Quando crearono il Product-Life Institute a Ginevra nel 1982, Orio Giarini e Walter Stahel erano come due cowboy solitari che esploravano la nuova frontiera dell’economia circolare. In realtà, durante gli anni ’60 e ’70 le fiorenti economie occidentali avevano spazzato via e gettato nell’oblio la pratica pre-industriale del riuso dei prodotti e del riciclo dei materiali. Da allora i modelli di business, l’innovazione dei prodotti, i consumi privati e l’economia in generale hanno puntato alla crescita infinita e al benessere universale. Giganteschi escavatori Caterpillar svettano come simboli dei confini sempre in movimento dell’economia lineare che chiede incessantemente nuove terre per l’agricoltura, più risorse minerarie per l’industria, nuove strade per accelerare la crescita, discariche per accogliere sempre più rifiuti... Non c’è bisogno di essere esperti per immaginare che un giorno o l’altro, prima o poi, il bengodi dell’economia possa finire. Ecco perché i due cowboy solitari hanno unito le loro corde in un lazo e sono partiti a caccia di una soluzione più praticabile: l’economia circolare (figura 1).
Per amore di coerenza, il Product-Life Institute avviò nuovi modelli di business e li verificò. Tra questi, un’avventura intrapresa nei primi anni ’90 con la Winterthur, che consisteva nel riciclare pezzi di ricambio dal parco auto danneggiate degli assicurati creando al contempo nuove opportunità di lavoro. Più avanti quel modello si replicò spontaneamente e si adattò in molti paesi.
Un altro caso, ora noto, riguardava le macchine da lavanderia: dimostrò i vantaggi del “vendere beni come servizi” sotto forma di utilizzo intensivo condiviso. Mentre la maggior parte delle lavatrici sono progettate per durare circa 15 anni ed eseguire 3.000 cicli di lavaggio, le lavatrici semi-commerciali comunemente usate nelle lavanderie a gettoni lo sono per compierne 30.000 nello stesso periodo di tempo. I clienti pagano una cifra fissa per ciclo di lavaggio che include i costi operativi (acqua, energia, spazio), come pure quelli di manutenzione e riparazione.
Ma la cosa più importante sostenuta da Stahel è che, mantenendo la proprietà dei beni che producevano, le aziende avrebbero potuto incrementare i loro guadagni. E ci sarebbero riuscite vendendo servizi anziché beni: in questo modo avrebbero stabilito un “rapporto” continuativo con i consumatori in grado di assicurare introiti a lungo termine. Adottando questo modello di business, affermava, le aziende alla fine avrebbero fatto di tutto per conservare e massimizzare il valore intrinseco dei loro prodotti. Anche se, fino a poco tempo fa, solo i progettisti di prodotti industriali e il mondo accademico supportavano il cosiddetto approccio cradle-to-cradle. Ci sarebbero voluti ancora diversi anni e l’avvento di un’economia basata sulla conoscenza, assieme all’esplosione dell’economia circolare, perché un tale cambiamento immaginato si realizzasse.
Tanto che solo poche settimane fa – tra il 7 e il 9 giugno 2015 – si è svolto a Londra il primo Circular Advantage Business Forum, dedicato ai modelli di business applicati che perseguono l’economia circolare.
Importanti società come AkzoNobel, Dell, Philips, Veolia, Hp, Carlsberg, Interface, Marks & Spencer e molte altre si sono riunite per discutere e condividere le loro esperienze su come implementare nuovi modelli circolari.
I consulenti della Accenture Strategy hanno fornito un’analisi essenziale e delineato i modelli emergenti sulla base di una ricerca pubblicata nel 2014. Le società hanno mostrato come individuare nuovi flussi di introiti, ridurre costi e rischi, rafforzare i rapporti con i consumatori e puntare con grande determinazione al concetto di “crescita sostenibile”. Quindi non sorprende che specialisti nei trend emergenti, come Futuribles di Parigi, abbiano riconosciuto e individuato il grande cambiamento in corso.
La ricerca di Accenture, oltre a comprendere le interviste a più di 50 manager, ha preso in esame 150 casi di economia circolare. Per arrivare a stabilire che, oggi, si può guardare l’economia circolare secondo cinque modelli ben distinti.
