Economia biobased: cosa ci possiamo aspettare?

Nel settore dei materiali l’idea di un’economia biobased è decisamente avvincente. Annuncia l’introduzione di nuove sostanze chimiche, di intermedi chimici (building blocks) e di polimeri con inedite possibilità di utilizzo. Ma anche la possibilità di sviluppare innovativi processi tecnologici come la biotecnologia industriale e di offrire soluzioni per la chimica verde e per l’economia circolare. Si ritiene infatti che ciò potrebbe contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici attraverso la sostituzione dei prodotti petrolchimici con materiali con un livello inferiore di emissioni di gas a effetto serra. Inoltre l’economia biobased potrebbe portare nuove opportunità economiche, nuovi investimenti e posti di lavoro nelle aree rurali, favorire lo sviluppo locale e sostenere le piccole e medie imprese. Infine l’utilizzo delle biomasse potrebbe essere ottimizzato attraverso bioraffinerie di nuova concezione. 

Già nel 2012 la Commissione europea affermava che “le bioraffinerie dovrebbero adottare un approccio a cascata nell’utilizzo dei propri input, favorendo i prodotti con il maggior valore aggiunto ed efficienti dal punto di vista delle risorse, quali i prodotti e i materiali industriali biobased, oltre la bioenergia”. Inoltre la Commissione sosteneva che “i vantaggi di tali prodotti rispetto a quelli tradizionali spaziano da processi produttivi più sostenibili, a maggiore funzionalità (i detergenti a base di enzimi, per esempio, funzionano più efficacemente a basse temperature, risparmiano energia e sostituiscono il fosforo), e a migliori caratteristiche (biodegradabilità e inferiore tossicità)”. 

Secondo un recente documento – il Communiqué del primo Global Bioeconomy Summit tenutosi nel 2015 a Berlino – “la bioeconomia è la produzione basata sulla conoscenza e l’utilizzo di risorse biologiche, processi e principi biologici innovativi per fornire beni e servizi in modo sostenibile a tutti i settori economici. […] I processi di innovazione dovranno concentrarsi sull’implementazione e il mantenimento del valore biobased. […] In molti paesi le piccole e medie imprese sono il motore principale dell’innovazione biobased. […] Le policy relative alla bioeconomia dovrebbero pertanto favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese allo sviluppo della bioeconomia” (GBS 2015).

 

Che cosa abbiamo ottenuto finora?

Non molto! Negli ultimi dieci anni la quantità di bioplastica utilizzata dall’industria chimica e plastica nell’Unione europea non ha registrato incrementi significativi. Solo nel settore della bioenergia e dei biocarburanti si è registrato un certo sviluppo grazie a un forte quadro normativo e agli incentivi previsti dalle leggi nazionali basate sulla direttiva sulle energie rinnovabili (Red, Renewable Energy Directive) e sul sistema di scambio delle emissioni (Ets, Emission Trading System). Questa disparità di condizioni è ben nota, e il suo impatto sullo sviluppo dell’industria chimica e plastica è rilevante, portando ad avere prezzi più alti e un accesso più difficile alle biomasse. 

Oggi nel settore biobased lo strumento di traino del mercato più importante è il Red, che crea una domanda artificiale di bioenergia e biocarburanti. In termini di volume di investimenti e di mercato la direttiva sulle energie rinnovabili è stata un successo, sebbene negli ultimi anni siano emerse diverse problematiche (Carus et al. 2015):

  • molti Stati membri sono in ritardo nel raggiungimento della propria quota di energie rinnovabili; 
  • la certificazione di sostenibilità delle materie prime è solo una parziale risposta alla pressione esercitata sugli ecosistemi. Inoltre, non risolve la questione riguardante il cambio di destinazione d’uso indiretto dei terreni e la perdita di biodiversità;
  • il sistema di duplicazioni del computo per alcune materie prime rimane un problema, così anche la loro classificazione come rifiuto, residuo o co-prodotto; 
  • a causa dell’aumento e dello squilibrio della domanda di biomassa nel settore dei materiali biobased si sono verificate delle strozzature nel settore delle materie prime;
  • l’attuale struttura del Red non tiene conto dell’efficienza delle risorse, del loro possibile utilizzo a cascata e dell’economia circolare. Addirittura può contraddire questi concetti: per esempio attraverso gli incentivi diretti all’utilizzo energetico della biomassa, e soprattutto per il fatto che alcuni tipi di biomassa vengono classificati come rifiuti quando invece potrebbero essere riutilizzati per produrre altri materiali. 

In breve, nonostante il suo elevato valore l’economia biobased non sta prendendo piede. Ciò è dovuto tra l’altro alle condizioni strutturali create dal Red, che impedisce sistematicamente nuovi sviluppi e investimenti in applicazioni a più alto valore aggiunto, quali le sostanze chimiche e i materiali biobased, perché sostiene unicamente l’utilizzo energetico delle biomasse (Carus et al. 2015).

