Nel febbraio scorso Eric Solheim, il direttore del Programma ambiente delle Nazioni Unite che avevo intervistato per Repubblica, aveva disegnato un quadro piuttosto positivo della situazione: “In termini di guadagni derivanti dalle imprese coinvolte nella green economy, la Borsa italiana si colloca al decimo posto su scala mondiale. Alla fine del 2015 gli asset gestiti con criteri di investimento sostenibile e responsabile ammontavano a 616 miliardi di euro. Più del 22% del mercato assicurativo italiano è rappresentato da compagnie che hanno sottoscritto i principi per l’assicurazione sostenibile promossi dalle Nazioni Unite”. Ma aveva anche precisato che in Italia il mercato green è riservato agli operatori, non ai piccoli investitori, mentre ad esempio in Lussemburgo c’è il Lux Flag, un marchio di micro finanza garantito dall’associazione delle banche per assicurare larga diffusione a prodotti finanziari relativi a imprese impegnate in campo ambientale.
Questo è il punto critico da superare: passare da una conoscenza della materia riservata agli addetti ai lavori a un tema di larga diffusione. Le premesse ci sono tutte perché le varie crisi che periodicamente s’intrecciano (economica, energetica, delle risorse, sociale) mettono in evidenza, anche negli ultimi sondaggi di fine anno, una sensibilità crescente alle questioni ambientali.
E anche il panorama internazionale diventa sempre più netto. Lo dimostrano il peso che ha avuto la svolta green dell’economia in One Planet Summit, l’incontro organizzato dal presidente francese Macron per ribadire gli impegni di salvaguardia climatica decisi alla conferenza di Parigi di due anni fa, e il ruolo crescente della finanza verde sostenuta in modo particolare dalla Cina e dalla Francia (i green bond nel 2015 valevano 40 miliardi dollari, nel 2016 sono raddoppiati superando gli 80 miliardi, nel 2017 hanno avuto un altro balzo analogo).
Quello di cui ora c’è bisogno è la connessione tra questa sensibilità e le opportunità concrete di riconversione produttiva che vanno in direzione dell’allentamento delle tensioni sociali esasperate dal sommarsi delle crisi. Un link che, come dimostrano i servizi ospitati in questo numero di Materia Rinnovabile, comincia a profilarsi.
In Europa la Bio-based Industries Joint Undertaking, fondata nel 2014 per amministrare e gestire la partnership pubblica-privata da 3,7 miliardi di euro sulle industrie biobased, ha finanziato in un triennio 65 progetti (e l’Italia è il secondo Paese per numero di progetti approvati). Parliamo di progetti dimostrativi ma anche di progetti di peso, come quello coordinato da Novamont per la creazione in Sardegna di una bioraffineria molto innovativa, basata su colture oleaginose a basso input come il cardo coltivate in zone marginali per ricavare bio-monomeri ed esteri con cui realizzare lubrificanti, cosmetici, bioplastiche.
Lo sforzo europeo, che si è concretizzato anche nel pacchetto sull’economia circolare e nel primo forum sull’economia circolare che si è tenuto nel giugno scorso in Finlandia, ha sottolineato le possibilità offerte al mondo creditizio dall’economia circolare. E, come si racconta nelle pagine che seguono, Jamie Butterworth, ex amministratore delegato della Ellen MacArthur Foundation, ne ha approfittato per contribuire alla fondazione di Circularity Capital, una società creata proprio per rendere evidenti agli investitori le opportunità derivanti dalle aziende impegnate in un’economia circolare che si prepara al salto di crescita. La via è aperta, si tratta di percorrerla.
P.S. Applicando il principio della circolarità delle funzioni, da questo numero lascio la direzione di Materia Rinnovabile. Un ringraziamento a tutti i lettori che ci hanno seguito e sostenuto in questi tre anni e, alla testata, un augurio di buon proseguimento.