1. Il primo tra i nuovi modelli di business abbraccia la circular supply chain (catena di approvvigionamento circolare); include le aziende che forniscono materiali rinnovabili, riciclabili o biodegradabili al posto dei prodotti lineari. Queste imprese vedono un’opportunità di business nella scoperta di nuovi materiali che possano sostituire quelli a ciclo di vita singolo.
Lo sviluppo di sostanze chimiche a base biologica della AkzoNobel è un esempio di questo approccio, come lo è quello delle pellicole a base biologica per l’impacchettamento del cibo. La AkzoNobel si è posta obiettivi di sostenibilità ambiziosi. Misura il progresso verso il raggiungimento di questi obiettivi lungo l’intera catena e non solo attraverso le proprie attività, per esempio dall’estrazione del petrolio e del gas allo smaltimento dei prodotti. In pratica, questo significa che l’azienda coinvolge i suoi fornitori e clienti e i loro fornitori e clienti. Le confezioni a base biologica per il packaging dei cibi sono un esempio. Nel 2014, l’AkzoNobel ha introdotto una tecnologia che permette di rendere completamente riciclabili i bicchieri di carta per le bevande fredde. Nonostante l’azienda fornisca un componente minimo del prodotto finale (il bicchiere di carta), il nuovo materiale ha fatto la differenza per i suoi clienti.
2. Il secondo modello di business – che, per dirla tutta, è in giro da decenni – è basato sul recupero delle risorse: sul riciclo del materiale e sulla simbiosi industriale. È attivato dalle aziende che recuperano valore dai prodotti generati sia dalle loro attività sia da altri anelli dalla catena di valore. In altre parole, si tratta di guardare ai rifiuti come a una risorsa, di riottenere prodotti a base biologica dal processo di lavorazione o dal classico riciclo o riuso dei materiali. Per esempio, una fabbrica GM ricicla circa il 90% dei suoi scarti di lavorazione e, così facendo, sviluppa un processo di lavorazione che non impegna le discariche. Oggi la vendita dei sottoprodotti del processo di lavorazione genera ogni anno oltre un miliardo di introiti.
Anche un altro progetto AkzoNobel guarda ai rifiuti come risorsa. Poiché gran parte dei rifiuti dell’azienda sono smaltiti in discariche o inceneriti, è stata presa la decisione di convertire i materiali di scarto in utili materiali grezzi. Per questo sono in via di sviluppo una tecnologia di gassificazione dei rifiuti e una per l’estrazione di sostanze chimiche elementari dai gas prodotti. Il risultato di questo processo diventerà il materiale grezzo nella produzione di sostanze chimiche e prodotti per il confezionamento.
Sviluppare una soluzione così innovativa implica una grande collaborazione tra diverse aziende lungo l’intero processo, in termini di competenza, conoscenza e capitali. Mentre un’azienda sviluppa la tecnologia di gassificazione, un’altra fornisce e gestisce gli scarti (di solito un’azienda che tratta rifiuti) e una terza produce le sostanze chimiche estraendole dai gas. È un modello di business decisamente complesso da sviluppare, ma è necessario per far sì che la AkzoNobel sia la prima in questo settore dell’economia circolare.
3. Il terzo modello dimostra come l’intuizione e la comprensione del signor Walter Stahel delle nuove frontiere dell’economia circolare fossero corrette: si tratta del prolungamento della vita del prodotto, cioè allungare il ciclo di vita operativa dei prodotti e dei componenti riparando, aggiornando e rivendendo i prodotti. Significa spostare l’enfasi del business dagli obiettivi di volume di vendite verso le prestazioni e la durevolezza dei prodotti. Il progetto Ara di Google fornisce un buon esempio. Ara sta sviluppando un telefono cellulare modulare che permette a ogni consumatore di sostituire parti e aspetti del telefono per estenderne la vita e la durevolezza.