Un punto di vista che trova conferma in una recente ricerca del progetto Bio-Tic (2015) nell’ambito del Fp7 (Settimo programma quadro): “Ciò significa per esempio che gli incentivi per la bioenergia […] potrebbero ostacolare l’utilizzo più efficiente della biomassa che consiste nel suo impiego materiale, dal maggior valore aggiunto. Bisognerebbe favorire il sistema ‘a cascata’ garantendo parità di condizioni, perché il mercato lasciato a se stesso assicurerà il massimo valore d’uso unicamente alla biomassa. Laddove i sussidi distorcono il mercato fino a diventare un problema per le altre attività industriali, la questione andrebbe affrontata a livello regionale o nazionale”.

Dal punto di vista ambientale, la vincente espansione di bioenergia e biocarburanti deve essere meglio regolamentata per evitare impatti negativi, quali i cambiamenti diretti e indiretti nella destinazione d’uso dei terreni (Luc, Land Use Changes, e iLuc), l’insicurezza alimentare e la deforestazione negli Stati Uniti per la produzione di pellet o per coprire la domanda del settore europeo della bioenergia: “Ogni anno i paesi europei importano milioni di tonnellate di pellet in legno da utilizzare come combustibile. […] La domanda di pellet in legno in Europa è aumentata esponenzialmente con l’introduzione da parte dell’Unione europea nel 2009 della direttiva europea sulle energie rinnovabili. Dato che il settore forestale è fortemente regolamentato in Europa, i paesi europei si sono rivolti al sudest degli Stati Uniti per soddisfare la propria crescente domanda di combustibile. […] Questa domanda è in aumento costante. Alcune stime sostengono che entro cinque anni l’Europa importerà una quantità pari a 70 milioni di tonnellate di legna da ardere. È possibile soddisfare una domanda di tali proporzioni astronomiche senza che le foreste americane ne vangano danneggiate? […] Non tutto il biocarburante a base di legno proviene da fonti sostenibili quali la segatura e il legno di scarto, semplicemente perché non ve ne è a sufficienza. Molte fabbriche per la produzione di pellet nel sudest degli Stati Uniti si riforniscono da foreste vallive mature di alberi a legno duro. Mississippi, Alabama, Georgia, Carolina del Nord e Virginia sono tra gli stati più colpiti. Spesso più industrie si riforniscono dallo stesso lotto boschivo, creando una zona critica in cui il taglio di alberi esercita una pressione insostenibile. Le foreste vallive di alberi a legno duro costituiscono un tipo di ecosistema umido con caratteristiche uniche, che si forma intorno a fiumi e torrenti. […] Il degrado e la distruzione della foresta, specialmente nel caso di zone umide altamente produttive come queste, può avere un impatto enorme e talvolta imprevedibile sul ciclo del carbonio. Gli sforzi dell’Europa per ridurre le emissioni di anidride carbonica potrebbero avere nuovi effetti negativi sul ciclo del carbonio stesso” (Yoon 2015).

 

Status

La bioenergia e i biocarburanti hanno registrato uno sviluppo molto positivo grazie al Red, ma in molti Stati membri gli incentivi sono stati ridotti e i nuovi investimenti sono pochi o subiscono ritardi. A seconda della percentuale raggiunta, nei diversi paesi il volume della bioenergia e dei biocarburanti è in crescita, si mantiene costante oppure è in calo.

Nell’industria chimica la percentuale complessiva biobased è rimasta stabile intorno al 10-12% da molti anni, non mostrando alcun aumento rilevante.

La figura 1 illustra i dati sull’occupazione e sul volume di affari nei diversi settori dell’economia biobased. Colpisce il fatto che, nonostante gli sviluppi descritti, il livello di impiego nell’industria chimica biobased sia maggiore rispetto ai due settori di bioenergia e biocarburanti messi insieme, e che i settori che utilizzano il legno nella produzione materiale hanno una percentuale occupazionale e un volume di affari superiore rispetto al settore della bioenergia che utilizza il legno come biomassa (vedi figura 2).

 

La figura 2 mostra il livello occupazionale per milioni di tonnellate di frazione secca di materie prime (tdm) nei diversi settori dell’economia biobased. La quota in verde mostra il livello di occupazione nel settore agricolo e forestale. Come previsto vi è un livello decisamente maggiore di impiego legato a un milione di tdm di biomassa agricola piuttosto che a un milione di tdm di legno. Tutte le applicazioni materiali della biomassa che comportano un ulteriore lavorazione per arrivare all’applicazione finale (quota in blu) determinano un livello occupazionale di molto superiore a quello legato a bioenergia o biocarburanti.

