Uepg (Union Européenne des Producteurs de Granulats), e registra differenze enormi da regione a regione. In realtà le stime ufficiali (Eurostat 2012) parlano di 53 milioni di tonnellate di rifiuti e di un riciclo che viaggia attorno al 70% a livello nazionale, ma in Italia la quota di lavorazione in nero falsa completamente i dati. Basta confrontare per esempio i numeri italiani con quelli dei Paesi Bassi – che con una popolazione oltre quattro volte inferiore alla nostra registrano 81 milioni di tonnellate – per capire che qualcosa non torna. E che quel 70% è ben lontano dall’essere il dato reale. 

L’impatto delle cave sul paesaggio italiano è una delle questioni ambientali più stringenti, perché sono tante le ferite gravissime ancora aperte in tutta la penisola. È un dato oggettivo che oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici che possano essere presentati come scuse per non utilizzare materiali provenienti dal riciclo nelle costruzioni. Anzi, l’applicazione di un sistema economico circolare porta con sé più di un vantaggio. In primo luogo in termini di lavoro e attività imprenditoriali, perché le esperienze europee dimostrano che aumentano sia l’occupazione sia il numero delle imprese attraverso la nascita di filiere specializzate. In secondo luogo, nella riduzione del prelievo da cava. Perché arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che – come detto – eviterebbero di ricorrere alle cave. Infine, in termini di contenimento dei consumi energetici e delle emissioni di gas serra. Infatti se – da qui al 2020 – si raddoppiasse la quantità degli pneumatici fuori uso recuperati, con il polverino di gomma da questi ricavato si potrebbero riasfaltare 26.000 km di strade. Il risparmio energetico ottenuto, considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio, sarebbe di oltre 400.000 MWh, ossia pari al consumo di circa due anni di una città come Reggio Emilia, con un taglio alle emissioni di CO2 pari a 225.000 tonnellate. 

In questo scenario a tinte cupe, un esempio positivo di economia circolare applicata alle infrastrutture da diversi anni è l’utilizzo di polverino di gomma proveniente dal trattamento degli pneumatici fuori uso negli asfalti. Infatti, ogni anno in Italia si registrano circa 350.000 tonnellate di pneumatici recuperati presso impianti che ne operano la frantumazione e triturazione per produrre gomma riciclata, acciaio, fluff tessile e combustibili alternativi a quelli di origine fossile. In 27 diverse province ci sono già circa 250 chilometri di strade con asfalti con gomma riciclata, una tecnologia che ha i suoi punti di forza nel dimezzamento del rumore del traffico e il fatto di avere una vita media tre volte più lunga rispetto agli asfalti tradizionali.

Legambiente ha calcolato che, se la Società Autostrade utilizzasse materiali riciclati per le opere di ampliamento in corso o in programma nei prossimi anni – pari a una lunghezza di 141 chilometri – solo considerando gli strati di fondazione e quelli bituminosi, con l’utilizzo di materiali riciclati si risparmierebbero dal prelievo di cava circa 400.000 metri cubi di materiale, pari ad almeno la produzione annuale di due cave di medie-grandi dimensioni. Eppure al momento, in nessuno di questi cantieri è previsto di usare polverino di gomma negli asfalti o aggregati e materiali provenienti dal riciclo nei sottofondi.

Ci sono però diversi ostacoli al raggiungimento del target europeo del 70% di riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione entro i prossimi tre anni. La prima barriera riguarda i cantieri dei lavori pubblici e privati. In molti capitolati è ancora previsto l’obbligo di utilizzo di alcune categorie di materiali da cava o comunque “naturali”, obbligo che di fatto impedisce lo sfruttamento di quelli provenienti dal riciclo. Un notevole passo in avanti al riguardo è stato fatto con l’introduzione dei Criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e i lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione. 

Un secondo ostacolo deriva dall’assenza di riferimenti chiari e obblighi per l’utilizzo di materiali provenienti dal riciclo nei cantieri dei lavori pubblici. In sostanza il problema è che per tanti materiali provenienti dal riciclo si rimane in un campo di incertezza che ne limita l’utilizzo. Per questo diventa fondamentale fare chiarezza sul passaggio da rifiuto a prodotto riciclato. Innanzitutto perché i rifiuti che non hanno completato con successo il loro trattamento di recupero possono, se utilizzati al posto dei tradizionali materiali da costruzione, creare seri problemi all’impresa di costruzione di natura sia legale (traffico illecito di rifiuti) sia tecnica (mancata accettazione dei materiali da parte dei direttori lavori delle opere). L’obiettivo deve essere quello di fissare criteri tecnici e ambientali molto specifici con regole sulle caratteristiche geotecniche e ambientali che gli aggregati devono possedere per tutti i materiali di cui parliamo. Un passaggio indispensabile per stabilire quando, a valle di determinate operazioni di recupero, un rifiuto cessi di essere tale e diventi una materia prima secondaria o un prodotto non più soggetto alla normativa sui rifiuti.