4. Il quarto modello di business nasce dalla sharing economy basata su piattaforme di condivisione. Risultato diretto della rivoluzione IT, che raccoglie una serie prima d’ora inimmaginabile di economie di scala, parte dall’idea di usare piattaforme digitali per affittare, condividere, scambiare, prestare, regalare e barattare prodotti e servizi. Effettivamente permette di aumentare la velocità e l’utilità di un’enorme gamma di beni. Sinceramente, oggi, gran parte dei beni sono sottoutilizzati: quasi l’80% degli oggetti presenti in una normale casa sono usati meno di una volta al mese e, come la maggior parte di noi avrà notato, per il 97% del tempo le auto restano parcheggiate e inutilizzate mentre occupano spazio comune. L’impatto di AirB&B nell’accrescere l’utilità delle case fornisce un buon esempio di come un tale modello sia pervasivo. Nel frattempo continuano a fiorire nuovi modelli di piattaforme di condivisione.
5. Lo spostamento dai prodotti ai servizi, in cui i consumatori possono affittare un bene o utilizzarlo con la formula pay-per-use, sorregge il quinto e ultimo modello denominato economia funzionale. Ancora una volta i cowboy solitari che abbiamo incontrato all’inizio del nostro viaggio tra questi nuovi modelli di business basati sull’economia circolare hanno dimostrato che stavano seguendo il giusto cammino verso il futuro. L’economia funzionale apre un mercato a tutte quelle aziende e individui che vogliono o necessitano di maggiore flessibilità nell’utilizzo di un bene, piuttosto che essere interessati alla sua proprietà. Quello che veniva spesso strettamente limitato alle relazioni e all’economia di vicinato è ora accessibile e commerciabile. In aggiunta, c’è già un altro modo per ottenere una maggiore utilità dalle risorse impiegate. A livello di business, stanno seguendo questa strada la Philips con il servizio di illuminazione e la Michelin, che offre pneumatici come servizio, basato su un modello altamente innovativo in cui il consumatore paga in base ai chilometri percorsi.
A questo punto, vale la pena di guardare più da vicino il modello rivoluzionario sviluppato dalla Philips per fornire illuminazione ai suoi clienti. Marcel Jacobs, direttore del settore sostenibilità dei fornitori, ha partecipato al webinar che ha portato al London Forum Innovation.
In questa occasione, ha descritto abbastanza dettagliatamente come la sua azienda si stia muovendo verso un modello circolare. Per la Philips il percorso dal lineare al circolare non rappresenta un’estensione del modello usuale di business. In realtà, data la grande varietà di prodotti che l’azienda mette sul mercato, il cambiamento implica lo sviluppo di aree di competenza completamente nuove. Queste nuove aree devono essere in grado di soddisfare le tendenze globali in termini di sfide e, più significativamente, in termini di opportunità.
Le sfide più grandi sono rappresentate dalla ridotta disponibilità di risorse, dal loro aumento di prezzo e dall’espansione del ceto medio a livello planetario. Quindi la prossima – ovvia – domanda diventa: come può la Philips trarre beneficio dall’affrontare queste sfide? Per rispondere a queste domande correlate, sono stati inclusi un gran numero di altri trend significativi. Tra questi l’avvento dei big data, cioè la capacità di sapere di più riguardo ai clienti dell’azienda per identificare i più importanti pattern comportamentali dei consumatori. Inoltre, la Philips stessa può diventare fornitrice di big data con positivi effetti di ricaduta su altri business.
Un’altra tendenza affascinante sta nel cambiamento in corso nei modelli di consumo e nel loro metodo di gestione. Le implicazioni sono numerose e ad ampio raggio. Per esempio, il cambiamento dal “possedere” un prodotto all’“averne accesso” ne influenza sia lo sviluppo sia la manutenzione. Inoltre, implica il passaggio dal concetto di transazione a quello di relazione. Tutto questo ha portato a una considerevole sperimentazione delle possibili innovazioni e di diversi modi di fare business. Come conseguenza, come sarà descritto più avanti, è sorto un fortissimo bisogno di promuovere la collaborazione e le partnership. Peraltro, questo è solo un punto di partenza.
Il passaggio dal concetto di “prodotto” a quello di “prodotto come servizio” rappresenta un cambiamento fondamentale nella direzione della riduzione dell’impiego di risorse. Perciò la Philips ha identificato quattro fattori abilitanti essenziali per concretizzarlo.