 

La figura 3 mostra l’andamento – dal 2003 al 2013 – dell’industria dei pannelli in legno e della bioenergia. In quest’ultimo settore il tasso occupazionale è cresciuto costantemente, grazie soprattutto al programma di incentivi. Al contrario, nell’industria dei pannelli in legno l’occupazione ha subito un calo costante. La stretta competitiva del settore della bioenergia sui prodotti secondari delle segherie non ne è l’unico motivo, ma uno dei principali. Gli incentivi alla bioenergia hanno fatto aumentare il costo del legname, e l’industria europea dei pannelli in legno – che non riceve incentivi – ha serie difficoltà a pagare prezzi più elevati quando è in competizione con il mercato globale dei pannelli.

 

La figura 3 a sinistra riporta il livello occupazionale in entrambi i settori: è interessante notare che tale livello è rimasto lo stesso nel 2003 e nel 2013. Ancor più significativo è il fatto che per raggiungere questo livello occupazionale con una percentuale molto più alta di bioenergia (il 70% nel 2013 invece del 25% del 2003), l’industria ha bisogno di 80 milioni di tdm in più di legno come materia grezza, che corrisponde a un incremento del 45%! (figura 3 a destra).

 

Previsioni

In effetti, un numero sempre crescente di esperti politici sono arrivati alla conclusione che favorire una tale disparità all’interno dell’economia biobased è stato un errore. Ci si aspetta che il prossimo programma per le energie rinnovabili per il periodo successivo al 2020 ridurrà gli incentivi per questo settore, mentre resta da vedere se dopo il 2020 gli Stati membri saranno vincolati o meno al raggiungimento di determinati obiettivi. Dunque, quale deve essere il prossimo passo? Spesso si dice che i biocarburanti, soprattutto il bioetanolo, sono precursori di possibili applicazioni chimiche, e che intorno a essi si stanno creando il volume e le infrastrutture necessarie all’economia biobased. Sembrerebbe un fatto positivo, ma dobbiamo stare attenti a non fare subito un altro errore.

Il bioetanolo è usato principalmente come precursore delle sostanze chimiche drop-in (drop-in è un termine con cui si intende un prodotto chimico a base biologica che può essere utilizzato direttamente in processi e applicazioni al posto di prodotti petrolchimici standard, ndr). Ma per la stragrande maggioranza dei nuovi intermedi chimici (building blocks), l’etanolo non è per nulla un precursore. Ancora una volta le policy avranno un grande impatto sullo sviluppo dell’economia biobased, e sarebbe importante che fossero orientate al futuro.

 

Le sostanze chimiche di base drop-in sono il prossimo passo in avanti o rappresentano un’altra strada senza uscita? 

A prima vista le sostanze chimiche di base drop-in non sembrano una cattiva idea (Mathijs et al. 2015). Per i seguenti motivi:

  • possono sostituire direttamente gli intermedi chimici basati su combustibili fossili in rapporto 1:1, per cui sono in grado di utilizzare con facilità il valore e le catene di produzione esistente come anche le infrastrutture dell’industria petrolchimica;
  • ciò significa che la loro adozione può essere rapida e con investimenti relativamente bassi;
  • esistono già mercati maturi con un volume di sostituzione potenzialmente alto come quello dell’etilene (dall’etanolo), del propilene (dall’etanolo e dal biogas) e i loro derivati Pe, Pp, Pet e Pvc;
  • in molti casi le loro emissioni di gas a effetto serra sono inferiori a quelle delle loro controparti petrolchimiche.

Ma uno sguardo più attento rivela che le sostanze chimiche di base drop-in presentano alcune criticità (Mathijs et al. 2015, Iffland et al. 2015):

  • l’efficienza d’uso della biomassa (BUE) dalla materia prima al prodotto finale (ossia quanta della biomassa utilizzata finisce effettivamente nel prodotto) ha una percentuale bassa, compresa tra il 25 e il 50% (Iffland et al. 2015);
  • per le sostanze chimiche di base drop-in si rendono necessarie tecnologie dell’isolamento e della purificazione. In molti casi le tecnologie per il frazionamento e la conversione sono ancora agli esordi;
  • le sostanze drop-in non offrono alcuna funzionalità aggiuntiva rispetto ai prodotti petrolchimici;
  • devono competere direttamente con i petrolchimici che sono prodotti a basso costo;
  • garantiscono poco valore aggiunto alla biomassa;
  • per ridurre i costi occorre una produzione su larga scala (procurarsi le materie prime a livello locale è quasi impossibile, la loro disponibilità è soggetta a variabili, la biomassa ha un costo elevato ed è impiegata anche in altri settori);
  • anche una produzione su larga scala però avrà costi più elevati per le materie prime e per la lavorazione rispetto ai prodotti petrolchimici e non sarebbe quindi competitiva, almeno con un elevato prezzo del greggio; 
  • la loro messa in produzione necessita di un forte sostegno da parte della policy e incentivi a lungo termine, oltre a una forte motivazione da parte dei cittadini che dovranno affrontare costi più elevati per un lungo periodo. 