 

 

Rapporto dell’Osservatorio Recycle L’economia circolare nel settore delle costruzioni, giugno 2017; www.legambiente.it/contenuti/dossier/rapporto-recycle-2017

Info

www.stradeanas.it

 


  

Intervista a Serena Majetta, responsabile Geologia e gestione materie di Anas

di L. D.

 

Bisogna premiare chi utilizza materiali riciclati 

 

In tema di economia circolare applicata al settore delle infrastrutture Serena Majetta ha molto da raccontare. La geologa è responsabile Geologia e gestione materie di Anas, l’ente nazionale delle strade che conta su un piano di investimenti da 30 miliardi l’anno e che, anche per questo, può diventare il motore di un processo di sviluppo davvero sostenibile, indicando ed evidenziando gli indirizzi di gestione per tutto il territorio. Buone intenzioni che però devono fare i conti con i numeri e i bilanci. “L’obiettivo di Anas – spiega Majetta – è trovare uno sbocco produttivo in un contesto duraturo di riutilizzo efficace dei rifiuti da costruzione e demolizione, andando a contenere i processi di consumo del suolo e delle risorse primarie”. 

 

Le direttive europee da questo punto di vista appaiono stringenti.

“È vero, l’ormai noto target europeo del 70% di recupero rifiuti inerti entro il 2020 pone obiettivi e limiti ben precisi, ma la trasformazione nella pratica non è stata e non è così immediata, purtroppo.”

 

In un sistema con molti ostacoli, tutto inizia dai bandi di gara. 

“Anas sta mettendo a punto capitolati di gara che premino chi utilizza materiali riciclati, non solo terre e rocce, ma anche aggregati secondari. Un’implementazione di certificazioni ambientali per la gestione dei cantieri, laddove non previsto già dalle leggi. L’obiettivo è evitare sempre più diffusamente il ricorso alle cave.” 

 

Un ottimo proposito, ma è al momento realizzabile sia dal punto di vista organizzativo sia economico? 

“Non possiamo nascondere che la filiera ancora non è pronta. Parlo per quanto riguarda Anas che gestisce direttamente circa 25.000 chilometri di strade e che presto diventeranno 30.000: è ancora difficile reperire e poter utilizzare senza problemi materiali riciclati su una rete così ampia. Relativamente ai costi ci sono già filiere garantite, ora andrebbe standardizzato tutto il settore.”

 

E le aziende come stanno reagendo a questa tendenza normativa che spinge per un maggiore riutilizzo dei rifiuti inerti?

“La gran parte delle imprese di costruzioni con cui Anas lavora vorrebbe normative più precise e chiede di testare i loro nuovi prodotti, per avere una certificazione di idoneità sui materiali da recupero. Parliamo spesso di ex imprese di cave che hanno reindirizzato il loro campo d’azione. Da questo punto di vista un trend molto incoraggiante.”

 

Esistono già esempi concreti di materiali di recupero utilizzati nei cantieri Anas?

“Certo, da tempo riutilizziamo il fresato per il risanamento della fondazione stradale, miscelandolo con bitume schiumato e cemento. Per esempio, sull’A3, l’Autostrada del Mediterraneo, in tutto il terzo macro-lotto la costruzione ex novo dello strato di fondazione è avvenuto con il riutilizzo del fresato. Mentre lungo la strada statale Jonica il processo di stabilizzazione a calce ha permesso di riutilizzare materiali provenienti dagli scavi delle gallerie. Per capirci meglio, il processo di stabilizzazione consiste nel miscelare le terre argillose con calce di apporto al fine di renderle idonee, resistenti e stabili.”

 

Avete rapporti con altri enti per coordinare uno sviluppo sostenibile di tutto il settore?

“Stiamo cercando di creare un consorzio che evidenzi i principali obiettivi e le relative strategie unitamente a tutti gli stakeholder. In questo senso con l’Università La Sapienza di Roma lavoriamo per dare vita un circolo virtuoso in cui coinvolgere dagli enti di controllo alle imprese di costruzioni.”