1. Cambiare il modello di business. Come già evidenziato, il passaggio da un modello basato sulla vendita del prodotto a un modello basato sull’utilizzo del prodotto come servizio ha implicazioni ad ampio raggio. Il cambiamento principale è nel pensare in termini di contratti della durata di cinque, dieci o forse persino quindici anni. È un terreno assolutamente nuovo per un’azienda produttrice. Per esempio, è importante capire cosa succede in termini di garanzie. E anche monitorare che tipo di impatto ha nel tempo il nuovo prodotto-servizio, verificare che il servizio fornito soddisfi le richieste dei clienti, richiede che vengano sviluppati adeguati key performance indicators (Kpi, indicatori chiave della performance). A loro volta i nuovi Kpi devono essere integrati nel nuovo modello di business.
2. Rafforzare la progettazione. Il secondo fattore chiave riguarda la progettazione. Se si inizia a vendere un prodotto come servizio, bisogna poter verificare se si sta vendendo il prodotto giusto. Da quando la Philips detiene il possesso del prodotto per tutto il suo ciclo di vita, deve sapere se ha abbastanza dettagli sulle sue prestazioni e sul suo utilizzo nel tempo, se sa come svolgere un’adeguata manutenzione, se può trovare una nuova tecnologia o soluzione. Ancora una volta, tutti questi problemi devono essere risolti in fase di progettazione del prodotto.
3. Promuovere le partnership e la collaborazione. Un esempio pratico descriverà meglio questo fattore abilitante. Prendiamo il caso dell’illuminazione per un parcheggio o per un ufficio. Generalmente, i prodotti Philips sono venduti a un installatore che li monta, poi il proprietario dell’edificio ha un qualche contratto di gestione degli impianti dell’edificio con una società, che a sua volta ha un qualche contratto con un’azienda di manutenzione che si occupa del prodotto e delle sue prestazioni. Offrendo un servizio di illuminazione, la Philips entra in questo mercato e istantaneamente ne diventa protagonista, in grado di influenzare le altre aziende. Da qui il bisogno di sviluppare una partnership reciprocamente vantaggiosa attraverso la collaborazione. Il problema diventa: quali sono i partner giusti? Per questo è essenziale sviluppare criteri che stabiliscano chi è il giusto partner, cos’è un giusto partner, e come intrattenere relazioni sul lungo periodo. Almeno questo suona familiare! Quindi non sorprende che, per arrivare a questo traguardo, sia un imperativo essere aperti e trasparenti con i propri partner. Compresi i clienti che devono apprezzare appieno i benefici a breve e lungo termine derivanti dalla miglior qualità di illuminazione sulla loro proprietà.
4. Sviluppare la logistica delle scorte. Il quarto fattore abilitante sta nel parlare subito di un nuovissimo problema, quello della logistica delle scorte. Un prodotto che dura da 10 a 15 anni pone una serie di questioni completamente nuove: cosa succede alla fine del ciclo di vita del prodotto? Può essere riportato indietro per essere aggiornato? Può essere poi reinstallato? Infine, può essere installato in un altro posto? Cosa si può fare con i suoi componenti, e come si inserisce questo nel ciclo di innovazione? In quale misura possono essere recuperati i componenti critici, li si può usare in un prodotto nuovo o saranno rimandati alla fase di riciclo? Questi sono alcuni dei problemi con cui la Philips sta avendo a che fare. A rendere ancora più difficile la sfida c’è il fatto che non tutti i clienti possono essere soddisfatti dalla stessa soluzione. Non c’è uno standard “taglia unica” ma si impara sul campo mentre si affrontano le numerose sfide che continuano ad apparire sul cammino verso l’economia circolare.
A più di trent’anni dalla creazione del Product-Life Institute, i nuovi modelli di business che Giarini e Stahel hanno tracciato sulle lavagne si stanno affinando e sono implementati e diffusi da tutte le aziende lungimiranti. Insieme alla rivoluzione digitale e basati sulla partnership, questi modelli stanno aprendo la strada all’avvento di una combinazione di sharing economy e green economy che si prenda carico della responsabilità per i suoi impatti, sia sociali sia ambientali. Questi sono i modelli di business adottati dalle aziende che non hanno intenzione di essere spazzate via dall’eredità dell’economia lineare.