Non sarebbe meglio produrre sostanze chimiche pregiate con funzioni nuove per i mercati emergenti, con un processo di conversione della biomassa più efficiente? “La biomassa è limitata e dovrebbe essere utilizzata in modo più efficiente: più valore aggiunto e più occupazione con meno biomassa” (Carus et al. 2011).

Le sostanze chimiche di base drop-in biobased sono i fratelli e sorelle dei biocarburanti. Ciò è allo stesso tempo un bene e un male: dovremmo esserne consapevoli e considerare con cura le possibili alternative, che potrebbero avvicinarsi maggiormente alle promesse originarie dell’economia biobased

Due recenti pubblicazioni sostengono questo punto di vista sulle sostanze chimiche drop-in biobased: “Bisognerebbe riuscire a ricavare valore da ogni aspetto del legno, e i processi per ‘estrarre’ questo valore dovrebbero essere studiati per ottenere il massimo della sinergia. In una bioraffineria pienamente integrata, qualsiasi fase si basa sulla precedente e prepara la successiva. È però difficile che queste bioraffinerie all’avanguardia si facciano strada finché sono guidate dall’idea di creare dei prodotti drop-in che sostituiscano semplicemente (in rapporto 1:1) quelli tradizionalmente forniti dall’industria petrolchimica. [...] Concentrandosi sul drop-in i produttori sono stati incapaci di costruire quel tipo di processo integrato che utilizza tutti i side stream e i sottoprodotti, e in questo modo si sono trovati ad affrontare costi più elevati. […] Insistere nell’adeguare la produzione ai drop-in comporta un costo troppo elevato per la preparazione e la lavorazione dei biomateriali, con una considerevole perdita di biomassa. Molto meglio sarebbe orientare lo sviluppo della bioraffineria verso il riconoscimento del carattere variegato della biomassa, e ricavarne valore attraverso un modello olistico e integrato. Crediamo che questa sia la strada attraverso la quale le bioraffinerie e i bioprodotti possono diventare competitivi senza necessitare di sussidi” (NISCluster 2015).

Anche la German Chemical Industry Association non crede nelle commodity drop-in come soluzione ottimale per la biomassa: “Il potenziale per coltivare ulteriore biomassa in Europa è molto basso rispetto al resto del mondo. Perciò il costo elevato del trasporto di biomassa a bassa densità di energia ci fa pronunciare a sfavore dell’importazione di grandi quantità di materie prime rinnovabili in Europa per la produzione di beni” (VCI 2015). 

Nel 2015 James Philp ha avanzato un’interessante e sorprendente proposta per le sostanze chimiche drop-in biobased. Pur essendo consapevole dei punti deboli delle commodity drop-in di cui abbiamo parlato, egli osserva come a un alto volume di produzione possa potenzialmente corrispondere la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra: “Per il policy maker la sostituzione del barile di petrolio richiede alternative biobased ai principali petrolchimici, per esempio l’etilene o altri olefinici a catena corta. La produzione di grandi quantità di un biobased che possa sostituire il petrolchimico incontra però due grandi ostacoli:

1. nel corso degli anni l’equivalente petrolchimico ha visto perfezionare il proprio processo di produzione e la propria filiera, e i costi degli stabilimenti petrolchimici sono stati ammortizzati: il petrolchimico quindi trae ora enormi benefici da un’economia di scala; 

2. i bioprocessi sono notoriamente inefficienti quando si tratta di raggiungere un livello di produzione che possa influenzare il mercato [...].

[James Philp propone di offrire] sostegno minore a un volume di produzione minore, e sostegno maggiore a un volume maggiore. Tutti ciò ha senso nell’attuale contesto politico in quanto:

  • un maggior volume di produzione comporta un maggior contributo al raggiungimento degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra;
  • dovrebbe agire come stimolo tanto ambito nel campo di Ricerca e Sviluppo per le aziende, che le spinga a migliorare i propri processi in modo da ridurre ulteriormente le emissioni di gas a effetto serra. 

[La proposta] si riferisce in modo specifico alle sostanze chimiche ad alto volume di produzione e a basso valore, perché queste hanno un maggiore impatto nella sostituzione dei barili di petrolio e nella riduzione delle emissioni. Sono però esattamente il tipo di sostanze chimiche che non hanno attrattiva per la giovane industria biobased, dato che è estremamente difficile sintetizzarle in modo efficace su larga scala, in competizione con l’industria petrolchimica” (Philp 2015).

