Secondo un rapporto della Global e-Sustainability Iniziative, le soluzioni digitali possono ridurre del 16,5% le emissioni di gas climalteranti entro il 2020, risultato che andrebbe molto al di là degli obiettivi fissati dagli accordi sul clima di Parigi del 2015. Ma è davvero tutto oro la digitalizzazione che luccica? In che modo e in quale misura i processi di digitalizzazione che stanno alla base della sharing economy contribuiscono alla sostenibilità ambientale?

“Per prima cosa va messo in conto che la realizzazione dei sistemi infrastrutturali e dei dispositivi digitali comporta di per sé il consumo di ingenti quantitativi di risorse materiali e di energia: nel caso di un i-phone, per esempio, 3/4 del consumo di energia di un intero ciclo di vita se ne vanno nella produzione dello smartphone, e solo il restante 25% nella fase di utilizzazione”, puntualizza Tilman Santarius, eco-analista che dirige una ricerca sulle tecnologie digitali al Politecnico di Berlino e all’Istituto di ricerca economica per l’ecologia (IÖW). “Da questo punto di vista la digitalizzazione non appare sostenibile. Ma c’è un’altra domanda da porsi: gli strumenti digitali possono ridurre il consumo di energia e di risorse in altri ambiti? Nel caso delle piattaforme digitali che permettono di condividere beni e servizi la risposta è affermativa, perché grazie ai sistemi di condivisione se ne producono e se ne acquistano di meno.”

 

Fermiamoci sulle risorse materiali di cui sono fatti i supporti digitali: quali sono le principali criticità nel corso dell’intero ciclo di vita? 

“Come ho detto, la produzione di un tablet, di un lettore di e-book, di uno smartphone copre gran parte dell’intero bilancio energetico. In questa fase contano anche le materie prime impiegate: di quali materiali si tratta, dove vengono estratti e in quali condizioni? Molti sono metalli rari che provengono da regioni dilaniate da enormi conflitti. Pensiamo solo al palladio o al cobalto che sono estratti nella Repubblica Democratica del Congo in miniere dove lo sfruttamento umano, in particolare dei bambini-minatori, è pazzesco, gli standard di tutela ambientale sono ai minimi termini e i proventi alimentano la guerriglia. 

L’altra gamma di problemi l’abbiamo a fine vita, quando questi apparecchi finiscono tra i rifiuti, spesso prematuramente a causa sia della obsolescenza programmata che ne accorcia di proposito il ciclo di vita, sia di una sorta di obsolescenza psicologica che spinge i consumatori a desiderare l’ultimo modello sul mercato, quello più performante, fino a disfarsi di apparecchi che funzionano ancora egregiamente. Questo fa sì che la massa dei rifiuti elettronici sia in continuo aumento: nel 2015 si sono raggiunte 42 milioni di tonnellate, una montagna paragonabile a quella che formerebbero tutte le auto in circolazione in Germania ammassate una sull’altra. Questi rifiuti in buona parte finiscono in Cina o in Africa occidentale o nella penisola indocinese, dove ne viene riciclata solo una minima parte in condizioni ambientali e lavorative disastrose, mentre il resto è abbandonato per lo più in discariche selvagge. Nell’analisi della sostenibilità del mondo digitale il problema dei rifiuti elettronici è cruciale.”

 

Della stampante in 3D cosa pensa in termini di uso responsabile delle risorse?

“Da un lato le stampanti in 3D hanno il vantaggio di poter impiegare anche materiali poveri di varia natura e di risulta, per cui potrebbero ridurre il consumo di materie prime e sostituire l’uso di metalli pregiati rari. Ma dall’altro lato c’è un quesito economico a cui bisogna rispondere: chi può permettersi davvero stampanti in grado di produrre beni tipo le auto? Chi ha il potere e il know-how per gestire apparecchi di queste dimensioni? Se andiamo a vedere cosa producono nel mondo, troviamo, per fare l’esempio più buffo, migliaia di dinosauri-giocattolo di plastica di tutti i colori, che la gente si diverte a vedere come sono realizzati. Escludo che questo abbia a che fare con l’ecologia. Per cui c’è ancora molto da fare perché queste tecnologie diano un reale contributo alla tutela dell’ambiente e delle risorse naturali.”

 

Prendiamo Industria 4.0: al momento prevale la discussione sulle ricadute dell’automazione sull’occupazione. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, l’automazione dei processi produttivi può portare benefici in termini di risparmio di risorse ed energia?