Se si parte dalla necessità di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, questa proposta è assolutamente logica. Sembra però paradossale offrire incentivi a lungo termine a processi industriali su larga scala inefficienti e ad alto volume di produzione, invece che ad applicazioni innovative, efficienti e specializzate, adatte anche alle piccole e medie imprese. Inoltre il volume potenziale delle nuove soluzioni non-drop-in e dei prodotti chimici fini drop-in non dovrebbe essere sottovalutato. 

Bisogna però considerare se la riduzione del volume assoluto dei gas a effetto serra debba effettivamente essere l’unico criterio decisionale che guiderà il futuro quadro normativo dell’economia biobased. Non dovremmo piuttosto domandarci se vale davvero la pena di promuovere la chimica biobased tout-court, dato che diversi studi hanno dimostrato chiaramente che ci sono sistemi molto più vantaggiosi economicamente per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, quali l’isolamento termico delle case?

Se consideriamo altri parametri – quali il risparmio relativo di gas a effetto serra per tonnellate di biomassa, l’alta efficienza di utilizzo della biomassa (che significa meno biomassa e aree coltivate per la stessa quantità di prodotto finale), l’innovazione, gli investimenti e la competitività – appare privo di senso dedicare incentivi esclusivamente alle commodity drop-in, tra cui dobbiamo includere anche i prodotti chimici fini drop-in e le nuove sostanze chimiche.

 

Le gigantesche raffinerie a biomassa lignocellulosica rappresentano la prossima frontiera? O sono un altro vicolo cieco? 

Una delle grandi speranze dell’economia biobased europea consiste nelle grandi raffinerie a biomassa lignocellulosica. Ancora una volta la domanda è se queste possano effettivamente costituire una soluzione o se ci portino in un altro vicolo cieco. Il modo in cui queste raffinerie sono state concepite ha molti punti deboli, che sono anche il motivo per cui la loro realizzazione va così a rilento:

  • le bioraffinerie lignocellulosiche di recente costruzione produrranno costosi zuccheri C5 e C6 per i processi fermentativi, il cui prezzo è molto più elevato di quelli derivati dalla barbabietola da zucchero o dalla canna da zucchero;
  • questo svantaggio relativo al costo dovrà essere bilanciato dall’utilizzazione della lignina, cosa al momento quasi irrealizzabile; 
  • data la situazione, alcuni esperti propongono di passare a una scala di produzione enorme: per superare il problema del costo in un’economia di scala occorre utilizzare uno o anche due milioni di tonnellate di biomassa all’anno;
  • ciò significa che sono necessari grandi investimenti e che non sarà possibile rifornirsi a livello locale. Possibili localizzazioni di bioraffinerie di dimensioni così notevoli sarebbero limitate principalmente a grandi porti, come Rotterdam, Anversa o Amburgo. Ci sarebbe comunque il rischio di non riuscire a vendere i prodotti a prezzi competitivi, in particolar modo la lignina; 
  • queste bioraffinerie si concentrano soprattutto sulla produzione di sostanze chimiche di base drop-in come il bioetanolo, principalmente a causa del volume di produzione, delle strutture già esistenti e degli incentivi. Per realizzare tale produzione, i complessi polimeri di cellulosa devono essere scomposti per essere trasformati in beni a basso valore. I vantaggi e gli svantaggi dei drop-in sono stati discussi nel precedente paragrafo;
  • per realizzare queste bioraffinerie occorrono incentivi a lungo termine da parte del settore pubblico.

Uno dei motivi principali per sostenere la creazione di bioraffinerie lignocellulosiche è il raggiungimento di un’alta efficienza nell’utilizzo della biomassa, e l’eliminazione di bio-flussi di rifiuti inutilizzati. Ma si tratta di un’argomentazione ancora sostenibile? 

Se le bioraffinerie lignocellulosiche produrranno principalmente sostanze chimiche di base drop-in, l’efficienza nell’utilizzo della biomassa potrebbe essere molto limitata. Non dovremmo dimenticare che le industrie di produzione di zucchero e amido fanno già un utilizzo altamente efficiente della biomassa, come anche le industrie della pasta di legno e della carta. Questi impianti di produzione già esistenti devono essere considerati bioraffinerie ad alta efficienza e funzionano senza alcun tipo di incentivi: utilizzano tutte le parti della biomassa non lasciando alcun biorifiuto.

 

Smart, piccolo e intelligente: nuovi intermedi chimici biobased e percorsi innovativi per utilizzare a pieno il potenziale delle piattaforme molecolari funzionalizzate

Oggi la produzione di sostanze chimiche biobased genera un volume di affari pari a circa 48 miliardi di euro nella sola Unione europea (figura 1). Per la maggior parte non si tratta di sostanze chimiche drop-in, ma di sostanze biobased specializzate. Questa cifra potrebbe aumentare notevolmente attraverso l’impiego di tecnologie innovative o già note come la biotecnologia, le modificazioni chimiche e l’estrazione, e anche attraverso i nuovi intermedi chimici biobased e le loro innovative funzioni. 

Le strategie emergenti riguardano nuovi intermedi e sostanze chimiche, nuove catene di valore e investimenti in stabilimenti e infrastrutture. Questi nuovi intermedi chimici spesso vengono prodotti attraverso processi innovativi, specialmente dalla biotecnologia industriale che utilizza lieviti/funghi, batteri ed enzimi per produrre efficientemente sostanze chimiche quali l’acido succinico o lattico. Le nuove strategie emergenti basate sulla biomassa possono approfittare dell’utilizzo di livelli più alti di strutture già esistenti in natura. La biotecnologia industriale sta diventando un’importante tecnologia di trasformazione della biomassa: trasformazioni altamente specifiche possono essere ottenute in condizioni di reazione moderate e con rendimenti spesso molto elevati. Attualmente solo il 5-10% di tutti i processi per la trasformazione della biomassa nel settore chimico e materiale avviene seguendo un approccio biotecnologico, ma la tendenza è in forte crescita (Mathijs et al. 2015)

Oltre alla biotecnologia industriale, un altro importante percorso di utilizzo – che spesso può aver luogo prima o parallelamente ad altri percorsi di impiego – è costituito dall’estrazione di biomolecole complesse di alto valore. Sono già disponibili e parzialmente in uso composti estraibili da diverse fonti di biomassa, waste stream e residui. Questo vale in particolar modo per le sostanze chimiche derivanti dal pino, che vengono estratte da residui lignei e da flussi di rifiuti provenienti dall’industria della polpa di legno e della carta. Si tratta, in particolare, di sostanze chimiche derivate dal tallolio che vengono utilizzate come detergenti, solventi, lubrificanti, vernici, adesivi e così via. Un altro esempio è costituito dai residui dell’uva che contengono resveratrolo, polifenoli e tannini e sono utilizzati nelle vernici, nella conciatura e come nutraceutici. Vi sono molti altri esempi possibili che riguardano composti estraibili sempre di alto valore e con diverse possibili aree di utilizzo (Mathijs et al. 2015).

Paragonati alle sostanze chimiche di base drop-in, i percorsi biobased di utilizzo dedicati sono più efficienti, perché non sfruttano solo il carbonio della biomassa, ma la biomassa intera (carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto). Ciò si riflette in un’alta efficienza di utilizzo della biomassa (figura 4). La maggior parte dei nuovi intermedi chimici si trova nella parte superiore del diagramma, mentre la maggior parte dei drop-in ne occupa quella inferiore (Iffland et al. 2015).

 

Vi è però un altro interessante gruppo di sostanze chimiche drop-in, che sono in parte prodotti chimici fini, ma anche alcune commodity minori ad alta efficienza di utilizzo. Per queste sostanze chimiche i tradizionali percorsi petrolchimici sono complessi e lunghi, mentre i percorsi delle nuove biotecnologie possono risultare brevi ed efficienti.

I calcoli della BUE, pur riflettendo un approccio teoretico, hanno varie implicazioni nella vita reale: per esempio servono a misurare l’efficienza di diverse sostanze chimiche biobased utilizzate nei terreni agricoli (Iffland et al. 2015). 

“I prodotti biobased con una BUE più alta necessitano di aree di coltivazione inferiori per ottenere lo stesso output, paragonati a quelli con una BUE inferiore. Ciò dimostra che la BUE è in relazione diretta con l’efficienza del terreno e la quantità di terreno necessaria a coltivare un certo prodotto. Per esempio, per produrre la stessa quantità di Pe (polietilene) o di Pla (acido polilattico) dalla canna da zucchero, l’area di coltivazione della Pe deve essere almeno doppia rispetto a quella della Pla” (Iffland et al. 2015).

La normale capacità di produzione per le sostanze chimiche biobased dedicate va dalle 20.000 alle 40.000 tonnellate l’anno (come nel caso del nuovo BioAmber, il cui impianto in Canada fornisce 30.000 tonnellate di acido succinico l’anno), anche se ora esistono stabilimenti più piccoli (< 5,000 t/a) che producono specialità dall’alto valore commerciale. Negli impianti di piccola e media dimensione la domanda di biomassa può essere soddisfatta a livello locale: ciò significa che molti luoghi situati vicino alla zona di origine della biomassa locale sono adatti alla collocazione di impianti di produzione. “È di fondamentale importanza che la biomassa sia di produzione locale se le bioraffinerie integrate devono essere realmente connesse all’ambiente circostante” (Cayuela 2015).

Attualmente molte piccole e medie imprese sono impegnate in processi di produzione biobased dedicati: “le piccole aziende che cercano di produrre una sostanza chimica biobased commerciabile spesso optano per sostanze dall’alto valore commerciale e con un basso volume di produzione”. 