“C’è un aspetto che non va trascurato in questa discussione: dobbiamo chiederci se a causa del rebound effect, l’effetto rimbalzo, l’automazione non finisca in realtà per incrementare la produzione di merci e di conseguenza l’impiego complessivo di risorse ed energia. Mi spiego: l’aumento dell’efficienza spinge a produrre quantitativi maggiori di merci, dal momento che i processi produttivi risultano più efficienti e pertanto risparmiano materiali ed energia per realizzare ogni singolo prodotto; l’effetto finale, però, è che nell’insieme si consumano più risorse proprio a causa dell’ampliamento della quantità di prodotti realizzati. In altre parole, quello che l’efficienza fa guadagnare sul singolo prodotto, lo si perde a causa dell’aumento della quantità di prodotti. Lo stesso avviene a livello dei consumi: grazie all’efficienza energetica e all’uso efficiente delle risorse resi possibili dall’automazione, le industrie sono in grado di immettere sul mercato una quantità maggiore di merci a un prezzo più conveniente. Ma così si stimola l’aumento dei consumi, visto che ci sono più merci a disposizione a un prezzo più abbordabile. Se davvero vogliamo sfruttare l’efficienza energetica di Industria 4.0 per risparmiare risorse ed energia, bisogna accompagnare questo incremento della produttività con misure politiche come, per esempio, l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime in rapporto all’incremento dell’efficienza che si è raggiunto nel loro impiego.”

 

Nell’uso quotidiano che facciamo delle piattaforme di sharing economy quali sono gli esempi positivi in termini di contributo alla sostenibilità ambientale e quali quelli che vanno in tutt’altra direzione?

“Esempi positivi a mio parere sono i sistemi locali che consentono di condividere e scambiare strumenti e attrezzi di lavoro, auto, capi d’abbigliamento, e così via: in questo ambito lo sharing porta davvero a una riduzione dei consumi. E c’è anche un aspetto sociale apprezzabile, perché si costruiscono reti e rapporti di vicinato e amicali che possono rinsaldare e dare nuova linfa alle comunità. Come esempi negativi citerei quelle forme di sharing economy che portano non a rinunciare alla proprietà individuale di un bene, bensì a un aumento delle opzioni a disposizione delle consumatrici/dei consumatori. A questa sfera appartengono, a mio parere, i sistemi di car sharing free floating, che non sono usati da chi rinuncia alla proprietà dell’auto, bensì da chi ha un’auto parcheggiata a casa e usa il car sharing in città come opzione aggiuntiva. Un risultato davvero poco ecologico che fa aumentare il traffico automobilistico sulle strade. Un altro aspetto critico della sharing economy riguarda poi i player che la controllano.”

 

Può approfondire questo punto?

“Distinguerei due tipologie di piattaforme digitali: da un lato quelle di stampo capitalistico, come Uber e Airbnb che hanno raggiunto le dimensioni di una rete pressoché mondiale e controllano in senso puramente affaristico settori come quello residenziale-abitativo e quello del trasporto individuale. Dall’altro lato abbiamo le piattaforme ispirate a un modello cooperativo, di scambio.”

 

Couch surfing, la piattaforma utilizzata per offrire ospitalità gratuita in cambio di altra ospitalità, quindi senza passaggio di denaro, rientra in questa seconda categoria di cooperativa, giusto? 

“Certamente, e non è l’unica. Ci sono anche cooperative di tassisti. Passando allo shopping online, c’è Fairmondo.de, una comunità ambientalmente e socialmente responsabile che sta prendendo piede in Germania e che come filosofia sta agli antipodi di Amazon.”

 

Si discute anche della privacy messa a rischio dai Big Data, come anche Lei ha sottolineato intervenendo ai Colloqui di Dobbiaco 2017. È possibile tutelarla nella frequentazione delle piattaforme di sharing economy?

“È bene essere consapevoli che le informazioni che transitano su WhatsApp, Twitter, Facebook non sono protette. Online sono però disponibili anche soggetti concorrenti come Threema, per esempio, un servizio alternativo a WhatsApp che garantisce la privacy perché le informazioni sono criptate e accessibili solo a coloro che se le scambiano, senza possibilità nemmeno per il gestore di accedervi. Si tratta di un’app ancora di nicchia: basterebbe utilizzarla almeno nell’ambito della propria famiglia e nella cerchia dei propri amici. Non mancano alternative anche a Google: DuckDuckGo è un motore di ricerca privato che ha sede a Paoli, in Pennsylvania, che nella propria mission prevede la tutela dei dati degli utilizzatori delle piattaforme. Tuttavia non possiamo scaricare tutta la responsabilità su questi ultimi: anche la politica deve fare la propria parte. Ci sono già delle regole per la protezione della privacy che osservano polizia, pubblici ufficiali e i servizi segreti. Vanno estese anche all’ambito dei soggetti economici privati, stabilendo chi è autorizzato a elaborare e conservare i dati e a venderli eventualmente a soggetti terzi, per esempio all’industria della pubblicità. Sono disposizioni che vanno fissate per legge.”  

 

Istituto di ricerca economica per l’ecologia, www.ioew.de/en