Intermedi chimici, polimeri e materiali dedicati e ricavati da biomassa oggi più promettenti sono elencati di seguito (basato su Mathijs et al. 2015 e altre fonti).

Fra le nuove sostanze chimiche biobased:

  • glicerolo e derivati, acido hydropropionico e aldeidi, acido itaconico, farnesene, furano (Hmf, Furfurale, Fdca), acido lattico, acido levulinico, sorbitolo, acido succinico, xilitolo;
  • Pef, Pha, Pla; Pa (10,10, 10,12 e 12,12); 
  • lubrificanti e tensioattivi biobased (che registrano già un incremento annuale tra il 5 e il 10%, per esempio nel caso di soforo e ramnolipidi e di alkylpolyglycoside);
  • fibre di cellulosa (con un incremento annuale tra il 5 e il 10%), nano e micro cellulosa.
  • Sostanze chimiche drop-in prodotte attraverso nuovi percorsi di biotecnologia e dall’alto efficiente di utilizzo della biomassa: 
  • acido acetico, acido acrilico, acido adipico, butanediolo, butadiene, isoprene;
  • Pa (6,6), Pdo, Pbs.

Queste sostanze chimiche e polimeri soddisfano le aspettative dell’economia biobased attraverso l’aumento e mantenimento del valore biobased, nuove funzionalità (a seconda della sostanza chimica/polimero: meno prodotti indesiderati derivati, meno tossicità per l’ambiente, biodegradabilità), processi nuovi e migliorati (biotecnologia, estrazione, nuovi processi catalitici, migliore resa spazio/temporale, meno fasi di reazione e/o energia richiesta perché le reazioni possono aver luogo a temperature intorno ai 37° senza il bisogno, per esempio, di metalli rari come catalizzatori e di solventi tossici), soluzioni per la chimica verde e sostenibile e per l’economia circolare, contributo alla mitigazione dei cambiamenti climatici attraverso la sostituzione dei petrolchimici, che producono più emissioni di gas a effetto serra. Inoltre esse offrono nuove opportunità imprenditoriali, di investimento e di impiego nelle aree rurali, favorendo lo sviluppo a livello regionale e le piccole e medie imprese. Infine, ottimizzano l’utilizzo della biomassa nel suo insieme, attraverso una nuova concezione di bioraffineria integrata.

Dal nostro punto di vista, un’economia biobased di successo, che venga accettata sia dal pubblico sia dalle Ong, dovrebbe concentrarsi sulle sostanze chimiche biobased dedicate e sui materiali che abbiamo descritto, offrendo al consumatore e all’ambiente vantaggi comprovati, come la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

 

Il grande interrogativo sulle materie prime sostenibili: biomasse alimentari o non-alimentari per i prodotti biobased?

Una recente strategia a sostegno della sicurezza alimentare consiste nell’utilizzo di flussi di rifiuti e residui finora inutilizzati nella produzione di prodotti biobased. Il problema è che la maggior parte dei flussi di rifiuti provenienti da biomassa sono già utilizzati e che quelli non utilizzati sono più limitati – per volume e per proprietà – di quanto non ci si aspetti.

Dato che i produttori contano su un approvvigionamento costante di materie prime in quantità sufficiente, di una certa qualità e a costi ragionevoli, la produzione di prodotti biobased è strettamente legata alla biomassa legnosa o agricola. Quando si parla di prodotti agricoli, l’aspetto più importante è se esista terra disponibile per la loro coltivazione, e non la loro natura di produzioni alimentari o non alimentari. L’utilizzo di biomassa non alimentare non implica una maggiore sicurezza alimentare; su questo aspetto è stata già svolta un’analisi approfondita (Carus et al. 2013). Immaginate un’enorme bioraffineria con una domanda di biomassa che necessita approssimativamente la coltivazione di 50.000 ettari di terreno. Che cosa è meglio in termini di sicurezza alimentare? Coltivare varietà non alimentari, che spesso necessitano di ancor più terreno per la stessa quantità di molecole adatte, o coltivare varietà alimentari in quantità superiore, che in caso di crisi alimentare possono essere utilizzate come cibo?

La miglior soluzione sembra essere quella di utilizzare biomassa locale in impianti di produzione di piccole o medie dimensioni, di servirsi di flussi di rifiuti da biomassa, di varietà alimentari coltivate in quantità superiori al necessario (soprattutto per processi dedicati e ad alta efficienza), di biomassa lignocellulosica di seconda generazione e anche di alghe di terza generazione, per applicazioni specifiche e di alto valore commerciale. La scelta migliore dipende dal territorio e dal tipo di processo e prodotto in questione (Bruins e Sanders 2012). “Oggi le materie prime di prima generazione come la canna da zucchero, la barbabietola, il mais e la cassava prodotti a livello industriale sono utilizzati per la produzione di acido lattico. Sono coltivati seguendo i principi dell’agricoltura sostenibile e hanno un’alta resa per ettaro di terreno utilizzato. Queste materie prime altamente efficienti sono, e probabilmente rimarranno, una buona alternativa per la produzione di acido lattico e polilattico (Pla). La Corbion Purac è la prima azienda al mondo ad aver ricavato Pla da materie prime di seconda generazione, ottimizzando la fermentazione dell’acido lattico per adattarle alle specifiche caratteristiche della biomassa. In futuro queste materie prime alternative potrebbero avere un notevole impatto sulle industrie biochimiche e della bioplastica” (Corbion 2015).

Oltre alle materie prime descritte, l’utilizzo diretto di CO2 insieme a batteri, alghe o processi chimici, sta diventando un reale alternativa nella produzione di alcune sostanze chimiche e di polimeri, ma soprattutto per i carburanti. Sarà importante analizzare dal punto di vista ambientale ed economico per quali percorsi è più adatta la CO2, e per quali sarà invece la biomassa a costituire la scelta migliore anche nel futuro a lungo termine.

 

Uno sguardo sul futuro dell’economia circolare

Nello sviluppo dell’economia circolare, l’Europa deve tenere a mente che l’economia biobased ha sì alcune problematiche specifiche, ma anche che è più integrata nella nostra vita di tutti i giorni segnata dall’economia lineare di quanto non pensino molti ricercatori e policy maker. Come sottolineato in precedenza, l’utilizzo a cascata della biomassa è chiaramente un forte legame tra l’economia biobased e quella circolare, che non è però supportato dal contesto politico attuale. Attualmente gli incentivi sono rivolti solo alla bioenergia e ai biocarburanti e ciò costituisce un ostacolo all’utilizzo a cascata della biomassa, più efficiente dal punto di vista delle risorse. 

Quando la Commissione europea ha ufficialmente lanciato il proprio pacchetto sull’economia circolare nel dicembre 2015, il tema dell’utilizzo della biomassa e il suo uso a cascata comparivano in due sezioni.

“In un’economia circolare l’utilizzo a cascata delle risorse rinnovabili, con diversi cicli di riuso e riciclo, dovrebbe essere incoraggiato laddove appropriato. I materiali biobased, come per esempio il legno, possono avere molteplici utilizzi, ed essere riusati e riutilizzati diverse volte. Questo si accompagna all’applicazione della gerarchia dei rifiuti e, più generalmente, alle opzioni che danno il miglior risultato complessivo dal punto di vista ambientale. Le misure adottate a livello nazionale, quali i programmi di responsabilità estesa al produttore per i mobili o gli imballaggi in legno o la raccolta differenziata del legno, possono avere un impatto positivo. [...] Il settore biobased ha anche dimostrato il proprio potenziale innovativo nei nuovi materiali, nelle sostanze chimiche e nei processi, che possono diventare una parte integrante dell’economia circolare. Realizzare questo potenziale dipende in particolare dagli investimenti nelle bioraffinerie integrate, in grado di trattare la biomassa e i biorifiuti per diversi utilizzi finali. L’Ue sta sostenendo tali investimenti e altri progetti innovativi basati sulla bioeconomia attraverso il finanziamento della ricerca” (Commissione europea 2015).

“La Commissione promuoverà l’utilizzo efficiente delle risorse biobased attraverso una serie di misure, tra cui la guida e la disseminazione di best practice sull’utilizzo a cascata della biomassa e il sostegno all’innovazione nella bioeconomia. La proposta legislativa riveduta e corretta sui rifiuti contiene un obiettivo per il riciclaggio degli imballaggi in legno e un provvedimento per assicurare la raccolta differenziata dei biorifiuti” (Commissione europea 2015).

Compiere un’analisi dettagliata di ciascun aspetto che dovrebbe essere affrontato se l’Europa aspirasse a una solida integrazione dell’economia biobased nell’economia circolare andrebbe oltre agli obiettivi di questo articolo. Il grafico riportato in figura 5 costituisce però il nostro contributo al dibattito, offrendo un’illustrazione che per la prima volta integra pienamente il settore biobased nell’economia circolare. Alcuni dei grafici attualmente più diffusi che descrivono la futura economia circolare differenziano, per esempio, i cicli dei materiali biologici da quelli tecnici (Ellen MacArthur 2013), cosa che non descrive con precisione gli attuali flussi delle risorse. Per questa ragione il nostro grafico include tutti i tipi di flussi materiali e mostra tutte le possibili strade di utilizzo che appartengono all’economia circolare. Il riciclo organico (ossia la biodegradabilità) e anche la cattura e l’utilizzo della CO2 prodotta attraverso processi industriali o presente nell’atmosfera sono inclusi per offrire un “concetto autenticamente comprensivo di economia circolare”.

 

nova-Institute, www.nova-institut.de

 

Bibliografia

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